lunedì 26 dicembre 2011

Nella prigione del regime ho sentito la presenza di Dio

Yulia Timoshenko



Si dice che non esistono atei nelle trincee. Dopo il mio processo-spettacolo, e quattro mesi e mezzo in cella, ho scoperto che gli atei non esistono nemmeno in prigione.

Quando, nonostante un dolore insopportabile, venite interrogati per decine di ore, senza intervallo, e quando l'intero sistema coercitivo di un regime autoritario cerca di screditarti e annientarti una volta per tutte, la preghiera resta l'unica conversazione rassicurante, intima e confidenziale che uno può avere. Scopri che Dio è il tuo unico amico, e l'unica famiglia che ti rimane. Non ti permettono nemmeno la visita di un prete di fiducia, e non resta nessun altro a cui confidare paure e speranze.

In questa stagione dedicata all'amore e alla famiglia, la solitudine di una cella di prigione è quasi insopportabile. Il grigio, mortificante silenzio della notte (con i secondini che ogni tanti ti sbirciano, come voyeur, attraverso lo spioncino), le improvvise urla dei detenuti, grida di disperazione e rabbia, il distante clangore delle serrature: tutto questo rende impossibile dormire, o trasforma il sonno in un tormento di inquietudine. Ma la cosa strana è che i vostri sensi non vengono storditi da questo mondo morto e terribile. Al contrario, ne vengono riaccesi. La mente si libera dai problemi quotidiani per rivolgersi ai valori inestimabili e al tuo rapporto con essi: la libertà di spirito, il regalo veramente a sorpresa di questo Natale. Nell'oscurità della cella ricevo forza e speranza dal fatto che Dio, in qualche modo, è vicino a me. Dove dovrebbe essere Cristo, se non con quelli che soffrono e sono vittima di persecuzioni?

Ho letto di recente le meravigliose «Lettere dalla prigione» di Dietrich Bonhoeffer, nelle quali invocava un Cristo in grado di offrire carità al mondo che in quel momento veniva martirizzato. Scritto in una cella stretta, umida e putrida, è un libro ricco di fede, aperto all'opportunità e, sì, alla speranza, perfino nell'ora più oscura di una vita umana. Un passaggio in particolare continua a tornarmi in mente mentre osservo il calvario dell'Ucraina. Mentre aspetta di venire giustiziato da nazisti, Bonhoeffer scrive che in prigione «l'assenza di Dio dal mondo non viene occultata, ma al contrario svelata, esposta in una luce nuova».

In questo Natale traggo conforto dalla consapevolezza che l'assenza di Dio, l'inumanità e la criminalità del regime che oggi governa a Kiev, vengono esibite al mondo in piena luce. Le sue finzioni democratiche sono state smascherate come cinico teatrino politico, il suo dichiarato desiderio di un futuro europeo svelato come una bugia, e la rapacità dei suoi cleptocrati viene messa a nudo. Il disprezzo del regime per la Costituzione e il governo della legge è ormai innegabile, e questa certezza mi dà forza.

Ma, quello che è più importante, le sofferenze degli ucraini sono sempre più conosciute nel mondo, non siamo più da soli nel nostro calvario. E per alleviarlo si sono uniti in tanti in Europa e nel mondo. L'oppressione quotidiana, i media imbavagliati, l'estorsione di tangenti agli imprenditori, sono tutti fenomeni di uno Stato mafioso al confine con l'Europa. I nostri amici europei non possono più negare l'arrogante viltà del regime con il quale sono costretti a trattare. E sono felice che questo Natale posso credere che l'Europa democratica non tollererà questo stato delle cose. Gli ucraini si sentiranno più forti quando sapranno che non sono più soli nella loro lotta.

Non mi spaccio per esperta di fedi religiose e valori spirituali. Sono soltanto una credente che non accetta l'idea che la nostra esistenza sia la conseguenza di uno strano incidente cosmico. Io credo che siamo parte di un disegno misterioso e complesso, di un atto la cui fonte, direzione e obiettivo, per quanto difficili da cogliere certe volte, hanno un senso, anche quando uno sta dietro le sbarre di una prigione. C'è solo fede nell'idea che le nostre vite valgono qualcosa, e che le nostre decisioni devono venire giudicate dal loro contenuto morale, che noi, in Ucraina e altrove, riusciremo a trovare una via d'uscita dall'infelicità, dall'afflizione e dalla disperazione che ci consumano da due anni. E' in nostro potere riprenderci e rafforzare le nostre libertà e le nostre società, non grazie a sforzi individuali, ma unendoci con persone che la pensano come noi, in tutto il mondo. So che ci riusciremo.

Questo Natale chiedo alla mia famiglia e ai miei amici, dovunque siano, di non preoccuparsi per me. Come disse Anna Akhmatova, la grande poetessa e cronista del terrore di Stalin, «Sono viva in questa tomba». In effetti, so di essere più viva di quelli che mi hanno chiusa qui.

Il Natale è simbolo della possibilità di un nuovo inizio per tutte le donne e tutti gli uomini. Le ultime parole di Bonhoeffer furono: «Questo per me... è l'inizio della vita».

 

Camillo Prampolini: predica di Natale del 24 dicembre 1897

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Quando i contadini e i giornalieri uscirono dalla chiesa, videro sulla strada un uomo che, salito su un tavolo e circondato da alcuni del villaggio, cominciò a parlare Si avvicinarono.
Era il giorno di Natale, e quell'uomo diceva: Siete voi cristiani?
Lavoratori! Ancora una volta voi avete festeggiata nelle vostre case e nella vostra chiesa la nascita di Gesù Cristo. Ma interrogate la vostra coscienza: siete ben sicuri di meritare il nome di cristiani? siete ben sicuri di seguire i principii santi predicati da Cristo e pei quali egli morì?
Badate! Voi vi dite cristiani, perché recitate le preghiere che vi insegnarono i vostri parenti; perché andate alla messa e alla benedizione; perché infine vi confessate, vi comunicate e osservate tutte le altre pratiche del culto cattolico.
Ma credete voi che questo basti per chiamarsi cristiani?
Voi non potete crederlo, o amici lavoratori. Non potete crederlo, perché diversamente - se si dovesse ammettere che il cristianesimo consista nelle sole pratiche del culto cattolico - si dovrebbe arrivare alla strana, assurda, ridicola conclusione che i primi e più devoti seguaci di Cristo e lo stesso Cristo in persona non furono cristiani!

I primi cristiani - Come furono perseguitati 

Voi sapete, infatti, che quasi duemila anni or sono, quando Cristo cominciò a predicare la sua fede, non c'erano né curati, né parroci, né vescovi, né cardinali, né papi e neppure "chiese" nel senso che voi date a questa parola. Gesù - il figlio del povero falegname di Nazaret - andava per le vie e per le piazze a spiegare le sue dottrine.
Voi sapete che egli era quasi solo contro tutti; che lo seguivano soltanto degli umili popolani: dei pescatori, degli artigiani, delle povere donne e dei ragazzi; che i ricchi e i sacerdoti del suo paese, i farisei e gli scribi lo derisero dapprima come un matto e poi, quando videro che le sue idee si facevano strada, lo fecero arrestare come un perturbatore dell'ordine, come nemico della società e della religione: e - stoltamente iniqui, credendo di seppellire con lui il suo pensiero - lo trassero a morte, condannandolo al crudele e infamante supplizio della croce.
Voi sapete che per trecento anni i suoi seguaci continuarono ad essere vittime delle più feroci persecuzioni. Considerati quali malfattori; odiati nei primi tempi anche dal popolo, che in generale era ancora troppo ignorante, superstizioso ed incivile per comprendere il loro ideale; lapidati, gettati in pasto alle fiere, uccisi a migliaia, essi dovevano nascondere la loro fede quasi fosse un delitto: e per trovarsi insieme qualche ora tra fratelli, lontani dai nemici, a parlare delle loro dolci speranze, dovevano cercar rifugio sotto terra, nel silenzio solenne delle catacombe. Voi sapete che finalmente, dopo tre secoli di lotta, al tempo dell'imperatore Costantino - quando il loro numero fu cresciuto al punto che ormai quasi tutto il popolo era con loro, e i potenti si accorsero che le persecuzioni erano inutili - le persecuzioni cessarono.
E allora anche i ricchi, anche i re e gli imperatori e tutti vollero dirsi cristiani. E Cristo fu adorato come Dio.

Gesù Cristo e le preghiere

Sorsero appunto allora le prime "chiese", apparvero allora i primi preti, i quali poi andarono via via moltiplicandosi e introdussero l'uso della messa, della benedizione, della confessione e di tutte le altre cerimonie cattoliche, quali sono adesso.
Ma Gesù e i suoi primi e grandi discepoli non praticarono nessuno di questi usi. Anzi (sta scritto nel Vangelo) Gesù chiamava ipocriti quei tali che al suo tempo "amavano di fare orazione, stando ritti in piè" - com'egli diceva - "nelle sinagoghe e ne'canti delle piazze, per essere veduti dagli uomini". E insegnava che la sola cerimonia religiosa, la sola preghiera da farsi era il Pater noster, che ognuno doveva recitare solidariamente nella propria stanza.
Ora: vorrete voi dire, amici miei, che Gesù Cristo non era cristiano? Vorrete voi dire che non erano cristiani quei generosi popolani, padri vostri, che con lui, sfidando le persecuzioni e il martirio, furono i veri fondatori del cristianesimo?
Voi non direte certamente una simile assurdità.

Il "regno di Dio"

Ma allora perché furono cristiani quegli uomini, che pur non andavano a messa e non conobbero preti né chiese?
In che consiste dunque veramente la dottrina di Cristo? Quali erano i principii che egli predicava e che suscitarono tanto rumore e tanta guerra intorno a lui e a'suoi seguaci?
Eccoli qui, o lavoratori, i principii essenziali del cristianesimo, i principii che bisogna seguire se si vuole davvero essere cristiani. Gesù era profondamente convinto che gli uomini fossero tutti figli di uno stesso padre celeste: Dio; e Dio egli lo concepiva come un essere infinitamente giusto e buono.
Ora, come mai - egli si domandava - come mai esistono nel mondo tante ingiustizie? Come mai gli uomini sono divisi in ricchi e poveri, in padroni e schiavi? Come mai vi sono gli Epuloni viventi nel lusso e i Lazzari tormentati dalla più crudele miseria? È possibile che Dio - il padre infinitamente giusto e buono - voglia queste inique disuguaglianze tra i figli suoi?
No - egli pensava - evidentemente queste disuguaglianze derivano solo dall'ignoranza e dalla malvagità degli uomini. Dio non può volerle.
Certamente, Dio le condanna. Certamente, Dio vuole che gli uomini vivano come fratelli - distribuendosi in pace e giustizia la ricchezza comune - e non già vivano come lupi in lotta l'uno contro l'altro, godendo gli uni della miseria degli altri.
Dunque - diceva Gesù ai suoi compagni - noi dobbiamo far guerra a questo doloroso e brutto regno dell'ingiustizia in cui siamo nati; noi dobbiamo volere, fortemente volere il regno della giustizia, dell'uguaglianza, della fratellanza umana, perché questo è il regno che Dio vuole fra gli uomini; noi dobbiamo persuadere i nostri fratelli che esso è possibile e non è un sogno.
Dobbiamo trasfondere in loro la nostra fede, e il "regno di Dio" si avvererà....
Questo, o lavoratori, questo era il pensiero, e questa fu la predicazione di Cristo.
Un odio profondo per tutte le ingiustizie, per tutte le iniquità, un desiderio ardente di uguaglianza, di fratellanza, di pace e di benessere fra gli uomini; un bisogno irresistibile di lottare, di combattere per realizzare questo desiderio - ecco l'anima, l'essenza, la parte vera, santa ed immortale del cristianesimo....
Siete cristiani?
Ed ora ditemi: siete voi cristiani? lo sentite voi questo benefico odio pel male? lo sentite voi questo divino desiderio del bene? Voi che cosa fate per combattere il male? che cosa fate per realizzare il bene?
Perché - badate, amici miei! - voi potete anche andare in chiesa ogni giorno; voi potete ogni giorno confessarvi e comunicarvi; voi potete recitare quante preghiere volete; ma se assistete indifferenti alle miserie e alle ingiustizie che vi circondano, se nulla fate perché esse debbano scomparire, voi non avete nulla di comune con Cristo e i suoi seguaci, voi non avete capito nulla delle loro dottrine, voi non avete il diritto di chiamarvi cristiani...
Ebbene, in questo giorno di Natale, mentre voi festeggiate la nascita dei Nazareno, io che appartengo al partito socialista, sono qui a dirvi: siate cristiani, o lavoratori, ma siatelo nel vero ed alto senso della parola!

Cristo non fu ascoltato

Il "regno di Dio" voluto da Gesù, non fu ancora attuato, Passati i pericoli dei primi anni del cristianesimo, molti vollero dirsi cristiani, ma quasi nessuno si ricordò de'principii di Cristo. Ed ora - voi lo vedete - le disuguaglianze e le miserie che egli ha combattuto sono più vive che mai. Il mondo è devastato e insanguinato dal sistema capitalista, che è il sistema dello sfruttamento, della speculazione, della concorrenza, della guerra.
E appunto perciò io dico a voi uomini e donne: siate cristiani - cioè combattete questo iniquo e barbaro sistema economico, frutto dell'egoismo individuale, che colpisce principalmente voi e i vostri fratelli di lavoro e che dissemina sulla terra lutti e rovine.
È venuto il tempo in cui il sogno di Cristo può essere finalmente realizzato. Basta che i lavoratori lo vogliano.
Lavoratori, organizzatevi!
Se i lavoratori dei campi e delle città si daranno la mano; se avranno fede nella giustizia; se comprenderanno che gli uomini sono uguali e che per conseguenza nessuno ha diritto di dirsi padrone di un altro e di vivere a spese altrui, ma tutti hanno l'obbligo di prendere parte al lavoro necessario alla via di tutti; se per vivere umanamente - cioè per diventare liberi, per non aver padroni e godere insieme l'intero frutto delle loro fatiche - i lavoratori, invece di vivere isolati e di farsi concorrenza, metteranno in pratica il precetto di Cristo: Amatevi gli uni cogli altri siccome fratelli, e formeranno dovunque le loro organizzazioni; allora, davanti alla loro crescente e sempre più capace organizzazione, le ingiustizie sociali scompariranno come si dileguano le tenebre dinanzi al sole che nasce. E sorgerà così il mondo buono e lieto della solidarietà umana agognato da Cristo, il "regno di Dio".
Lavorate a farlo sorgere, o lavoratori! Se non per voi, fatelo per i vostri figli; i quali - poiché li generaste - hanno bene il diritto che voi vi adoperiate in ogni modo, affinché non siano essi pure costretti a vivere la vita misera e serva che da secoli voi vivete. Unitevi, organizzatevi! per voi, per le vostre donne, pei vostri bambini; per la difesa dei vostri più indiscutibili diritti; per la redenzione doverosa della vostra classe!
Per voi e per tutti, o lavoratori, abbiate fede nel bene, sappiate volerlo, - sorgete, lottate perché la giustizia sia!
"Beati coloro."
Solo in questo modo voi potrete dirvi veramente seguaci di Cristo e raggiungerete la meta ch'egli intravvide e per la quale egli e mille martiri generosamente si sacrificarono. Lo disse Gesù istesso nel suo famoso "Discorso della Montagna". "Beati coloro che sono affamati e assetati di giustizia, perciocché saranno saziati"!
"Beati coloro che son vituperati e perseguitati per cagion di giustizia!" Prendete a guida della vostra vita queste parole, o amici lavoratori, e voi sarete.... socialisti.
Sì, voi sarete con noi, voi lotterete tutti al nostro fianco, perché noi socialisti siamo oggi i soli e veri continuatori della grande rivoluzione sociale iniziata da Cristo.
Siamo noi "gli assetati di giustizia". Siamo noi che, in nome dell'uguaglianza umana leviamo alta un'altra volta la bandiera dei poveri, dei diseredati, dei piccoli, degli umili, degli oppressi, degli avviliti, dei calpestati! Siamo noi che - innalzando un inno al lavoro produttore d'ogni ricchezza - annunziamo ai ricchi padroni del mondo il trionfo immancabile e il regno dei lavoratori; noi che ci sforziamo ad affrettare questo regno; noi i "vituperati e perseguitati per cagion di giustizia".

Camillo Prampolini



sabato 10 dicembre 2011

Un ideale altro e alto: il sacrificio

Riscoprire il significato fecondo del sacrificio richiede un discernimento su azioni e comportamenti che da tempo abbiamo rinunciato a esercitare, assumendo senza alcuna criticità quello che il consumo, il mercato e la propaganda ci presentavano come stile di vita «normale». Così non sappiamo più distinguere tra necessario e superfluo, né riusciamo a mettere ordine nel nostro universo mentale e comportamentale tra bisogni, desideri, voglie, sogni e capricci. Si è come smarrita ogni scala di priorità: tutto pare sullo stesso piano, perché tutto attiene in positivo o in negativo al suo impatto sulle nostre sensazioni immediate. Noi abbiamo smarrito il senso della communitas tra contemporanei come di quella che ci lega con responsabilità alle generazioni future: vogliamo leggere, definire, vivere e consumare il nostro orizzonte limitandolo a un «io» narcisistico e prepotente o a un «noi» ristretto e fissato dal nostro vantaggio e non dalla realtà della polis.

Credo che questo smarrimento culturale ed etico abbia profondamente a che fare con l'affievolirsi del «senso» attribuibile ai «sacrifici»: se non ci sono principi condivisi, se non c'è un fine superiore alla momentanea soddisfazione personale, se non si percepisce alcun legame tra generazioni né responsabilità verso il futuro della collettività, sarà ben difficile rinunciare spontaneamente a qualcosa o aderire con convinzione a una rinuncia imposta dalle circostanze avverse. Se manca un orizzonte condiviso, se ogni atteggiamento è eticamente indifferente, se pretendiamo come diritto tutto ciò che è tecnicamente o economicamente possibile, allora ci troveremo impotenti di fronte a ogni avversità, le subiremo come catastrofi ineluttabili e cercheremo di sottrarci ad esse senza gli altri o addirittura contro di loro. Il sacrificio amputato della solidarietà, la rinuncia svuotata della speranza, il prezzo da pagare dissociato dal valore del bene da acquisire diventano insopportabili: nella communitas, infatti, il sacrificio è il debito che io liberamente assumo verso l'altro, altrimenti la communitas stessa cessa di esistere.

Solo un ideale altro e alto, la speranza di contribuire a un mondo migliore di quello che abbiamo conosciuto, la preoccupazione per il benessere di chi verrà dopo di noi, la solidarietà con chi, vicino o lontano da noi, non può accedere a beni essenziali che noi non ci rendiamo nemmeno più conto di possedere può spingerci non solo ad accettare i sacrifici ma ad affrontarli con consapevolezza e convinzione: quanti tra coloro che ci hanno preceduto avrebbero affrontato le difficoltà della vita se non avessero sperato di offrirci una condizione migliore? Perché il risultato del sacrificio non è il poterne fare finalmente a meno, bensì l'affermare con la propria vita quotidiana che un altro mondo è possibile, che l'uomo non è nemico dell'uomo e che vi sono principi di equità, di giustizia, di pace, di solidarietà che vale la pena vivere a qualunque prezzo: in fondo, il valore di ogni nostro desiderio è il prezzo che siamo disposti a pagare per raggiungerlo.

 

domenica 4 dicembre 2011

Il cammino

ALESSANDRO AVENIA

Tu come hai fatto a capire che quella è la strada per te, il modo in cui giocarti la tua intera vita?».
Così mi ha scritto una ragazza di 16 anni, dopo aver finito di leggere «Cose che nessuno sa», mentre stavo scrivendo questo articolo.

Si può morire restando vivi. Si muore in molti modi e il più diffuso è quello della solitudine causata dall'assenza di possibilità di raccontare la propria storia, unica e irripetibile, a qualcuno. Amiamo e vogliamo essere amati perché ci sia almeno un interlocutore a cui poterla raccontare questa nostra benedetta vita così grande e fragile. Alcuni giovani muoiono da vivi, per assenza di racconto. Il mondo che dovrebbe ascoltare le loro vite, quello degli adulti, giudica la loro tela assurda, prima ancora che tratti e colori di quella storia si siano potuti dispiegare.
Si muore giovani, e non perché cari agli dei, ma perché disprezzati da loro. Non per una guerra cruenta, ma per mancanza di sguardo: una vocazione, una unicità, per essere ha bisogno di essere percepita.

La gioia di vivere - mi hanno insegnato i miei genitori e maestri - non dipende dal successo, ma dal fatto di occupare il proprio posto nel mondo, nella fedeltà a quello che siamo chiamati a essere e fare, sulla base dei nostri talenti e dei nostri limiti, la conoscenza dei quali ha il suo spazio privilegiato nell'infanzia, nell'adolescenza e nella prima giovinezza. Ciascuno di noi è la propria vocazione, la propria chiamata, il proprio compito. Sul tempio di Apollo a Delfi c'era scritto «Conosci te stesso». Da lì prese le mosse il pensiero occidentale ed è lì che bisogna guardare per questa crisi che è prima ancora che economica, una crisi di senso e di identità.

Eraclito disse che il carattere dell'uomo è il suo destino. Platone immaginò nel mito di Er che un «dàimon» ci affiancasse, perché il destino di ciascuno si compisse. Tutti sappiamo che qualcosa ci chiama a percorrere un certo cammino. Magari non si tratta di un annuncio eclatante, ma di piccole spinte (un libro, un film, un incontro, un fatto...) verso una strada, mentre eravamo persi in una selva di vie possibili. Ognuno di noi è irripetibile e la libertà, diceva Hannah Arendt, è «esserci per un nuovo inizio»: a ciascuno di noi è affidato il proprio sé come inizio, compito e compimento. Solo questo genera gioia di vivere: armatura forte di fronte ai fallimenti, spada che consente di non rifugiarsi, impauriti dalla vita, in autismi virtuali ed emotivi (dipendenze di ogni tipo).

Quando un adolescente cerca di spiegare la propria strada, senza rendersene conto porta la mano al cuore, come se intuisse il mistero di sé. È uno dei momenti del mio mestiere di insegnante che amo di più: quando si «accorano», si attorcigliano attorno al proprio cuore per ascoltarlo e spesso accade quando sono ascoltati. Sarà proprio la scoperta di questa unicità, percepita, preservata, ricordata, difesa da chi ci ama a dare senso al quotidiano vivere, anzi proprio a quel ripetitivo copione darà brillantezza e novità. Questo vale in ogni epoca e in ogni congiuntura storica, anche e soprattutto le crisi, durante le quali si è costretti ad andare all'essenziale. Questo ai giovani non può e non deve essere tolto: la bellezza che alberga nell'unicità di ciascuno ha bisogno di ricevere uno spazio, un riconoscimento, per non morire. Questo spazio è la famiglia, questo spazio è la scuola.

I ragazzi chiedono ogni giorno questo riconoscimento. Hanno nostalgia di uno sguardo che riconosca la loro unicità, che non giudichi e inscatoli la loro vita prima ancora di averla accettata nel suo straordinario, scomposto, contraddittorio emergere, che è già segno di ricerca. Questo mi chiedono ogni giorno: «Aiutami ad essere me stesso». I giovani di oggi hanno questa fame, io lo vedo, ma questa fame di sé, questa fame di destino, questa fame di futuro è stordita dalla sazietà del benessere. Se non ho fame di futuro il mio presente sparisce. E ha un sogno solo chi si ferma a considerare i mezzi che ha per attuarlo. Ma se invece di conoscermi sonnecchio per riuscire a digerire l'eccesso di portate di cui vengo ingozzato, sarà tardivo e brusco il risveglio: chi sono io e che ci faccio qui?

Se so chi sono e che ci faccio qui è perché a 16 anni ho trovato chi mi aiutasse a unire i pezzi ancora sconnessi del puzzle della mia vita e a percepirmi come compito da realizzare. A 16 anni ho deciso di diventare insegnante perché avevo un insegnante che amava non solo ciò che insegnava, ma amava la mia vita con la sua irripetibilità. A 16 anni ho deciso che volevo dedicare la vita ai ragazzi perché il professore di religione della mia scuola, padre Puglisi, si lasciò ammazzare per provare a cambiare le cose.

A 16 anni i miei genitori mi hanno messo alla prova, e io che li mandavo a quel paese come ogni adolescente, in realtà toccavo la reale consistenza dei miei sogni. Questi mentori mi hanno insegnato che non è il successo il criterio per essere sé stessi, ma che essere se stessi è il successo. Molti ragazzi rimangono paralizzati all'idea che non riusciranno a realizzare i loro sogni e questo è il veleno di una società che lavora per produrre, comprare e consumare, anziché lavorare per costruire un tempo buono e ampio per appartenersi e appartenere attraverso relazioni e amicizie vere.

Se il criterio di giudizio dell'agire è il successo, si rimane prigionieri di un destino crudele, che può schiacciare prima ancora di mettersi in movimento. Invece ciò che rende felici è realizzare la propria vocazione, indipendentemente dal riconoscimento «della folla». Si può avere successo come madre, come insegnante, come panettiere. Basta essere pienamente ciò a cui si è chiamati.

È la crisi ad aver rubato ai giovani il futuro? No. La crisi farà venire più fame, costringerà a non accontentarsi del benessere per essere felici. Il futuro ai giovani lo rubano gli adulti che non li guardano, gli adulti che occupano i posti di potere e se ne fregano del bene comune, gli adulti che fanno diga per l'ingresso di nuove leve negli ambienti di lavoro, gli adulti che non sono disposti a mettersi al servizio della generazione successiva passando il testimone. Come tanti Crono se ne stanno seduti a digerire i figli che loro stessi hanno messo al mondo.

I sistemi educativi dovrebbero riconsiderare le loro priorità. Cominciamo a credere nella unicità delle vite che ci sono affidate, serviamole togliendo qualcosa al nostro egoismo. La cena con i figli è più importante di una pratica di lavoro sbrigata la sera tardi, una moglie stanca dopo una giornata infernale è più importante di una partita di calcio in tv, un alunno è più del suo 4 o del suo 8...

Dalla famiglia e dalla scuola si può ripartire: non si richiedono riforme strutturali, ma riforme del cuore e della testa. In famiglia e a scuola ho imparato a occuparmi degli altri e a non pensare di essere il centro del mondo. In famiglia e a scuola ho scoperto la mia vocazione.
Lo aveva già scritto in pochi versi Dante quando il suo maestro, Brunetto Latini, gli disse: «Se tu segui tua stella/ non puoi fallire a glorïoso porto/ se ben m'accorsi ne la vita bella/ e s'io non fossi sì per tempo morto/ veggendo il cielo a te così benigno/ dato t'avrei a l'opera conforto».
 

 

Boundaryless Youth

IRENE TINAGLI
«Buona fortuna figliolo!», così si salutavano un tempo i giovani che decidevano di fare le valigie e andarsene in cerca di opportunità lontano da casa.

Oggi invece è a quelli che restano che bisogna augurare buona fortuna, perché per chi resta inchiodato nel proprio Comune di residenza le prospettive sono sempre più ristrette. Non è tanto la mobilità geografica, di per sé, a far la differenza, ma la possibilità di accedere ad opportunità diverse e qualificanti, di maturare esperienze più variegate. Perché oggi è finita l'era delle carriere «verticali», le storie degli impiegati che da semplici fattorini finiscono la loro carriera come dirigenti o presidenti di quella stessa azienda. Oggi è l'era delle «boundaryless careers», le carriere senza confini, come scrisse qualche anno fa la professoressa Denise Rousseau, esperta di organizzazioni e lavoro.

Sono le carriere che sconfinano, che travalicano settori tradizionali, che rompono le gerarchie aziendali dalle linee verticali per muoversi lateralmente da un'organizzazione all'altra accumulando in pochi anni esperienze che vecchi top manager non sono riusciti ad accumulare in una vita. E sono carriere che sempre più travalicano anche confini geografici.

L'esplosione di mercati emergenti come la Cina, l'India o il Brasile, per esempio, non dà solo lavoro alla manodopera di quei Paesi, ma sta aprendo molte opportunità anche a progetti di altissimo livello nei settori dell'ingegneria, dell'economia, dell'architettura, dell'informatica, della comunicazione.

Certo, per chi cresce in città come New York o Londra, esposto a mille opportunità diverse, è possibile costruire percorsi interessanti e gratificanti anche senza spostarsi geograficamente. Ma per i milioni di giovani cresciuti nella provincia italiana, difficilmente queste opportunità si materializzano sotto casa, e la capacità e la volontà di rincorrere opportunità altrove diventa fondamentale. Eppure, nonostante le difficoltà crescenti di chi si muove in contesti più locali e tradizionali, i sondaggi ci dicono che sono ancora relativamente pochi i giovani italiani che sono disposti a muoversi, soprattutto al centro e al Nord Italia. A bloccarli non sono soltanto gli affetti familiari, ma la scarsità di informazioni, la mancanza di una guida, l'incertezza e la lunghezza dei percorsi.

A pesare in queste scelte vi è anche l'influenza di mèntori e genitori ancorati ad altre epoche, abituati a considerare una laurea sotto casa uguale a quella presa a Duke, Eton o Carnegie Mellon (anche perché la maggior parte dei nostri genitori, diciamo la verità, non ha idea di cosa sia Duke o Carnegie Mellon), a temere lunghe lontananze e difficoltosi rientri. Una cosa è vera: nonostante chi vada all'estero sia spesso tacciato di cercare scorciatoie, di solito accade l'esatto opposto. I percorsi e le esperienze fuori confine sono spesso lunghi e faticosi.

Lo sanno bene anche tutti i giovani ricercatori che negli anni passati hanno scelto la strada del dottorato negli Stati Uniti. Anche se oggi qualcosa è cambiato, fino a tempi molto recenti la differenza è stata netta: un dottorato in Italia durava tre anni, non aveva esami, e dava subito la possibilità di mettere un piede nella porta dell'accademia italiana.

Un PhD americano invece durava in media 5-6 anni, ti massacrava di corsi ed esami, e ti faceva perdere contatti per un eventuale rientro in patria. Tant'è che in certi casi erano gli stessi professori italiani che sconsigliavano ai propri studenti di partire. Ma di fronte a scelte che possono cambiare radicalmente la nostra formazione e il nostro futuro sono altre le considerazioni da fare. L'unico criterio da seguire deve essere la qualità e la rispondenza ai propri bisogni, necessità e attitudini. Se l'opportunità che si presenta «sotto casa» risponde a queste caratteristiche, sarebbe sciocco andarsene. Ma quando così non è, è sciocco restare.

Ed è questo il mantra che dovrebbe accompagnare ogni giovane nelle proprie scelte di studio, di lavoro e di crescita personale: la scelta della qualità, oggi più che mai. Perché anche se ci lamentiamo spesso dello scarso riconoscimento dei «meriti», tuttavia col tempo la qualità viene sempre fuori ed è la miglior assicurazione contro crisi e globalizzazione, perché è l'unica carta spendibile in ogni parte del mondo.

Non è facile entrare in quest'ottica; molti genitori incitano ancora i giovani a scegliere le strade che sembrano più brevi, più rapide, che danno un «titolo» sicuro, che sono o appaiono più comode. Ma sono quasi sempre scelte sbagliate. Perché c'è sempre qualcosa che si sacrifica sull'altare della comodità e della scorciatoia. E questo qualcosa è quell'approfondimento, quel sacrificio che ci consente di imparare e capire non solo il settore in cui lavoriamo, ma qualcosa riguardo a noi stessi, a ciò che sappiamo fare meglio, e che ci aiuta a forgiare e indirizzare meglio il nostro percorso futuro.

Il talento non è innato, e non ci viene rivelato come un'apparizione. Lo si scopre così, col tempo, le esperienze, il confronto con gli altri, i progetti e le sfide sulle quali ci misuriamo. Sono queste esperienze che ci aiutano a scoprire cosa veramente amiamo, cosa ci distingue dagli altri nel complesso e competitivo mercato del lavoro. E su queste consapevolezze è più semplice non solo costruire carriere gratificanti, che ci aiutano a trovare un lavoro che ci piace, ma anche dispiegare tutto il nostro potenziale umano e personale.

Certo, percorsi del genere implicano anche molti errori, ripensamenti e sconfitte. Ma l'epoca delle carriere fulminanti degli Anni 80 è finita almeno quanto l'era dei lavori fissi degli Anni 70. E per quanto possa spaventare, questa era di «carriere senza confini» è anche ricca di opportunità, basta non perdersi nella ricerca di scorciatoie, ma investire in se stessi e non aver paura di guardare fuori.

 

venerdì 2 dicembre 2011

Per I Gonzi

C'è chi pensa che questi slogan non solo non servono a niente, ma non incantano più neppure i gonzi. 

 

La dignità

Per quel che resta della dignità il rinvio è a data da destinarsi.

 

giovedì 1 dicembre 2011

La delusione

Ma la rigenerazione di un mondo è risultata un compito leggermente superiore a quanto questi ragazzi avevano previsto, per cui non basta qualche blog e un po' di bric-à-brac rivoluzionario. Hanno sciupato e esaurito la loro energia, dilapidato la loro iliade. Un ragazzo, disperato, sdraiato su un tappeto sudicio nel disfatto accampamento di Tahrir, ieri ripeteva: «Avremmo bisogno di un nuovo Nasser, ma dove lo troviamo?».