lunedì 31 marzo 2014

Il complesso del tiranno

Difficile spiegare a uno straniero dell'Occidente liberaldemocratico che la fine del bicameralismo perfetto, fortunatamente sconosciuto nel suo Paese, sia visto in Italia come l'anticamera di una mostruosa «deriva autoritaria». O che un ragionevole rafforzamento dei poteri del capo del governo sia il primo passo dello sprofondamento negli abissi di un regime antidemocratico. O che l'abolizione delle Province sia l'avvio di una ipercentralizzazione tirannica dello Stato che soffoca ogni autonomia locale. Difficile spiegare i vibranti appelli contro la riforma radicale del Senato, la psicosi di una cultura così impaurita e paralizzata dallo spettro del «regime autoritario», da vedere pericoli di dispotismo in riforme istituzionali che altrove, all'interno di democrazie consolidate e sicure di sé, appaiono semplicemente normali.

Ovviamente, nel merito del pacchetto di proposte di riforme costituzionali che Matteo Renzi ha voluto intestarsi si può e si deve discutere, ci mancherebbe. Ma spingere, dopo decenni di dibattiti inconcludenti, sul tasto dell'«allarme democratico» e della «Costituzione violentata» rivela l'impantanamento in uno schema mentale squisitamente conservatore che ha impedito sin qui di avviare le riforme istituzionali, di incardinarle in un progetto razionale, senza il terrore del cambiamento e la difesa cieca di un assetto immutabile.

I nostri padri costituenti avevano ragione ad avere paura. Venivano da vent'anni di dittatura. Disegnarono un sistema in cui nessuno potesse vincere mortificando le minoranze, come era accaduto con il fascismo. Avevano il «complesso del tiranno», come dicono i costituzionalisti, e crearono un edificio istituzionale dominato dalla mediazione, dal bilanciamento estremo, dall'equilibrio perfetto, dalla lunghezza dei tempi di riflessione. Ma con il passare del tempo, e mentre questo sistema di equilibri perfetti diventava l'alibi di ogni immobilismo, l'incancrenirsi del «complesso del tiranno» ha impedito la modifica, anche la più lieve, in senso «decisionista». Da notare che gli stessi costituenti avevano previsto, regolando ogni modifica del testo costituzionale con apposite procedure di garanzia, che si potesse mutare la legge fondamentale della nostra Repubblica, almeno nella sua seconda parte, «istituzionale», pur lasciando intatta la prima, quella dei principi. Ma con il tempo si è sedimentata una distorsione conservatrice con connotati quasi religiosi di omaggio e venerazione del testo costituzionale («la Costituzione più bella del mondo»), una mistica e una sacralizzazione dello status quo che hanno portato alla scomunica tutti quegli esponenti politici (da Fanfani a Craxi, da Cossiga a D'Alema, da Berlusconi fino allo stesso Matteo Renzi) che si sono impegnati in un modo o nell'altro nella proposta di riformare le nostre istituzioni.

«Deriva autoritaria» è stata la formula magica di questa scomunica. Non la discussione sui singoli punti delle riforme, ogni volta opinabili e migliorabili, ma l'idea stessa che si possa ritoccare in una direzione più vicina al resto delle democrazie occidentali il nostro assetto istituzionale. Modificare la Costituzione è diventato «stravolgere la Costituzione». Ogni riforma «un attentato alla democrazia». Ogni semplificazione un annuncio di pericoloso «autoritarismo». Un pregiudizio difficile da superare. Gli accorati appelli di questi giorni ne sono una testimonianza.

 

venerdì 28 marzo 2014

Apocalittici o Integrati?

Per tutti gli anni Novanta il confronto fra integrati e apocalittici (per usare l'abusata formula di Umberto Eco) è stato al centro del dibattito sugli effetti sociali, economici, culturali e politici delle nuove tecnologie. Oggi questo conflitto sembra meno attuale a causa della sparizione, o quasi, di uno dei due campi. La voce degli apocalittici, infatti, si è fatta sempre più fievole, fino a ridursi a un vago rumore di disturbo sullo sfondo del possente coro degli integrati. Si sta dunque realizzando la profezia del più geniale degli apocalittici moderni (quel Gunther Anders che già alla fine dei Cinquanta – nel suo capolavoro, "L'uomo è antiquato" – formulò concetti ampiamente saccheggiati nei decenni successivi)?

Anders pensava che il conformismo di massa, che lui identificava con l'accettazione passiva di tutti i vincoli imposti dalla tecnologia, sarebbe inesorabilmente cresciuto, fino a divenire una potenza irresistibile, sorda a ogni voce critica. La Net Generation è forse quella destinata a incarnare tale inquietante profezia? Verrebbe da pensarlo, ove si consideri la relativa indifferenza con cui vengono accolte certe notizie. Ne cito solo due che mi hanno particolarmente colpito.

Prima notizia. A Phoenix, in Arizona, si è tenuto un convegno delle agenzie incaricate di sorvegliare il confine fra Messico e Stati Uniti. La riunione si è trasformata in una fiera commerciale in cui decine di imprese hi tech hanno presentato i loro prodotti (robot, droni, sensori e quant'altro) come strumenti irrinunciabili per la polizia di confine incaricata di "dissuadere" i tentativi di immigrazione clandestina. Dall'articolo del NYT apprendiamo che tutte queste tecnologie sono state progettate (e in parte già sperimentate) a scopo bellico.

Seconda notizia. Un articolo del Washington Post, dopo avere rivelato che il numero delle persone che non leggono libri è triplicato dal 1978 ad oggi, suggerisce due soluzioni per combattere il fenomeno, che rischia di espropriare le nuove generazioni di un insostituibile strumento di conoscenza. Prima soluzione: infarcire i libri (elettronici) di sussidi multimediali; seconda soluzione: adottare tecnologie di lettura rapida (che risolvano il problema dell'eccessiva "lentezza di fruizione" del medium, che lo rende indigesto ai giovani). In particolare viene propagandato un software che, invece di farci "perdere tempo" a leggere da sinistra a destra, fa scorrere le parole ad elevata velocità in un unico punto focale.

Due brevi commenti: nel primo caso è evidente che ci si prepara a combattere una vera e propria guerra contro la spinta demografica dei Paesi poveri verso quelli ricchi; nel secondo è altrettanto evidente che non si tratta affatto di "modernizzare" il medium libro, bensì di sostituirlo integralmente con nuovi supporti che, per loro stessa natura, appaiono inadatti a trasmettere competenze critiche (l'analisi critica è figlia della lentezza, non dell'ipervelocità!).

Ma perché scarseggiano le riflessioni "apocalittiche" su queste – e tante altre – notizie? Perché il pensiero apocalittico è fallito per il seguente motivo: i suoi cultori – a partire dallo stesso Anders – incolpano la tecnica in quanto tale degli orrori ipermoderni e, al tempo stesso, riconoscono l'ineluttabilità dell'avanzata tecnologica ("tutto quello che si può fare finirà per essere fatto, senza ragionare sulle conseguenze"). Ma ciò significa associare la rassegnazione alle profezie di sventura. Se invece tornassimo a guardare la luna e non il dito, cioè non la tecnica bensì gli interessi che essa incarna (chi vuole fare la guerra ai migranti? chi vuole spegnere lo spirito critico delle nuove generazioni?), forse avremmo una visione meno fatalista e catastrofica del futuro: certo, la tecnica non è mai "neutra", ma proprio per questo possiamo immaginare di resisterle e farle cambiare direzione e, ove necessario, "fermarla" (non tutto quello che può essere fatto deve essere fatto).