mercoledì 14 dicembre 2016

Lettera a Wondy

Alessandro Milan
A FRANCESCA

Non vi racconterò stupide favolette. Wondy ha perso la battaglia. Perché lei voleva vivere. Francesca amava follemente vivere. Di più: non ho mai conosciuto una persona più attaccata di lei alla vita. Sempre gioiosa, sempre sorridente, sempre ottimista, sempre propositiva, sempre sul pezzo, sempre avanti.

In studio, a casa, c'è il faldone in cui ha raccolto sei anni di referti dellamalattia. Catalogata così: "Tumore franci Emoticon smile"

Poco prima di andarsene, tra i sospiri, ha detto a un medico: "Siamo vicini a Natale, se non erro. Se lo goda tanto, lei che può. Io purtroppo sono qui". Però, dopo mezz'ora, mi ha chiesto se il tal primario che tanto le vuole bene avesse dei figli. "Ma perché lo vuoi sapere?" E non scorderò mai quel gesto lento delle mani che roteano e la bocca che si corruccia. "Così... gossip".

Questa era lei. Altruista fino all'estremo. Curiosa con purezza.

Era il mio Harry Potter. La chiamavo così, sul cellulare è ancora registrata con questo nome. Era il 2002, un giorno imprecisato. Entrai in casa e la vidi di spalle, ricurva sui libri, mentre studiava per prendere la seconda laurea. "Sembri Harry Potter!" esclamai. Una somiglianza fisica. Da allora, per me, è Harry.

Wondy, Harry Potter.

Franci. Moglie mia, hai perso la battaglia dunque. Ma hai lasciato tanto. A me due splendidi bambini, al mondo una forza incrollabile, una positività che emanava luce. Sfido chiunque ti abbia conosciuta a raccontarmi una volta in cui ti ha vista o sentita piegata dalla vita.

"Ho avuto una vita piena - mi dicevi in ultimo -. Ho fatto il lavoro che volevo, ho scritto libri, ho avuto una bella famiglia, ho viaggiato in mezzo mondo". Però aggiungevi anche che "certo, è dura accettare tutto questo. Mi spiace un po' non vedere crescere i bambini. Pazienza...". Ma io so che avresti voluto urlare di rabbia, perché tu volevi vivere ancora a lungo.

Hai sorriso. Fino all'ultimo secondo, fino a quando la morfina non ti ha stritolata, hai sorriso quando ti dicevo di chiudere gli occhi e tenermi per mano sulle spiagge di Samara, in Costarica; nelle praterie del Kruger a cercare leoni, tra i coralli delle Perenthian a scovare squali, nelle viuzze della Rocinha a scrutare umanità, nelle cascate giamaicane, nei templi induisti di Bali, nei mercatini di Chiang Mai, tra le casette variopinte del Pelourinho di Salvador, tra le pietre millenarie della via Dolorosa a Gerusalemme, insomma in uno qualsiasi degli infiniti luoghi in cui mi hai portato, sempre in cerca di vita e emozioni.

Mai una piega storta sul tuo volto. Eppure di motivi ne avresti avuti, eccome. Harry, hai vissuto un tale calvario negli ultimi sei anni... Un calvario vero, nascosto a tutti, celato dietro a uno sguardo luminoso e sbarazzino e a una cazzuta voglia di reagire. Non ricordo neppure quante operazioni hai subito, quante menomazioni fisiche, quante violazioni del corpo. Non so quante medicine tu abbia preso, quante infusioni di chemio, quante pastiglie, quanti buchi nelle vene, quante visite. Non ne hai mai fatto pesare mezza. A me, prima di tutto.

Per questo, ti ringrazio.

Non ti è stato risparmiato neppure un briciolo di strazio finale. E quando hai alzato entrambi gli indici delle mani al cielo dicendo "ma perché è così faticoso arrivare lassù?", beh sappi che ti ci avrei portata in braccio.

Sì, è vero, Wondy ha perso la battaglia. Ma ha anche trionfato. Perché il mio Harry ha combattuto il tumore proprio da Wonder Woman. Ora vi svelo una cosa che quasi nessuno sa: tre giorni prima di presentarsi alle 'Invasioni Barbariche' da Daria Bignardi ricevette l'ennesima brutta notizia. Una recidiva, l'ennesima operazione, la radioterapia in vista. Ricordo i consulti nel lettone: che si fa, vado? Non vado? Io le dissi che avrebbe potuto annullare tutto, avrebbero capito. Al solito, fece di testa sua. Andò in tv con un unico obiettivo: 'NON devo piangere, a nome di tutte le donne'. E alla inevitabile domanda "Ma ora come stai?" sfoggiò il solito disarmante sorriso: "Bene, grazie!". Lei sorrideva. Io, solo, a casa davanti alla tv, piangevo. Due giorni dopo, era in sala operatoria. Il consueto rituale con i medici, le solite battute sulla Mont Blanc dell'anestesista, la degenza, il ritorno a casa, le terapie, il nuovo viaggio da programmare...

Da tutta questa sofferenza ha tenuto lontani tutti, il più possibile. A cominciare dai nostri magnifici Angelica e Mattia. La Iena e l'Unno.

Lo so che le persone sono stupite. "Ma stava così bene!". No, non stava bene. Ogni tre settimane in ospedale si sottoponeva a esami del sangue (un buco in vena ogni 20 giorni, con la prospettiva che fosse per tutta la vita) con annessa visita e responso sulla possibile avanzata del tumore (e ogni volta il sospiro di sollievo: "Bene, dai, è fermo, chissà tra 20 giorni"); ogni tre mesi faceva una risonanza ("Sai che c'è gente che quando arriva il mezzo di contrasto nelle vene si fa la pipì addosso? A me non è mai successo, bene dai"); ogni giorno prendeva 4 pastiglie di farmaco sperimentale per tenere sotto controllo le metastasi (fanno 1460 pastiglie l'anno, con la prospettiva che fosse per sempre). Non stava bene. Solo che non lo diceva. Solo che consolava gli altri. Lei.

Più il tumore avanzava, più lei scovava motivi e occasioni per fare feste, organizzare eventi, viaggi, iniziative. "Chissà quanto vivrò ancora, avanti: festeggiamo".

Era, anche, una grandissima rompicoglioni. E questo i suoi migliori amici possono confermarlo al 130%.

Ogni tanto crollava, sì, anche lei. Soprattutto quando l'ultima battaglia la stava per abbattere. "Che destino, ogni volta che faccio una cosa bella, arriva una botta". L'ultima cosa bella era il romanzo "Breve storia di due amiche per sempre".

La vedo all'opposto, Harry. Come ti ho detto, la verità è che nessuno al mondo, nella tua sofferenza, avrebbe avuto la straordinaria forza che hai avuto tu di scrivere due libri, fare viaggi, progettare, sognare. Io non avrei combinato un centesimo di quel che hai fatto tu.

Ricordo il giorno in cui dovevi presentare il tuo ultimo libro, e un'ora prima della presentazione ti ho trovata mentre confabulavi al telefono con qualcuno, entusiasta. Quando hai messo giù, ho scrutato quel lampo malandrino tipico dei tuoi occhi, non ti ho fatto domande ma tu mi hai preceduto: "Stavo raccontando all'editor la trama del mio prossimo romanzo: sarà una figata!" Ho scosso la testa e ti ho lasciato lì: al tuo nuovo sogno.

Ora vai. Mi hai guardato negli occhi, quando eravamo vicini all'ultimo chilometro, e mi hai detto: "Spero solo, almeno, di lasciare in te e nei bambini un bel ricordo".

Lasci qualcosa di più: mi hai semplicemente insegnato come si vive. Non imparerò mai, puoi scommetterci, ma ti prometto che ce la metterò tutta.

Lascio da parte le migliaia di immagini nostre, intime. Tranne una. Domenica 11 dicembre, alle 5, ti ho sognata. Eri serena come non ti vedevo da mesi. Mi parlavi, ci abbracciavamo, io piangevo tanto, tu mi hai ringraziato perché hai potuto parlare con Chiara e Sara. Eri tranquilla, anche se avevi "questo ciuffo matto" nella testa. Poi sei partita per un viaggio tutto tuo, verso chissà dove.

Devo dire di cuore dei grazie, e nel farlo dimenticherò tante persone.

Le amiche e gli amici veri, loro sanno a chi mi rivolgo.

In un Paese vergognosamente anti scientifico, mi inchino alla competenza e alla preziosa umanità scovata all'Ospedale Humanitas: alle infermiere e agli infermieri, o candidi angeli, un immenso grazie! Anche per i sontuosi caffè con la moka, come se li avessi bevuti. Avete pianto con me, non lo dimenticherò mai.

I medici: Andrea, Barbara, Corrado, Cristiana, Francesco, Marco K., Monica, Pietro. Ancora: Marco R., scusa se spesso ti ho trattato da Frate Indovino e non da splendido UomoDottore quale sei; Vittorio, vabbè Vittorio... Zione putativo, ti dirò sempre un 'grazie' in meno di quanti ne meriteresti. Ridi, ti prego.

Infine: Silvia. La Doc. La Scienza. Tu sei stata una delle scoperte più belle della nostra recente vita. Tu e la tua bella famiglia. Hai fatto tantissimissimissimo. Ricordati che mi devi togliere ancora quelle due cose o quella là continua a rompere il cazzo.

E poi, Maria Giovanna. Nel cuore di Franci avevi un palchetto d'onore tutto tuo, con le tue 'pozioni magiche', le tue visioni, le tue parole profonde e precise, i tuoi consigli sempre azzeccati. Per osmosi, sarai sempre anche in me.

Non piangete, medici, non piangete infermieri. E sappiate che se ci fossero anche solo 100 persone come voi in ogni professione, il mondo sarebbe un posto molto migliore.

Non ringrazio chi, senza neppure conoscermi, in un giorno che voglio dimenticare di inizio novembre mi ha detto con freddezza, senza neppure sfiorarmi, che mia moglie sarebbe morta nel giro di un mese, massimo tre, perché lo dicono le statistiche. Mi hai fatto piangere troppo e prima del necessario. Non si fa. Ma spero che migliorerai negli anni.

Ringrazio infine tutti coloro che hanno capito il motivo per cui ho voluto proteggere il mio Harry all'ultima curva. Non potevo fare più nulla, per lei, se non una cosa: preservarne la dignità, proteggerne il silenzio e il sorriso appena un po' incrinato. Se avessi fatto diversamente, esponendola, non me lo sarei perdonato per il resto dei miei giorni. Di più, avrei violato un suo preciso volere. Non si fa, se si ama.

Se avete capito, bene, altrimenti: amen.

Ora vai, Harry. Che la Vita finalmente ti sorrida un po'. Veglia sui tuoi bimbi, sorreggili, guidali.

Vai lassù, faccia da ranocchia. Porta anche Leo, il neo. Ciao, nasino freddo.

Tic-ti-tic. Tic-ti-tic. Le senti, le fedi che si sbaciucchiano?

Prometto di rispettare le tue ultime volontà. Tranne una. Perdonami.

Prometto di prendermi cura dei nostri bambini.

Prometto di portarti sempre con me.

Ti chiedo un ultimo sforzo: da lassù getta sul capo di ognuno di noi una goccia del tuo inesauribile ottimismo. Basterà e avanzerà per capire come si vive sorridendo.

Se poi, tu e Rudy, vorrete buttarci giù anche una goccia di mojito, ci terremo pure quella.

Alla tua. Alla vostra.

Mi vivi dentro.

Tuo, Ale.

lunedì 14 novembre 2016

come superare la propria imbecillità


Con lo sguardo del filosofo: "L'elezione di Donald Trump è una grande pagina nella storia dell'imbecillità, una pagina corale, destinata a rimanere nella storia". Maurizio Ferraris – professore di filosofia teoretica a Torino, teorico del movimento per un nuovo realismo e autore de "L'imbecillità è una cosa seria" appena pubblicato dal Mulino – ha un giudizio insieme tenero e spietato sul voto statunitense: "È la dimostrazione che l'imbecillità è la cosa meglio ripartita nel mondo. Un tycoon col ciuffo, i suoi fan spaventati e aggressivi, una antagonista debole, i suoi sostenitori convinti spesso a torto della loro superiorità morale rispetto a The Donald".

Dovremmo riderne, professore?
Si ride degli imbecilli sino a che non fanno stragi. Se poi le fanno – come Salah Abdeslan, uno degli attentatori del Bataclan, a Parigi – restano imbecilli, ma non si ride più: si piange e si punisce.

Scrive: "La repressione aguzza l'ingegno, mentre l'esortazione a essere creativi è paralizzante".
Quando si loda la creatività non ci si rende conto che mentre le cose tramandate, siano esse il filo per tagliare il burro o la ruota, hanno passato il vaglio di generazioni, le cose create dai creativi non sono mai state sperimentate e hanno fortissime probabilità di essere delle scemenze.

Come le cose che scriviamo e leggiamo su Twitter e Facebook, che ci invitano sempre a esser brillanti?
I social network sono l'infrazione sistematica del principio secondo cui il silenzio è d'oro. Quante volte abbiamo visto qualcuno silente e gli abbiamo attribuito meditazioni profonde e giuste, tranne che poi ha incominciato a parlare, o peggio ancora a scrivere (scripta manent), e l'incanto si è rotto. (Ovviamente sono consapevole del fatto che questo vale anche per me in questo momento).

Abbiamo cognizione dell'imbecillità che – secondo lei – c'è in giro?
Ci nascondiamo l'imbecillità per lo stesso motivo per cui i nostri antenati provarono così tanto imbarazzo ad ammettere la continuità tra uomo e animale prospettata da Darwin. Con questa aggravante: che mentre non ha senso dire che un animale non umano è un imbecille, ha molto senso dirlo di un animale umano, cioè dell'animale non stabilizzato, pieno di bisogni, indifeso, e dunque bisognoso di tecnica (imbecille deriva da in-baculum, privo di bastone).

È la tecnica, dunque, a fare di noi uomini degli imbecilli?
No, la tecnica rivela l'uomo per quello che è. E, contemporaneamente, lo porta a sviluppare sogni titanici, per esempio quello di essere costruttori della realtà, o paranoici, per esempio quelli secondo cui la realtà è costruita da entità malvage (il Kapitale, l'Europa, la Massoneria) che ci ostacolano e tormentano.

Il progresso tecnico offre la stessa possibilità di esprimersi anche all'intelligenza?
Direi che l'imbecillità (e anzitutto il sospetto di essere imbecilli) è un grande stimolo per l'intelligenza. Anzi, credo che l'intelligenza, in senso proprio, non sia che la fuga senza fine che ognuno di noi compie nei confronti della propria e altrui imbecillità. Una fuga non sempre coronata da successo.

Rousseau, Nietzsche, Heidegger: stila un elenco sorprendente di intelligenze colpite dall'imbecillità. Ritiene più pericolosa l'imbecillità dei colti o quella di massa?
L'imbecillità d'élite è meno pericolosa. Che Heidegger fosse nazista può apparire spiacevole o persino ridicolo, quando cerca di far quadrare in un unico disegno Hitler e Platone. Ma il vero pericolo sono stati i milioni di tedeschi che, attraverso un voto democratico, hanno portato al potere Hitler.

C'è un lato positivo nella stupidità?
Esserne consapevoli, per allontanarsene il più possibile attraverso la cultura.

Ma non è imbecille – a sua volta – avere tale fiducia nelle capacità dell'essere umano?
Se non si dà fiducia all'essere umano e alla sua possibilità di progresso, di miglioramento, di emancipazione, allora più nulla vale, e, per esempio, il tempo che impiego a rispondere alle sue domande è tempo buttato. Magari è anche vero, ma preferisco credere che non sia così.

È la democrazia il sistema politico che meglio riesce a rappresentare l'imbecillità umana?
Sì, la democrazia dà spazio all'umano più che ogni altro sistema politico, dunque è la grande arena dell'imbecillità. Ma non ha senso cercare di tornare indietro, nessuno di noi accetterebbe più di essere governato da un despota, sia pure illuminato e intelligentissimo. Non resta che proiettarsi in avanti, e fare il possibile affinché l'umanità nel suo insieme progredisca, ossia, per l'appunto, si allontani quanto più possibile dall'imbecillità.

Di che tipo d'imbecillità soffre la politica italiana?
Se mi mettessi a pontificare anche su questo non pensa che farei la figura dell'imbecille?

domenica 19 giugno 2016

volo inaspettato

hai ricevuto le ali
e puoi volare

noi staremo a guardare

nuovi sentimenti

nessun sorriso
che delusione

nessun cenno
tanta tristezza

nessuno sguardo
inevitabile indifferenza

superata indifferenza
ecco il vuoto

giovedì 14 aprile 2016

Espressioni ingrugnite



Un parroco durante la messa pasquale non vede facce da resurrezione ma espressioni ingrugnite. Se la prende con la musoneria dei nostri volti, più frustrati che gioiosi

Massimo Campigli, Donna con le braccia conserte (1926) Massimo Campigli, Donna con le braccia conserte (1926)

Messa pasquale ad Aurisina, in sloveno Nabrežina, piccolo vivace borgo sul Carso in provincia di Trieste. Il parroco, nella sua omelia, parla di resurrezione, quella di Gesù e quella interiore offerta ad ognuno, la rinascita spirituale che dovrebbe rinnovare la persona e darle gioia, come prescrive Gesù: «La vostra gioia sia piena». Ma se mi guardo intorno, se guardo voi — continua il parroco, sporgendosi un po' dal pulpito — non vedo facce da resurrezione, ma piuttosto da calvario, tristanzuole e ingrugnite.

Il parroco ha ragione di pigliarsela con la musoneria delle nostre facce, più frustrate e diffidenti che aperte e gioiose. Egli sa bene che ci sono tante ragioni, personali e collettive, che gettano un'ombra su un viso e lo segnano di cicatrici spirituali — dolori, angosce, malattie, solitudini, difficoltà d'ogni genere. Non è certo con le sofferenze della sua gente che se la prende il parroco, perché sa che la fede è chiamata a lenire e a combattere le ferite del corpo e del cuore e forse talora nasce da quelle ferite. Ma quell'opaca acidità delle nostre facce non è solo espressione di dolore o di disagio. È l'acre risentimento di chi si rode per ciò che non ha anziché allietarsi di ciò che ha; di chi non si sente adeguatamente considerato; del vice-direttore non ancora promosso a direttore e più aspramente insoddisfatto, nonostante il suo più cospicuo stipendio, dell'impiegato a lui sottoposto; dello scrittore incattivito perché ha ricevuto un premio ma non un altro più importante; del partner che si sente incompreso e non si chiede, come non se lo chiede quasi nessuno di noi, se non è lui o lei a non comprendere l'altro. Il risentimento, hanno detto grandi filosofi, è talora una chiave della storia, individuale e generale.

Quel parroco sta inconsapevolmente e non a torto rivalutando la fisiognomica, spesso giustamente vituperata per certe sue implicazioni razziste. C'è una bocca acida — da mal de panza, si dice a Trieste — che non è sempre sofferta esperienza del dolore, bensì orgogliosa riluttanza a sentirsi compresi e appagati, a differenza di quel personaggio ricordato da Isaac Bashevis Singer nelle sue memorie d'infanzia, un povero diavolo sul cui volto «c'era sempre un'espressione di appagamento». Massimo il Confessore, teologo e martire cristiano del settimo secolo, diceva che la cupezza e la tristezza celano talvolta consapevole o inconsapevole rancore. Le grandi fedi religiose conoscono bene l'abisso del dolore, il sudore di sangue della disperazione, ma non si crogiolano in essi, bensì amano l'allegrezza: la serenità buddhista, la letizia francescana, il Veggente di Lublino, un santo ebraico-orientale, che amava un peccatore impenitente perché questi, nonostante ogni caduta, aveva conservata intatta la gioia.

La Messa è finita, andate in pace. Solo quando sei capace di ridere, diceva una scritta che avevo letto più di trent'anni fa sulla porta del duomo di Linz, hai veramente perdonato.

venerdì 11 marzo 2016

le difficoltà di un padre

Care Amiche ed Amici, voglio ringraziarvi pubblicamente per i tanti, tanti messaggi che mi avete mandato, esprimendo vicinanza, affetto, dolore, condivisione per questa tragedia che ha colpito la mia famiglia, i miei parenti. La vita riserva molte sorprese, alcune liete, altre no. Entrambe la connotano, la segnano, le danno colore, forma, sostanza. A volte quel che succede annebbia la speranza, richiama dolore, intacca la fiducia nella bontà delle relazioni umane, ti mette a confronto con subdole malattie che sovrastano le persone più deboli, tende a mortificare una vita intera spesa nel difendere e diffondere valori di tolleranza, di rispetto, di amore per la vita, la vita di tutti. In questi lunghi anni a tanti ho cercato di trasmettere speranza, coraggio, fiducia, di costruire bellezza, di preservare i valori fondamentali della vita, di credere nel buon futuro. Qualche volta ci sono riuscito, altre no, come dimostra questa tragedia. Forse pensiamo di poter avere un ruolo decisivo nei rapporti umani e famigliari ma non è sempre così. Qualche volta ci attribuiamo capacità che non abbiamo e l'esempio di una vita condotta ispirandosi ai valori dell'onestà, del rispetto della vita propria, e di quella altrui, che ci è stata donata e di cui non siamo padroni assoluti, si scontra con contesti difficili, rapporti umani alterati, scelte non sempre condivisibili, disvalori che cancellano valori e sembrano vanificare la missione di una vita a cui hai dato tutto, senza risparmio. In questi giorni in cui la stampa ha fatto a brandelli la vita di tre famiglie colpite, ciascuna in modo drammaticamente diverso, si sono letti giudizi sommari, verità parziali o di comodo, usate espressioni dei tempi più bui della vita civile. Mi sovviene un brano del Vangelo di qualche settimana fa. Il protagonista è un fico che non dà frutti e, per questo, si propone di tagliarlo. Ma poi si decide diversamente, si zappa intorno, si innaffia e si stabilisce un tempo: se entro tre anni non darà frutti, sarà tagliato. Non è solo un atto di misericordia, è un atto di saggezza che suggerisce prudenza, pazienza perché i tempi della ricerca della verità non sono brevi e la giustizia umana ha limiti profondi. Sono quelli che lasciano spazio al perdono che, seppure non cancelli la colpa, preserva la possibilità per le persone, tutte le persone, di non ergersi a giudici esclusivi e onnipotenti. Oggi voi dovete sentirvi liberi di lasciare questa pagina, di ritirare la vostra amicizia se questa nostra tragedia vi procura sofferenza o insofferenza, se non siete più interessati a leggere, condividere qualche riflessione perché avete smarrito la fiducia che avevate nell'autore. Quelli che vorranno ancora seguirmi sappiano che non riuscirò ad essere presente su queste pagine con continuità ma che non rinuncerò a niente delle idee e dei valori in cui credo e, in questa circostanza, sarò ancora più determinato nel rigore con cui viverli ed esprimerli. Metto in conto tutto e devo essere pronto a tutto. Me l'avete scritto in molti. Pensieri bellissimi, parole affettuose che custodirò con cura e a cui farò riferimento tutte le volte che la tristezza e la solitudine cercheranno di prendere il sopravvento. Voglio riportare solo un piccolo brano, fra i tantissimi, che mi ha scritto un amico carissimo, più grande di me in tutti i sensi, che conosco da oltre 20 anni. Ha scritto:.."la tua sconfinata capacità di mettere insieme, mediare, sdrammatizzare, cercare la fessura dove infilare una soluzione o un piccolo dislivello dove collocare un cuneo, ti permetterà di restare fermo nella tua fede, di non cadere nel buco nero, di riconfermarti nel valore delle cose che hai fatto e anche di aiutare Marco. Tu sei una persona capace di rivoltare il male nel bene e questa volta ti tocca dimostrarlo in modo da stupire il mondo".
Posso farcela, lo devo alla mia famiglia tutta, ai miei parenti, ai miei tanti amici e a questo mio amico che mi ha consegnato un obiettivo tanto faticoso quanto straordinario. Con il vostro aiuto, con quello del Signore che non ci lascia mai soli perché è pronto a mischiarsi con la nostra storia anche di peccatori, ci accingiamo con passo lieve ad attraversare questa tempesta. Che Dio aiuti quanti ne hanno bisogno.