venerdì 27 ottobre 2017

Due donne sopravvissute



They survived shark attacks, the loss of their engine and then their main mast during a five-month ordeal lost at sea. Now, two sailors and their dogs are finally safe after being rescued by the US Navy on Wednesday.

Jennifer Appel and Tasha Fuiaba ran into trouble during the 2,700-mile journey from Hawaii to Tahiti. After their rescue, they credited the two animals onboard with them with keeping their spirits and said they managed to stay alive because they had packed a water purifier and enough food to last for a year before leaving.

"There is a true humility to wondering if today is your last day, if tonight is your last night," Appel told media from the USS Ashland, which rescued them.

The women, who are both from Honolulu, lost their engine in bad weather in late May but believed they could still reach Tahiti using their sails. But they were left drifting in the ocean when their mast broke, Appel's mother said after speaking to her on the phone.

Two months into their trip, well after they were scheduled to arrive in Tahiti, the sailors began making distress calls. But there were no vessels close and they were too far out to sea for the signals to be detected on land.

Appel said they sent out a distress signal for 98 days afterwards, but got no response. "It was very depressing and very hopeless, but it's the only thing you can do, so you do what you can do."

A group of sharks attacked their boat one night, and a single shark returned a day later, she said. "Both of them, we actually thought it was lights out, and they were horrific. We were just incredibly lucky that our hull was strong enough to withstand the onslaught."

Asked if they ever thought they might not survive, she said they would not be human if they did not. She credited the two dogs, which she called their companion animals, with keeping their spirits up.

"There is a true humility to wondering if today is your last day, if tonight is your last night," she said.

The US navy rescued the women on Wednesday after a Taiwanese fishing vessel spotted them about 900 miles south-east of Japan, well off their planned course, and alerted the US coast guard.

The USS Ashland arrived early the next day, the navy said in a statement released on Thursday.

A sailor greets Zeus the dog with his owner Tasha Fuiaba, left, on the boat deck of the USS Ashland.
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A sailor greets Zeus the dog with his owner Tasha Fuiaba, left, on the boat deck of the USS Ashland. Photograph: Mass Communication Specialist 3r/AP

"They saved our lives," said Appel through the navy release. "The pride and smiles we had when we saw [US navy] on the horizon was pure relief."

They told the navy that they survived because they had packed a water purifier and a plentiful supply of food, mostly dried goods like oatmeal and pasta.

A photo provided by the navy shows Fuiaba smiling as a sailor greets her dog, Zeus, aboard the USS Ashland.

The women received a medical assessment, food and beds aboard the ship, where they will remain until the next port of call, the navy said.

"The US navy is postured to assist any distressed mariner of any nationality during any type of situation," said Cmdr Steven Wasson, the commanding officer of the USS Ashland.

Appel's mother told the Associated Press that she never gave up hope that her resourceful daughter would be found.

Joyce Appel, 75, who lives in Houston, said she got a call from her daughter early Thursday morning more than 5 months after they had last spoke.

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"She said, 'Mom?' and I said, 'Jennifer!?' because I hadn't heard from in like five months," she said. "And she said 'yes mom,' and that was really exciting."

Jennifer Appel departed on 3 May, her mother said, but her phone was lost overboard the first day she was at sea, and she hadn't heard from her daughter since.

"Various things on her boat broke, the mast broke and the engine wouldn't start when she needed power. So she had several problems that caused her to end up drifting in the ocean," the elder Appel said.

Joyce called the US Coast Guard about a week and half after her daughter left Honolulu, she said. "The Coast Guard, in Hawaii, did a search and rescue effort," she said.

"I waited and waited and waited to see when I would hear from her." In that time, the elder Appel moved and got a new phone number and was worried her daughter wouldn't know where to call. "I knew she didn't even know the phone number here," she said.

"I had hope all along, she is very resourceful and she's curious and as things break she tries to repair them, she doesn't sit and wait for the repairman to get there, so I knew the same thing would be true of the boat."

The mother said the pair's water purifier had stopped working and they were down to their last gallon of water when Jennifer got it fixed.

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venerdì 23 giugno 2017

vita e filosofia


Quando l'anima è pronta allora anche le cose sono pronte. L'attenzione che i mezzi di comunicazione accordano all'esame di maturità è la conferma del fatto che rimane uno degli ultimi riti di passaggio, in un'epoca in cui trionfa anche sugli umani la visione prestazionale delle macchine: o funzionano o sono guaste, non c'è crescita. L'esame di maturità interessa perché mette a tema, almeno una volta all'anno, il tempo "inutile" in cui ci si può dedicare a pensare chi sia l'uomo, la sua origine, il suo destino, la sua felicità. Fuori invece prevale il grande meccanismo in cui l'io non deve crescere, ma semplicemente diventare l'oggetto di produzione di se stesso, l'io-prestazione sostituisce l'io-presenza, abbiamo valore nella misura in cui siamo capaci di procurarcelo con le nostre forze e quindi alla periferia dell'io: avere, apparire, fare.  

 

L'essere è cosa di cui si occupa chi ha tempo da perdere, roba da adolescenti, dopo si entra nel tempo da ottimizzare, illusi che il tempo si possa guadagnare, come se il tempo fosse a nostra disposizione e non noi a disposizione del tempo. Non c'è spazio per le domande che aprono un tempo verticale, quello che dà senso al tempo orizzontale degli orologi. Il tempo deve essere vinto, fare finta che non ci sia, nascondere che moriremo, vogliamo scavalcare la morte come se potessimo scavalcare la nostra ombra.  

 

L'io prestazionale ha il suo mito nel guadagnare tempo (per fare cosa poi?), ma l'unico modo in cui l'uomo guadagna tempo è crescere. E l'uomo cresce solo quando impara ad abitare il tempo, cioè costruisce relazioni profonde con se stesso, gli altri e il mondo, come ribadisce Seneca a Lucilio, nel testo offerto ai ragazzi per il compito di traduzione: «Senza la Filosofia nessuno può vivere con coraggio, nessuno può vivere con tranquillità».  

 

Noi invece preferiamo sottometterci al dio Prestazione (successo, bellezza, potere...) che ci garantisce di essere qualcuno, perdendo la capacità di stare in pace con noi stessi e il coraggio di affrontare ogni lotta, contenti (cioè contenuti) dentro la vita. Per questo l'io prestazionale è sempre stanco, a caccia di svaghi, non trova la festa nel quotidiano ma nell'over di emozioni o nell'iper di acquisti e informazioni, e spesso precipita nella depressione (cioè la pressione che schiaccia chi non si sente mai all'altezza), oppure nel «lesionismo», agito dai corpi dei ragazzi per lo più come violenza verso l'esterno o su quello delle ragazze per lo più come violenza verso l'interno, modi speculari di svincolarsi dalla mancanza di valore della propria vita. Un valore che può crescere solo dall'interno e grazie a relazioni sane e curate nel tempo, per cui la filosofia diventa necessario stile di vita ed esercizio dello spirito che si confronta con la negatività del reale, e non certo passatempo di salotti autoreferenziali, farciti di pensieri e premi di autocompiacimento (anche questi prestazioni del nostro tempo senza filosofia).  

Fu Cicerone a dire che così come l'agricoltura è cura (-coltura) del campo (agri-) così la filosofia è cura dell'animo («animi cultura»). La filosofia è la coltivazione dell'io-presenza: come il contadino rispetta il tipo di semina e le stagioni e, attraverso un lavoro faticoso e paziente, ne coglie i frutti al momento opportuno, così noi, solo con un esercizio di conversazione con noi stessi, con gli altri e con il mondo, prendiamo possesso di noi stessi e diamo frutto. In un tempo che distrugge il tempo, la coltivazione del sé come campo fecondo che può dar frutto non è presa in considerazione, perché siamo sottomessi a prestazioni che non tollerano l'attesa, e quindi l'attenzione, la pazienza, e quindi la passione. Basti pensare ad una scuola tutta basata sulle prestazioni, simile più a un addestramento che a un percorso di conoscenza di se stessi, dei propri punti forti e deboli. Basti pensare a rapporti familiari per i quali non si trova mai il tempo, il tablet sostituisce la tavola, gli oggetti individuali sostituiscono i progetti condivisi.  

 

 

Quando Alcibiade si lamenta con Socrate del fatto che conoscere se stessi è faticoso, il filosofo gli risponde «è vero conoscere se stessi è difficile, ma se non conosceremo noi stessi non sapremo come prenderci cura di noi stessi». In Occidente il dna classico, arricchito dal concetto di persona del cristianesimo, ci ha consegnato un'eredità la cui erosione è stata e continua a essere esiziale: la conoscenza del mondo è al servizio della cura di se stessi e del mondo. Oggi la conoscenza del mondo è ridotta a utile, calcolo, tecnica: è al servizio del dominio di se stessi e del mondo. Ma se non sappiamo prenderci cura di noi stessi andiamo incontro a un mondo regolato da rapporti di forza e non di cura. Ma si sa questi sono discorsi che durano il tempo di una maturità, di una versione di latino di Seneca: «ma a che vuoi che serva il latino, oggi», «fai lo scientifico senza latino, che poi non trovi lavoro». Noi dobbiamo ottimizzare, produrre i nostri io, senza sapere neanche chi e che cosa sia «io», come se la felicità fosse una condizione delle cose e non dello spirito. Per questo Shakespeare poteva ancora far dire ad uno dei suoi personaggi: «Quando l'anima è pronta, allora anche le cose sono pronte». Senza filosofia, ci siamo convinti del contrario. 

sabato 8 aprile 2017

Cultura inaspettata

Da quando l'hanno fotografata seduta sul guardrail della Pontina, la strada che va da Roma a Latina, intenta sulle pagine di Delitto e castigo di Dostoevskij in attesa del prossimo cliente le hanno telefonato le colleghe: «Mi hanno detto se sono matta, che così mi faccio riconoscere e i clienti non verranno più per paura. Per tutti sono "quella" con il libro adesso», dice un po' compiaciuta. Un vecchio libro «con il prezzo ancora in lire». Di solito il tempo sulla strada si inganna con il telefonino ma a lei non era sembrato strano aspettare sfogliando i libri che le lascia qualcuno degli uomini che viene a trovarla con regolarità dietro il cancello arrugginito dove riceve subito dopo uno svincolo. Non ha trovato strano usare un libro per adescare e rendersi un po' diversa dalle altre.

«Adesso per un po' non li porterò più — dice sorridendo e accarezzandosi le extension dei capelli decisamente da rifare —. Non posso neppure mettermi seduta altrimenti mi riconoscono dalla posa», racconta Anna, che è il soprannome di questa ventisettenne ucraina che racconta di avere la passione per la lettura da quando è piccola. Ora ha anche l'ossessione di «diventare ricca per comprar casa e assicurare un futuro» ai suoi due gemelli, oggi undicenni, prima che sia troppo tardi: «Dopo i trent'anni per noi è finita, arrivano le diciottenni e ti sostituiscono». Lei deve fare in fretta e per questo è sempre qui. «Ogni tanto vado a Kiev a trovare mia madre e i miei figli: lei sa che cosa faccio e abbiamo avuto tanti conflitti (sì, dice conflitti ndr) ma i soldi li porto io. I miei figli credono che faccia la badante, ma con 900 euro al mese come farei?». E qui invece? «Anche 8 mila euro al mese: lavoro da sola, non li devo dividere con nessuno. Dovreste fare come in Germania e farci pagare le tasse: 120 euro a notte per poter uscire per strada», suggerisce.

Ma davvero legge Dostoevskij, qui tra lo sfrecciare delle auto e i camionisti che suonano il clacson quanto passano davanti a lei? «Lui è uno che ci sa fare con il racconto, lascia sempre le storie aperte», spiega nel suo italiano con l'accento ucraino. Non ha un personaggio preferito in Delitto e castigo: «Mi piace l'intrigo e leggo un po' di pagine per volta. Un libro l'ho anche comprato: è di Stephen King, il mio autore preferito. Anche se quello che amo di più èIl Piratadi Harold Robbins, lì c'è tanto intrigo e suspence».

Nella sua biblioteca portatile, racchiusa in uno scatolone, ha anche un libro inchiesta su Luciano Gaucci latitante ai tropici, Ken Follett con Alta Finanza il fantasy per ragazzi Maximum Ride di James Patterson, La voce invisibile del vento di Clara Sanchez e, appunto, Il Pirata: quando ne parla effettivamente le si allarga il sorriso. «Oh sì, lo leggo e lo rileggo, mi piace tantissimo, se lo comincio vado fino in fondo, ogni volta». Le piacerebbe anche tornare al cinema, dove è stata qualche volta, chissà «forse il prossimo inverno». Nel frattempo continua ad aspettare i suoi clienti e a fare i suoi conti: «Io ho fatto la fame, sa com'è quando la sera non c'è da mangiare? Ho dormito sotto i ponti quando sono arrivata in Italia, il mestiere che faccio non mi piace e non ho amici: ma ora ho una casa ad Aprilia, un appartamento che affitto dove posso tornare ogni sera». E una decina di libri per farsi compagnia. Poi un giorno spera di ripartire per Kiev: porterà i suoi libri? Sorride di nuovo: «Non so, i miei figli odiano leggere. Vogliono solo i videogiochi».

venerdì 7 aprile 2017

The tamed Woman

Un ex tipografo è stato condannato a soli sei anni e tre mesi per l'assassinio della moglie in quanto la vittima era una solenne rompiscatole e la sera prima gli aveva gridato: «Tu non vali niente, qui comando io». Non si tratta di un pesce d'aprile, anche perché nell'era della post-verità le notizie fasulle sguazzano già tutto l'anno e il primo aprile semmai si prendono una pausa. Un giudice — una giudice donna — ha realmente concesso l'attenuante della provocazione a un uxoricida di Gioia del Colle, in provincia di Bari, alla luce delle testimonianze che descrivevano sua moglie come un modello particolarmente efficace di trapano ricaricabile. Persino i figli, in una lettera indirizzata al padre in carcere, oltre a perdonarlo hanno ammesso di comprenderlo.

La vicenda pugliese avrà le sue specificità, ma se passasse il principio che la natura bisbetica del coniuge o del collega configura un'attenuante, in poche ore l'Italia si trasformerebbe nel teatro di una strage. Suscita più di qualche preoccupazione il pensiero che la vita delle persone possa cambiare valore a seconda del loro carattere. Ergastolo quando la vittima è un santo. Se invece è un tipo insolente bastano vent'anni, ma la pena può essere ridotta a dieci in caso di comportamenti sistematicamente acidi. Se poi è un reiterato frullatore, il tariffario penale scende fino a sei anni e qui mi fermo perché sto diventando un po' troppo indisponente e non vorrei che qualche lettore pensasse di potermi fare fuori gratis.

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sabato 1 aprile 2017

la nostra libertà in internet


La sinistra non è mai stata un asso nel creare eccitanti narrazioni a sfondo tecnologico, e infatti anche in questo caso non ha alcuna eccitante narrazione da offrirci. Peggio ancora: non ne avrà mai una se non riscriverà la storia di internet – l'humus intellettuale della Silicon Valley – come una storia di capitalismo e imperialismo neoliberista. 

 

Già come concetto, internet non è una nitida fotografia della realtà. Somiglia più alla macchia d'inchiostro del test di Rorschach, e di conseguenza chi la guarda ne trarrà una lezione diversa a seconda della sua agenda politica o ideologica. Il problema di internet come concetto regolativo su cui basare una critica alla Silicon Valley è che la rete è così ampia e indeterminata – può contenere esempi che portano a conclusioni diametralmente opposte – che lascerebbe sempre alla Silicon Valley una facile via di fuga nella pura e semplice negazione. Dunque qualsiasi sua critica efficace dovrà anche sbarazzarsi del concetto stesso. 

 

Persino progetti come Wikipedia si prestano a questa lettura duplice e ambigua. Nel sinistrorso ambiente accademico americano la tendenza dominante è leggere il suo successo come prova che le persone, lasciate a se stesse, sono in grado di produrre beni pubblici in modo del tutto altruistico e fuori dal contesto del mercato. Ma da una lettura liberista (o di destra) emerge un'interpretazione diversa: i progetti spontanei come Wikipedia ci dimostrano che non serve finanziare istituzioni perché producano beni pubblici come la conoscenza e la cultura quando qualcun altro – la proverbiale «massa» – può farlo gratis e per giunta meglio.  

 

La nostra incapacità di smettere di vedere ogni cosa attraverso questa lente internet-centrica è il motivo per cui un concetto come la sharing economy risulta così difficile da decifrare. Stiamo assistendo all'emergere di un autentico post-capitalismo collaborativo o è sempre il buon vecchio capitalismo con la sua tendenza a mercificare tutto, solo elevata all'ennesima potenza? Ci sono moltissimi modi di rispondere a questa domanda, ma se partiamo risalendo agli albori della storia di internet – è stata avviata da una manica di geni intraprendenti che smanettavano nei garage o dai generosi fondi pubblici delle università? – difficilmente troveremo una risposta anche solo vagamente precisa. Vi do una dritta: per capire l'economia della condivisione bisogna guardare – indovinate un po'… – all'economia. 

 

Da una prospettiva culturale, la questione non è se internet favorisca l'individualismo o la collaborazione (o se danneggi o agevoli i dittatori); la questione è perché ci poniamo domande così importanti su una cosa chiamata internet come se fosse un'entità a sé stante, separata dai meccanismi della geopolitica e dal contemporaneo capitalismo iperfinanziarizzato. Finché non riusciremo a pensare fuori da internet, non potremo tracciare un bilancio corretto e attendibile delle tecnologie digitali a nostra disposizione. 

 

Ci siamo fossilizzati sulla tesi della centralità di internet per spiegare la realtà (a seconda delle volte fosca o edificante) attorno a noi, e così continuiamo a cercare aneddoti che confermino la correttezza della nostra tesi; il che non fa che convincerci ancora di più che la nostra tesi preferita debba essere centrale in qualsiasi spiegazione dei nostri problemi attuali. 

Ma cosa significa in pratica pensare fuori da internet? Be', significa andare oltre le favolette fabbricate dal complesso industrial-congressuale della Silicon Valley. Significa prestare attenzione ai «dettagli» economici e geopolitici relativi al funzionamento di molte società hi-tech. Scopriremmo così che Uber – grande promotore della mobilità e della lotta alle élite – è un'azienda che vale più di 60 miliardi di dollari, in parte finanziata da Goldman Sachs. Allo stesso modo, ci renderemmo conto che l'attuale infornata di trattati commerciali come il TiSA, il TTIP e il TPP, nonostante siano ormai falliti, mira a promuovere anche il libero flusso di dati – scialbo eufemismo del ventunesimo secolo per «libero flusso di capitali» –, e che i dati saranno sicuramente uno dei pilastri del nuovo regime commerciale globale. 

 

Una simile lente post-internet potrebbe far sembrare il mondo un posto assai deprimente, ma non più di quanto già lo sia la realtà stessa del capitalismo di oggi. Questo nuovo modo di vedere ci offrirebbe anche un'idea di quello che bisogna fare e dei soggetti a cui si potrebbe affidare un eventuale programma di emancipazione. Una discussione adulta e matura sulla costruzione di un solido futuro tecnologico deve iniziare dal riconoscimento che dovrà essere anche un futuro tecnologico non liberista. 

 

Quindi, invece di continuare a discutere all'infinito su quanto emancipante possa essere il consumo o su come dobbiamo adattarci all'ultima calamità imparando a codificare la nostra soluzione individuale, dovremmo chiederci quale effetto hanno le politiche di austerity sugli stanziamenti per la ricerca. Dovremmo indagare sul fatto che l'evasione fiscale delle società tecnologiche impedisce alle alternative pubbliche di emergere. Dovremmo ammettere che l'incapacità delle persone di arrivare a fine mese a causa della crisi economica rende la sharing economy, con la possibilità che offre di mettere sul mercato tutto ciò che si possiede, non solo allettante ma anche inevitabile. 

 

Per tornare a una delle prime domande che ci siamo posti: possono i cittadini riconquistare la sovranità sulla tecnologia? Sì, ma solo a patto di riconquistare prima la sovranità sull'economia e la politica. Se la maggior parte di noi crede in qualche specie di «fine della Storia» – perché non ha voglia o non è capace di indagare la possibilità di una genuina alternativa sia al capitalismo globale sia al ruolo dominante del mercato nella vita sociale –, allora davvero non c'è speranza. Qualsiasi nuovo valore internet abbia potuto contenere al suo interno sarà schiacciato dall'attrattiva del soggettivismo neoliberista. 

 

Tuttavia, se si pensa allo stato disastroso in cui versa oggi il capitalismo – dalla crisi finanziaria alle guerre in Medioriente al possibile sgretolamento dell'Unione Europea –, è difficile non dare per scontata una simile teoria della «fine della Storia». 

 

Insomma, la cattiva notizia è che, se vogliamo che internet esprima fino in fondo il suo potenziale, il capitalismo deve finire. La buona notizia è che questo potrebbe succedere prima di quanto pensiamo.

mercoledì 29 marzo 2017

Chiara e gli altri diciottenni filosofi «Le Olimpiadi? Con Nietzsche»


I migliori d'Italia

Sono gli 85 studenti di filosofia migliori d'Italia che martedì mattina a Roma si sono sfidati nella finale italiana delle Olimpiadi di Filosofia, edizione numero 25, la più numerosa di sempre con oltre 10mila partecipanti. Nel 2015 erano stati appena 4mila. «È un'iniziativa che negli ultimi anni coinvolge sempre più scuole, a dimostrazione che la filosofia è viva e che grazie a questi ragazzi c'è ancora da sperare», sorride il presidente della commissione Franco Coniglione, ordinario di Filosofia all'Università di Catania, che nel pomeriggio di ieri ha letto e giudicato gli 85 saggi. Questa mattina al ministero dell'Istruzione si conosceranno i nomi dei due vincitori che il 25 maggio rappresenteranno l'Italia a Rotterdam nella finale mondiale. Tema dell'anno: la tolleranza. E nella patria di Erasmo non è un caso. Nel 2019 poi sarà Roma a ospitare tutti i giovani filosofi del mondo.

Filosofia e futuro

«La filosofia ci è necessaria, ti aiuta a vivere», dice Chiara, liceo Mario Pagano a Campobasso. Capelli rossi e occhi verdi, lei ha scelto Russell e «la finalità della filosofia» e per spiegarlo lo ha scritto in tedesco, «è la lingua che amo e studio da un anno: farò medicina a Monaco». Il suo compagno di scuola Giuseppe, 17 anni, ha preferito l'italiano e De Mauro. Entrambi ringraziano la loro prof di filosofia Dora Iafanti: «Senza di lei non saremmo qui, ci ha fatto amare questa materia fin dal primo giorno». Così come Ilaria, quinto scientifico Volta a Reggio Calabria (anche per lei Russell, in inglese): «Annaemi Montalto: l'ho avuta solo in terza, ma è merito suo se oggi la filosofia è la mia passione, mi piace vedere le cose da più punti di vista». Ilaria ama Schopenhauer e il pianoforte: «Sogno di andare a Firenze a studiare architettura». La pediatria è invece nei sogni di Flavia, 18enne da Piacenza, liceo scientifico Melchiorre Gioia («magari in Africa»): in filosofia ha 9, ma, «non la amo particolarmente, però mi piace pensare e studiare il pensiero, il mio filosofo preferito è Feuerbach e la sua idea di religione come alienazione». Anche lei ringrazia la prof Marisa Cogliati.

Passione trasmessa

Perché dietro a questi 85 giovani filosofi c'è sempre un insegnante e una forte passione trasmessa. È felice la prof Stefania Montecchio, liceo scientifico Cattaneo di Torino, alla sua prima finale: «Le Olimpiadi sono una cosa molto bella, servono a creare un sentimento legato a una scrittura più creativa e meno al compito in classe». E poi, «sono un modo per incontrarsi tra noi docenti e scambiarsi esperienze: un arricchimento per tutti».

«Vorrei fare il filosofo»

Intanto, Chiara, Riccardo e Pasquale continuano la loro discussione su fede, regole, Pascoli, Campana. Chiara, V linguistico Mamiani, già pensa all'Erasmus a Barcellona (il suo saggio lo ha scritto in spagnolo) e immagina un futuro tra arte e turismo, «voglio applicare la filosofia nell'ambito culturale». Riccardo e Pasquale sono invece gli unici due che nel loro futuro vedono la filosofia pura. «Vorrei fare il poeta», dice il marchigiano, barba, capelli lunghi e ricci, ultimo anno allo scientifico Filetto: «A scuola si parla solo di calcio, io vorrei andare alla Normale di Pisa, ma so che quella del filosofo non sarà una strada facile».

La rivoluzione dei 5 Stelle contro la conoscenza

Poche vicende descrivono bene quanto la battaglia sui vaccini la crescente egemonia dei Cinque Stelle nel Paese, con il rovesciamento della gerarchia tra credenza e conoscenza. La querelle coinvolge ormai fazioni di militanti e genitori spaesati, e imperversa dal Lazio alla Puglia, dalla Toscana alla Lombardia, toccando nella vita d'ogni giorno una platea fragile come i nostri bambini in uno scenario delicato come le scuole materne: i livelli di sicurezza cominciano a vacillare in molte comunità.

Capaci di debellare malattie terribili in un passato ancora recente, decisivi nel balzo in avanti dell'umanità verso una vita più lunga e sana, i vaccini vengono ora chiamati in causa quali intrugli responsabili di autismo e patologie varie, buoni solo ad arricchire Big Pharma, il diabolico mostro a molte teste dell'industria farmaceutica. Prove? Zero. Scientificamente è come affermare che la terra è piatta, ripetono (spesso inascoltati) virologi di fama. Non solo: il complotto farmaceutico non sta in piedi neppure sul piano logico; la lobby del farmaco guadagnerebbe infatti, assai più che coi vaccini, con le medicine per curare malattie risorte proprio a causa delle mancate vaccinazioni. Insomma, in società dotate d'un normale tasso di razionalità i vaccini dovrebbero essere politicamente neutri: nella nostra, sono un formidabile indicatore di nuovi comportamenti. E mutata egemonia. «Se tu accedi a un bagaglio di informazioni giuste, puoi fare prevenzione da solo», sosteneva Beppe Grillo in un volume di dialoghi con Dario Fo e Gianroberto Casaleggio edito da Chiarelettere.

È verosimile che i genitori «No-Vax» non siano tutti grillini. Ma tutti risentono di un clima nel quale la credenza fa premio sulla conoscenza, perché «uno vale uno» anche in medicina e, appunto, basta studiarsi qualche schermata di Internet per fare «prevenzione da solo». La chiave per capire la natura del Movimento pentastellato e la sua sintonia con lo spirito del tempo sta forse qui, e chiarisce, ad esempio, perché risulti utile ai grillini silenziare non un giornalista o l'altro ma il giornalismo indipendente come funzione (a prescindere da quanto bene o male la funzione venga esercitata dai giornalisti).

Questa egemonia innerva ciò che il sociologo Gerald Bronner chiama la «democrazia dei creduloni» (uno studio nato in Francia ma assai sovrapponibile ai nostri populismi). E si nutre del passaggio diretto — disintermediato — delle credenze dal vertice alla base senza filtri tecnici (lo scienziato, l'economista, il giurista, ma anche il giornalista che a scienza, diritto ed economia si rivolge come fonti per valutare la plausibilità di in una notizia).

Scardinata l'intermediazione, tutto è plausibile: che la cura Di Bella sia utile e l'Aids una bufala, che le mammografie minaccino le donne e le scie chimiche tutti noi, che Pinochet sia venezuelano e il reddito di cittadinanza agevolmente sostenibile in via strutturale. Persino l'idea che lo stadio della Roma venga realizzato «senza favori ai palazzinari» è credenza, perché tagliando metà cubature non si faranno opere pubbliche fondamentali rendendo forse impraticabile il progetto(ma per allora sarà passato abbastanza tempo da scaricare la colpa su oscure burocrazie).

La conoscenza oggettiva, tecnica, diventa dunque un patrimonio esoterico e antidemocratico. Il grottesco rimasticamento della rivoluzione culturale cinese che ha spinto Grillo a vagheggiare giurie popolari contro i giornali e riti di umiliazione dei direttori pare, più che un lapsus, un messaggio: chiunque sa, chiunque detenga il potere della conoscenza vi sta fregando, la scienza è assoldata (Ilaria Capua è dunque una «trafficante di virus», la Levi Montalcini una «vecchia meretrice»). La «vera» verità è una convinzione diffusa che discende dal capo al popolo. Via web. Se davvero uno vale uno, non c'è scienza che possa farlo valere due. Ne consegue l'ingovernabilità di una società complessa (che si basa invece sulla fiducia nelle altrui competenze: se salgo su una macchina mi fido che chi l'ha progettata non la faccia esplodere...). Ma non a caso il grillismo si propone la riduzione di tale complessità a decrescita felice. Rousseau, spirito guida dei grillini, nell'«Emile» teorizza la santa ignoranza. Che oggigiorno comporta un bel vantaggio: l'impermeabilità a scandali e contraddizioni, a Roma come a Genova o a Quarto, perché la base «crede». Se ha ragione Bronner, se «credere è molto più economico che ragionare», i fedeli dell'Elevato stanno risparmiando un sacco di energie per i giorni cupi.


sabato 25 marzo 2017

Il discorso improprio dei grillini

Con i parlamentari grillini è arrivato sulla scena un tipo affatto nuovo di personale politico. Un personale politico in maggioranza giovane che in teoria dovrebbe corrispondere alla novità presunta positiva della loro azione e del loro programma. In pratica però le cose non sembrano stare proprio così, dal momento che almeno nella forma, nel modo di esprimersi, quei nuovi parlamentari tendono irresistibilmente a imitare, addirittura esasperandoli, alcuni aspetti tipici del politico italiano tradizionale. Primo fra tutti la sostanziale vaghezza dell'eloquio. Sicché ciò che specialmente colpisce dei deputati e dei senatori 5 Stelle finisce per essere la loro marcata impudenza, soprattutto quando vengono interrogati su cose che li riguardano. Allora rispondono a vanvera, svicolano, spesso replicano dando più o meno esplicitamente della canaglia a chi gli ha fatto la domanda. Sempre peraltro con l'aria di dare una risposta perfettamente appropriata e con una perentorietà dai toni ultimativi.

Un esempio tratto dalla cronaca degli ultimi giorni. È noto che con il sistema elettorale proporzionale al quale sembriamo sciaguratamente avviati, nel prossimo Parlamento un governo potrà nascere solo dall'intesa tra partiti diversi. Ovvia dunque la domanda agli esponenti del partito di Grillo, che tra un anno ha buona probabilità di essere il partito di maggioranza relativa: «Voi 5 Stelle con chi cercherete un'alleanza?».

Risposta d'ordinanza dei grillini: «Con nessuno. Sottoporremo il nostro programma a tutti, e chi ci sta ci sta. Non faremo certo accordi o compromessi». Una risposta davvero degna della serie «Pinocchio vive e lotta insieme a noi». È del tutto naturale e risaputo, infatti, che se un qualunque partito si orienta a votare il programma di governo sottopostogli da un altro — cioè in pratica a entrare con lui nella maggioranza — esso vorrà certamente avere qualcosa in cambio. O posti o la disponibilità a far passare provvedimenti che gli stanno a cuore, dal momento che nessuno dà nulla per nulla: nella vita accade il più delle volte, in politica sempre. I candidi parlamentari dei 5Stelle fingono invece di non saperlo. Immagino al solo scopo di sottolineare la loro immacolata diversità dagli altri. Ma si tratta con tutta evidenza di una bugia da furbastri. Politicantismo della più bell'acqua.

Del resto è lo stesso Beppe Grillo il maestro di questo tipo di risposte. Proprio qualche giorno fa, ad esempio, il nostro viene interrogato sul caso delle «comunarie» di Genova, dove come si sa ha fatto dimettere d'imperio la candidata risultata vincitrice, e risponde così: «È un problema di metodo. Una democrazia senza regole non è una democrazia. Noi abbiamo le nostre. Io sono il garante e le faccio rispettare». Già, ma delle regole ce l'hanno tutti — la mafia, l'ordine dei farmacisti, l'Automobile Club —: si tratta di vedere di che razza di regole si tratta, che cosa stabiliscono. Una regola che dà tutto il potere a uno solo sarà pure una regola, ma è certo che con la democrazia non ha nulla a che fare. La risposta di Grillo è un puro gioco di parole, insomma, non vuol dir nulla: anche qui politicantismo della peggior specie.

Intendiamoci: come ho detto, ricorrere a simili trucchi verbali, menare il can per l'aia, eludere le questioni scomode è in certa misura una cosa abituale in politica (solo in politica?). Ciò che alla fine risulta stucchevole e diciamo pure insopportabile nei 5Stelle è il fatto, però, che tutto questo si accompagna a una implacabile sicumera da primi della classe, di «diversi e migliori» in servizio permanente effettivo.

Ma il loro modo di rispondere (e in generale di esprimersi) non mi sembra per nulla casuale. È il frutto di un elemento che ascoltandoli risulta subito evidente: e cioè della loro scarsa dimestichezza, in generale, con la dimensione del «discorso». Voglio dire con la capacità di esporre spiegazioni verosimili, di articolare nessi plausibili, di modellare argomentazioni almeno in parte fondate, di usare una retorica che non sia quella elementarissima del «bianco e nero». Una scarsa dimestichezza che evidentemente rimanda per un verso alla diffusa inesperienza politico-sociale della maggior parte degli esponenti dei 5Stelle. Ben pochi dei quali hanno mai militato in un partito, sono stati iscritti a un sindacato o a un'organizzazione qualunque, e dunque non hanno mai avuto a che fare con dibattiti e discussioni, con la necessità di replicare, mediare, giustificare, propria di questo tipo di circostanze. Per l'appunto i parlamentari grillini sono i nuovi e inespertissimi arrivati nella sfera pubblica italiana.

Per un verso. Ma c'è poi un'altra spiegazione, credo, per la loro scarsa dimestichezza con la dimensione del «discorso». Con la giovane età che perlopiù li contraddistingue essi appaiono, infatti, anche il frutto compiuto dello sfasciato sistema d'istruzione del loro (e ahimè nostro) Paese. Nel loro modo di parlare e di ragionare, nel loro lessico, è facile indovinare curriculum scolastici rabberciati, insegnanti troppo indulgenti, lauree triennali in scienze della comunicazione, studi svogliati, poche letture, promozioni strappate con i denti.

S'indovina cioè un vuoto. Il multiforme vuoto italiano di questi anni, in cui tutto sembra sgretolarsi e finire. Un vuoto a cui come elettori, peraltro, si può essere pure tentati di accostarsi con la speranza — sempre l'ultima a morire — che esso celi qualcosa di buono che a prima vista non è dato di scorgere ma che forse c'è, in fondo chissà potrebbe pure esserci. Salvo restare ogni volta regolarmente delusi.

Nel caso dei grillini c'è in più Grillo, poi: per il quale tutte questa osservazioni naturalmente non valgono. Lui infatti è un'altra cosa, lui è il Capo, il pifferaio magico, il Joker casareccio che approfittando dell'assenza da queste parti di chiunque possa fare la parte di Batman, ha immaginato di diventare un giorno il padrone di Gotham City.

venerdì 24 marzo 2017


John Collison, 26 anni, fondatore di "Stripe", è il più giovane miliardario "self -made man" del mondo, secondo Forbes

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COLLISON
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È il più giovane miliardario del mondo "self-made man", ovvero fattosi da solo: secondo l'annuale classifica dei ricchi stilata dalla rivista Forbes è John Collison, irlandese di 26 anni, fondatore dell'applicazione Stripe, a guadagnarsi il titolo. La sua app, che ha l'obiettivo di trasformare il settore dei pagamenti online, ha un valore di circa 9,2 miliardi di dollari. Collison ha scalzato il co-fondatore di Snapchat, Evan Spiegel, più vecchio di lui di appena due mesi.

Stripe è stata fondata nel 2010 con il sostegno di Peter Thiel, Elon Musk e Sequoia Capital e recentemente ha ricevuto un finanziamento da 150 milioni di dollari da parte di CapitalG, una divisione di investimenti di Google, e General Catalyst Partners. Il suo campo di influenza è dunque in crescita. Così come il patrimonio di Collison, per ora stimato intorno a 1,1 miliardi di dollari.

Collison lavora fianco a fianco con il fratello Patrick, con il quale condivide la passione per l'informatica e i codici. Prima di creare Stripe, i due avevano fondato una startup chiamata "Auctomatic", che fu venduta per 5 milioni di dollari nel 2008 quando erano ancora dei teenager.

domenica 5 marzo 2017

La nostra solitudine


Di che cosa ha bisogno oggi la gente?  

«La gente ha una grande necessità di essere consolata nella propria solitudine e il cinema aiuta. Tutti ci sentiamo soli e il cinema, per convergenze misteriose, allevia il dolore della solitudine che alberga in ognuno di noi».

lunedì 30 gennaio 2017

Bullo o Frontrunner?


Matteo Renzi "è geneticamente un bullo". È il giudizio che Enrico Mentana dà dell'ex premier in una lunga intervista al Corriere della Sera. Renzi – afferma Mentana – "è un bullo, ma non più di altri sulla scena internazionale.

"Trump è bullo? Putin è bullo? Erdogan è bullo?", si domanda Mentana. "Oggi, se hai una leadership e devi comandare in uno scenario in cui tutto è cambiato, sei bullo. Ma, soprattutto, sei bullo se hai scalato il partito dei dinosauri dal di fuori, se sei uno che ha voglia di comandare e ha coscienza di sé. Sono due connotati della leadership, ma c'è un però".

Quale? "La leadership – spiega il direttore del tg di La7 - passa anche attraverso la capacità, che Renzi non ha più, di raccontare un progetto e far sognare. E che neanche il partito ha: qui siamo alla migliore gestione possibile dell'ordinario". Ma non è tutto: "Sei bullo – aggiunge Mentana - anche se comandi senza che vi sia il riconoscimento generale non solo che hai la voce più bella, ma anche più sentimento e interpretazione del canto".

Renzi – conclude Mentana – "è in un momento difficile di scelta sul futuro. Tutto quello che ha costruito viene smontato pezzo a pezzo, ora anche il jobs act è a rischio di referendum. Nessuno, oggi, sarebbe sicuro che, con elezioni a breve, vincerebbe […]. Ha fatto cose perfette nella prima fase di governo, poi ha continuato a correre e correre, a cercare la scena internazionale, ma ha rallentato la capacità di analisi della realtà e la capacità riformistica. E non ha fatto nulla per i giovani".

Quanto a Beppe Grillo, il giudizio di Mentana è che non abbia "le linee guida fondamentali per condurre un partito. Letteralmente, improvvisa ogni giorno nel tentativo di dare una risposta d'ordine a un problema che emerge quando, non l'ultimo peone, ma parlamentari importanti mettono in discussione la linea del movimento. Però che diamine, lui che è per la libertà del web eccetera vuole solo interviste concordate? Mah…".

Infine, un giudizio su Paolo Gentiloni: "l'effetto bar".

"Quando tu corri tanto, corri , corri, fai la maratona e bevi dalla borraccia al volo, poi ti fermi e vai al bar e uno e ti chiede cosa vuoi, dici 'che bello'. L'effetto bar di Gentiloni è questo. Con Renzi si è corso, Gentiloni è uno che non ti pone ogni mezza giornata il dilemma se seguirlo o no. Cos'ha dichiarato Gentiloni oggi? Niente. Che pace. Gentiloni è affidabile, è una guida che c'è. È perbene. Direi piuttosto che non fa ombra quasi a nessuno".

domenica 29 gennaio 2017

Per favore! Niente chat, solo una chiacchierata

Non è per le faccine di risposta a ogni messaggio. Non è per quelli che la usano per chiacchierare con una persona sola: «Per la mamma di Valeria, allora ti aspetto all'uscita :-)», «Ok, grz :-):-)». Non è nemmeno per quelli che chiedono i compiti, poi l'aiutino per i compiti, poi ancora il confronto dei compiti, alla fine la soluzione dei compiti. Ho lasciato la chat su WhatsApp dei genitori della scuola di mio figlio. E sono tornato un uomo felice. Ma non l'ho fatto per gli effetti collaterali, che pure sono fastidiosi. L'ho fatto perché la chat, in sé, è gravemente dannosa per la salute. Peggio delle sigarette.

Nuoce alla salute (anche con i genitori migliori)

Tutto dipende da come viene usata, dicono. Falso, la chat fa male a prescindere. Essere connessi H 24 e in tempo reale con gli altri genitori genera un incubatore di ansia da prestazione che rovinerebbe la mamma o il papà più zen del mondo. Anche se tutti i genitori sono, come nel caso della scuola elementare di mio figlio, persone per bene, intelligenti e pure simpatiche. La chat nuoce gravemente alla salute per due motivi.



Amplifica le piccole cose

Il primo è che trasforma ogni refolo di vento in una tempesta. Un esempio? A scuola fa freddo dopo le festa di Natale. Uno solleva il caso, un altro minimizza. Un altro ancora attacca la maestra, poi c'è quello che la difende, quello che se la prende con la preside. Dopo un po' arriva quello che ricorda i tempi della nonna, quello che tira in ballo il sindaco, quella che difende il sindaco. Alla fine non si risolve nulla. Anche senza la chat non si risolve nulla. Ma almeno non c'è quella sfilza di squilli e vibrazioni che ti fa dimenticare l'unica cosa davvero importante da fare: chiedere a tuo figlio (non alla chat) se a scuola fa freddo. E in caso mettergli una maglia più pesante.

L'ansia da prestazione del genitore perfetto

Il secondo motivo per cui la chat fa male è quella che gli esperti chiamano vetrinizzazione della identità. Cosa vuol dire? Spesso chi interviene non lo fa per dare il suo contributo alla soluzione di un problema, ma per essere sicuro di dare l'immagine giusta di sé. Una gara senza vincitori dove tutti siamo perdenti: ognuno vuole sembrare presente e premuroso, quando parla della merenda bio, della festa della domenica o del pomeriggio con gli amichetti. Alla fine, davanti a tanta premura, tutti finiamo per sentirci inadeguati. A parte la super mamma perfetta che c'è in ogni classe ma che, tranquilli, di Meglio la mail, che usiamo con più attenzione

Il risultato finale è che sulla chat passa quello che non serve. E non passa quello che serve. L'altro giorno, quando c'è stato il terremoto e la scuola è stata evacuata, noi genitori siamo stati avvertiti via mail. Nessuna risposta tanto per rispondere, solo la comunicazione di quella santa donna della nostra efficientissima rappresentante di classe. Alla fine, sulla mail, l'ansia da prestazione scatta più difficilmente. E le piccole cose tendono a rimanere quello che sono, piccole cose. Io sono fuori dal tunnel, di nuovo felice. Urge un intervento che salvi gli altri genitori: un divieto generale per decreto con tanti saluti a quel che resta dello Stato liberale.

P.s. Cari colleghi genitori. Ci si vede domani al bar per il caffè post campanella. Ci facciamo una bella chiacchierata. Ripeto: chiacchierata, non chat.




mercoledì 18 gennaio 2017

Eccellenza italiana all'estero


È accaduto lo scorso 9 gennaio, a Washington, quando il presidente uscente Barack Obama ha annunciato i vincitori dei premi «Pecase», «Presidential Early Career Awards for Scientists and Engineers», la più alta onorificenza del governo federale per giovani scienziati e ingegneri all'inizio della loro carriera da ricercatori. È significativo che sia stata questa una delle ultime iniziative di un Presidente molto attento al progresso scientifico e all'innovazione tecnologica e quest'anno, a conferma dell'eccellenza dei ricercatori italiani all'estero, ci sono tre connazionali tra i 102 vincitori: Anna Grassellino, 35enne di Marsala, Marco Pavone e Guglielmo Scovazzi, entrambi torinesi, di 37 e 43 anni.  

 

Anna Grassellino ha studiato ingegneria elettronica a Pisa, prima di trasferirsi negli Usa per un dottorato in fisica all'università della Pennsylvania. Oggi dirige un team di 20 persone al Fermilab di Chicago. «La mia ricerca riguarda le cavità superconduttive a radiofrequenza, una tecnologia utilizzata negli acceleratori di particelle di ultima generazione», spiega. Il suo gruppo ha scoperto un meccanismo per triplicare l'efficienza del materiale superconduttore, il niobio, «dopandolo» con atomi di azoto. «Questo consente di ridurre i requisiti di raffreddamento, abbassando i costi di costruzione e aumentando la performance energetica». 

 

Il progetto per il quale è stata premiata riguarda, appunto, la costruzione di un nuovo tipo di acceleratore in grado di produrre un fascio di particelle a struttura continua con un'intensità mai raggiunta finora. L'obiettivo della Grassellino per i prossimi anni è di «spingere i limiti di questa tecnologia per studiare la fisica delle particelle, esplorando applicazioni anche in biologia e medicina.»  

 

Anche il lavoro di Marco Pavone, assistant professor di aeronautica e astronautica alla Stanford University, è multidisciplinare. «Sviluppo algoritmi di Intelligenza Artificiale per rendere i sistemi robotici più autonomi, utili e sicuri», spiega. Il suo laboratorio si occupa di auto senza conducente e aerei senza pilota, ma il progetto che gli è valso il premio è in collaborazione con la Nasa. «L'obiettivo è munire sistemi aerospaziali, come navicelle o veicoli esplorativi, di Intelligenza Artificiale, affinché si adattino a situazioni ambientali estreme e imprevedibili». 

 

Il primo risultato è stato un robot ibrido in grado di muoversi in condizioni di microgravità su corpi celesti come asteroidi e comete. Robot più grandi potrebbero essere utilizzati per una delle prossime missioni su Marte. Ad esempio, quella al cui progetto Pavone ha lavorato per conto dell'agenzia Usa dopo il dottorato al Mit di Boston, dov'era approdato con una laurea in informatica all'Università di Catania. 

 

Guglielmo Scovazzi negli Usa è arrivato invece qualche anno prima. Dopo essersi laureato in ingegneria aeronautica al Politecnico di Torino, è volato in California per il dottorato in ingegneria meccanica a Stanford, a cui sono seguiti otto anni ai Sandia National Laboratories, in New Mexico, e infine l'incarico di associate professor alla Duke University, nella Carolina del Nord. «La mia disciplina è la meccanica computazionale e mi occupo di simulazioni di sistemi complessi nell'ambito della meccanica del continuo», racconta. Il suo laboratorio sviluppa algoritmi per studiare il comportamento dinamico di materiali solidi e fluidi. Le applicazioni sono svariate, tanto che Scovazzi è affiliato ai dipartimenti di ingegneria civile, ambientale e meccanica. «Le simulazioni delle interazioni fluido-struttura sono fondamentali tanto per le turbine quanto per i dispositivi biomedici e i reattori nucleari». Il progetto per cui ha ricevuto il premio ha contribuito a rendere queste simulazioni più accurate, consentendo di modellare geometrie estremamente complesse. 

 

I tre ricercatori avranno occasione di incontrarsi in primavera, quando saranno convocati alla Casa Bianca per ricevere l'onorificenza da Donald Trump. Quel giorno, stringendosi la mano, forse si chiederanno se avrebbero ottenuto gli stessi risultati in Italia. Per rispondere, bisogna capire cosa li accomuna, oltre a capacità e determinazione. Di sicuro la formazione italiana, senza distinzione di università, visto che si sono laureati in tre atenei diversi: uno al Nord, uno al Centro e uno al Sud. Fondamentale è stato poi il dottorato Usa, il PhD, che ha permesso loro di applicare le conoscenze acquisite a problemi concreti. Infine, ciascuno ha ottenuto un finanziamento quinquennale dal governo Usa all'inizio della carriera da ricercatore. 

 

Sarebbe stato possibile in Italia? Purtroppo no. I ricercatori italiani all'estero devono guardare avanti e continuare a correre, perché non possono permettersi rimpianti.

mercoledì 11 gennaio 2017

Il 70 per cento degli italiani è analfabeta (legge, guarda, ascolta, ma non capisce)

Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all'80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano "normali" anch'essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell'unico di loro che non è analfabeta, e però sono "diversi".  

 

Quel é questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva. Non sono certamente analfabeti "strumentali", bene o male sanno leggere anch'essi e – più o meno – sanno tuttora far di conto (comunque c'è un 5 per cento della popolazione italiana che ancora oggi è analfabeta strutturale, "incapace di decifrare qualsivoglia lettera o cifra"); ma essi sono analfabeti "funzionali", si trovano cioè in un'area che sta al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura o nell'ascolto di un testo di media difficoltà. Hanno perduto la funzione del comprendere, e spesso – quasi sempre - non se ne rendono nemmeno conto. 

Quando si dice che quella di oggi non è più la civiltà della ragione ma la civiltà della emozione, si dice anche di questo. E quando Bauman (morto ieri, grazie a lui per ciò che ci ha dato) diceva che, indipendentemente da qualsiasi nostro comportamento, ogni cosa é intessuta in un discorso, anche l'"analfabetismo" sta nel "discorso". Cioè disegna un profilo di società nella quale la competenza minima per individuare una capacità di articolazione del proprio ruolo di "cittadino" - di soggetto consapevole del proprio ruolo sociale, disponibile a usare questo ruolo nel pieno controllo della interrelazione con ogni atto pubblico e privato – questa competenza appartiene soltanto al 20 per cento dei nostri connazionali. 

 

E' sconcertante, e facciamo fatica ad accettarlo. Ma gli strumenti scientifici di cui la linguistica si serve per analizzare il rapporto tra "messaggio" e "comprensione" hanno una evidenza drammatica. 

 

Non é un problema soltanto italiano. L'evoluzione delle tecnologie elettroniche e la sostituzione del messaggio letterale con quello iconico stanno modificando un po' dovunque il livello di comprensione; ma se le percentuali attribuibili ad altre societá (anche Francia, Germania, Inghilterra, o anche gli Usa, che non sono affatto il modello metropolitano del nostro immaginario ma piuttosto un'ampia America profonda, incolta, ignorante estremamente provinciale) se anche quelle societá denunciano incoerenze e ritardi, mai si avvicinano a queste angosciose latitudini, che appartengono soltanto all'Italia, e alla Spagna. 

 

Il "discorso" è complesso, e ha radici profonde, sociali e politiche. 

Se prendiamo in mano i numeri, con il loro peso che non ammette ambiguità e approssimazioni, dobbiamo ricordare che nel nostro paese più di 23 milioni di italiani – circa il 40 per cento – non ha alcun titolo di studio o ha, al massimo, la licenza della scuola elementare. Non é che la scuola renda intelligenti, e però fornisce strumenti sempre più raffinati – quanto più avanti si vada nello studio - per realizzare pienamente le proprie qualità individuali. 

Vi sono anche laureati e diplomati che sono autentiche bestie, e però è molto più probabile trovare "bestie" tra coloro che laurea e diploma non sanno nemmeno che cosa siano. (La percentuale dei laureati in Italia, poi, é poco più della metà dei paesi più sviluppati.) 

 

Diceva Tullio De Mauro, il più noto linguista italiano, ministro anche della Pubblica Istruzione (incarico che siamo capaci di assegnare perfino a chi non ha né laurea né diploma – e questo dato rientra sempre nel "discorso"), che più del 50 per cento degli italiani si informa (o non si informa), vota vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge le complessità, ma che anche davanti a un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale) é capace di una comprensione appena basilare.  

 

Un dato impressionante ce l'ha fatto conoscere ieri l'Istat: il 18,6 per cento degli italiani – cioè quasi uno su 5 – lo scorso anno non ha mai aperto un libro o un giornale, non é mai andato al cinema o al teatro o a un concerto, e neppure allo stadio, o a ballare. Ha vissuto prevalentemente per la televisione come strumento informativo fondamentale, e non é azzardato credere – visti i dati di riferimento della scolarizzazione – che la sua comprensione della realtà lo piazzi a pieno titolo in quell'80 per cento di analfabeti funzionali (che riguarda comunque un universo sociale drammaticamente molto più ampio di questa pur amara marginalità). E da qui, poi, il livello e il grado della partecipazione alla vita della società, le scelte e gli stili di vita, il voto elettorale, la reazione solo di pancia – mai riflessiva – ai messaggi dove la realtà si copre spesso con la passione, l'informazione e la sua contaminazione con la pubblicità e tant'altro che ben si comprende. E' il "discorso".  

Il "discorso" ha al centro la scuola, il sistema educativo del paese, le scelte e gli investimenti per la costruzione di un modello funzionale che superi il ritardo con cui dobbiamo misurarci in un mondo sempre più aperto e sempre più competitivo. Se noi destiniamo alla ricerca la metà di un paese come la Bulgaria, evidentemente c'é un "discorso" da riconsiderare.