lunedì 30 gennaio 2017

Bullo o Frontrunner?


Matteo Renzi "è geneticamente un bullo". È il giudizio che Enrico Mentana dà dell'ex premier in una lunga intervista al Corriere della Sera. Renzi – afferma Mentana – "è un bullo, ma non più di altri sulla scena internazionale.

"Trump è bullo? Putin è bullo? Erdogan è bullo?", si domanda Mentana. "Oggi, se hai una leadership e devi comandare in uno scenario in cui tutto è cambiato, sei bullo. Ma, soprattutto, sei bullo se hai scalato il partito dei dinosauri dal di fuori, se sei uno che ha voglia di comandare e ha coscienza di sé. Sono due connotati della leadership, ma c'è un però".

Quale? "La leadership – spiega il direttore del tg di La7 - passa anche attraverso la capacità, che Renzi non ha più, di raccontare un progetto e far sognare. E che neanche il partito ha: qui siamo alla migliore gestione possibile dell'ordinario". Ma non è tutto: "Sei bullo – aggiunge Mentana - anche se comandi senza che vi sia il riconoscimento generale non solo che hai la voce più bella, ma anche più sentimento e interpretazione del canto".

Renzi – conclude Mentana – "è in un momento difficile di scelta sul futuro. Tutto quello che ha costruito viene smontato pezzo a pezzo, ora anche il jobs act è a rischio di referendum. Nessuno, oggi, sarebbe sicuro che, con elezioni a breve, vincerebbe […]. Ha fatto cose perfette nella prima fase di governo, poi ha continuato a correre e correre, a cercare la scena internazionale, ma ha rallentato la capacità di analisi della realtà e la capacità riformistica. E non ha fatto nulla per i giovani".

Quanto a Beppe Grillo, il giudizio di Mentana è che non abbia "le linee guida fondamentali per condurre un partito. Letteralmente, improvvisa ogni giorno nel tentativo di dare una risposta d'ordine a un problema che emerge quando, non l'ultimo peone, ma parlamentari importanti mettono in discussione la linea del movimento. Però che diamine, lui che è per la libertà del web eccetera vuole solo interviste concordate? Mah…".

Infine, un giudizio su Paolo Gentiloni: "l'effetto bar".

"Quando tu corri tanto, corri , corri, fai la maratona e bevi dalla borraccia al volo, poi ti fermi e vai al bar e uno e ti chiede cosa vuoi, dici 'che bello'. L'effetto bar di Gentiloni è questo. Con Renzi si è corso, Gentiloni è uno che non ti pone ogni mezza giornata il dilemma se seguirlo o no. Cos'ha dichiarato Gentiloni oggi? Niente. Che pace. Gentiloni è affidabile, è una guida che c'è. È perbene. Direi piuttosto che non fa ombra quasi a nessuno".

domenica 29 gennaio 2017

Per favore! Niente chat, solo una chiacchierata

Non è per le faccine di risposta a ogni messaggio. Non è per quelli che la usano per chiacchierare con una persona sola: «Per la mamma di Valeria, allora ti aspetto all'uscita :-)», «Ok, grz :-):-)». Non è nemmeno per quelli che chiedono i compiti, poi l'aiutino per i compiti, poi ancora il confronto dei compiti, alla fine la soluzione dei compiti. Ho lasciato la chat su WhatsApp dei genitori della scuola di mio figlio. E sono tornato un uomo felice. Ma non l'ho fatto per gli effetti collaterali, che pure sono fastidiosi. L'ho fatto perché la chat, in sé, è gravemente dannosa per la salute. Peggio delle sigarette.

Nuoce alla salute (anche con i genitori migliori)

Tutto dipende da come viene usata, dicono. Falso, la chat fa male a prescindere. Essere connessi H 24 e in tempo reale con gli altri genitori genera un incubatore di ansia da prestazione che rovinerebbe la mamma o il papà più zen del mondo. Anche se tutti i genitori sono, come nel caso della scuola elementare di mio figlio, persone per bene, intelligenti e pure simpatiche. La chat nuoce gravemente alla salute per due motivi.



Amplifica le piccole cose

Il primo è che trasforma ogni refolo di vento in una tempesta. Un esempio? A scuola fa freddo dopo le festa di Natale. Uno solleva il caso, un altro minimizza. Un altro ancora attacca la maestra, poi c'è quello che la difende, quello che se la prende con la preside. Dopo un po' arriva quello che ricorda i tempi della nonna, quello che tira in ballo il sindaco, quella che difende il sindaco. Alla fine non si risolve nulla. Anche senza la chat non si risolve nulla. Ma almeno non c'è quella sfilza di squilli e vibrazioni che ti fa dimenticare l'unica cosa davvero importante da fare: chiedere a tuo figlio (non alla chat) se a scuola fa freddo. E in caso mettergli una maglia più pesante.

L'ansia da prestazione del genitore perfetto

Il secondo motivo per cui la chat fa male è quella che gli esperti chiamano vetrinizzazione della identità. Cosa vuol dire? Spesso chi interviene non lo fa per dare il suo contributo alla soluzione di un problema, ma per essere sicuro di dare l'immagine giusta di sé. Una gara senza vincitori dove tutti siamo perdenti: ognuno vuole sembrare presente e premuroso, quando parla della merenda bio, della festa della domenica o del pomeriggio con gli amichetti. Alla fine, davanti a tanta premura, tutti finiamo per sentirci inadeguati. A parte la super mamma perfetta che c'è in ogni classe ma che, tranquilli, di Meglio la mail, che usiamo con più attenzione

Il risultato finale è che sulla chat passa quello che non serve. E non passa quello che serve. L'altro giorno, quando c'è stato il terremoto e la scuola è stata evacuata, noi genitori siamo stati avvertiti via mail. Nessuna risposta tanto per rispondere, solo la comunicazione di quella santa donna della nostra efficientissima rappresentante di classe. Alla fine, sulla mail, l'ansia da prestazione scatta più difficilmente. E le piccole cose tendono a rimanere quello che sono, piccole cose. Io sono fuori dal tunnel, di nuovo felice. Urge un intervento che salvi gli altri genitori: un divieto generale per decreto con tanti saluti a quel che resta dello Stato liberale.

P.s. Cari colleghi genitori. Ci si vede domani al bar per il caffè post campanella. Ci facciamo una bella chiacchierata. Ripeto: chiacchierata, non chat.




mercoledì 18 gennaio 2017

Eccellenza italiana all'estero


È accaduto lo scorso 9 gennaio, a Washington, quando il presidente uscente Barack Obama ha annunciato i vincitori dei premi «Pecase», «Presidential Early Career Awards for Scientists and Engineers», la più alta onorificenza del governo federale per giovani scienziati e ingegneri all'inizio della loro carriera da ricercatori. È significativo che sia stata questa una delle ultime iniziative di un Presidente molto attento al progresso scientifico e all'innovazione tecnologica e quest'anno, a conferma dell'eccellenza dei ricercatori italiani all'estero, ci sono tre connazionali tra i 102 vincitori: Anna Grassellino, 35enne di Marsala, Marco Pavone e Guglielmo Scovazzi, entrambi torinesi, di 37 e 43 anni.  

 

Anna Grassellino ha studiato ingegneria elettronica a Pisa, prima di trasferirsi negli Usa per un dottorato in fisica all'università della Pennsylvania. Oggi dirige un team di 20 persone al Fermilab di Chicago. «La mia ricerca riguarda le cavità superconduttive a radiofrequenza, una tecnologia utilizzata negli acceleratori di particelle di ultima generazione», spiega. Il suo gruppo ha scoperto un meccanismo per triplicare l'efficienza del materiale superconduttore, il niobio, «dopandolo» con atomi di azoto. «Questo consente di ridurre i requisiti di raffreddamento, abbassando i costi di costruzione e aumentando la performance energetica». 

 

Il progetto per il quale è stata premiata riguarda, appunto, la costruzione di un nuovo tipo di acceleratore in grado di produrre un fascio di particelle a struttura continua con un'intensità mai raggiunta finora. L'obiettivo della Grassellino per i prossimi anni è di «spingere i limiti di questa tecnologia per studiare la fisica delle particelle, esplorando applicazioni anche in biologia e medicina.»  

 

Anche il lavoro di Marco Pavone, assistant professor di aeronautica e astronautica alla Stanford University, è multidisciplinare. «Sviluppo algoritmi di Intelligenza Artificiale per rendere i sistemi robotici più autonomi, utili e sicuri», spiega. Il suo laboratorio si occupa di auto senza conducente e aerei senza pilota, ma il progetto che gli è valso il premio è in collaborazione con la Nasa. «L'obiettivo è munire sistemi aerospaziali, come navicelle o veicoli esplorativi, di Intelligenza Artificiale, affinché si adattino a situazioni ambientali estreme e imprevedibili». 

 

Il primo risultato è stato un robot ibrido in grado di muoversi in condizioni di microgravità su corpi celesti come asteroidi e comete. Robot più grandi potrebbero essere utilizzati per una delle prossime missioni su Marte. Ad esempio, quella al cui progetto Pavone ha lavorato per conto dell'agenzia Usa dopo il dottorato al Mit di Boston, dov'era approdato con una laurea in informatica all'Università di Catania. 

 

Guglielmo Scovazzi negli Usa è arrivato invece qualche anno prima. Dopo essersi laureato in ingegneria aeronautica al Politecnico di Torino, è volato in California per il dottorato in ingegneria meccanica a Stanford, a cui sono seguiti otto anni ai Sandia National Laboratories, in New Mexico, e infine l'incarico di associate professor alla Duke University, nella Carolina del Nord. «La mia disciplina è la meccanica computazionale e mi occupo di simulazioni di sistemi complessi nell'ambito della meccanica del continuo», racconta. Il suo laboratorio sviluppa algoritmi per studiare il comportamento dinamico di materiali solidi e fluidi. Le applicazioni sono svariate, tanto che Scovazzi è affiliato ai dipartimenti di ingegneria civile, ambientale e meccanica. «Le simulazioni delle interazioni fluido-struttura sono fondamentali tanto per le turbine quanto per i dispositivi biomedici e i reattori nucleari». Il progetto per cui ha ricevuto il premio ha contribuito a rendere queste simulazioni più accurate, consentendo di modellare geometrie estremamente complesse. 

 

I tre ricercatori avranno occasione di incontrarsi in primavera, quando saranno convocati alla Casa Bianca per ricevere l'onorificenza da Donald Trump. Quel giorno, stringendosi la mano, forse si chiederanno se avrebbero ottenuto gli stessi risultati in Italia. Per rispondere, bisogna capire cosa li accomuna, oltre a capacità e determinazione. Di sicuro la formazione italiana, senza distinzione di università, visto che si sono laureati in tre atenei diversi: uno al Nord, uno al Centro e uno al Sud. Fondamentale è stato poi il dottorato Usa, il PhD, che ha permesso loro di applicare le conoscenze acquisite a problemi concreti. Infine, ciascuno ha ottenuto un finanziamento quinquennale dal governo Usa all'inizio della carriera da ricercatore. 

 

Sarebbe stato possibile in Italia? Purtroppo no. I ricercatori italiani all'estero devono guardare avanti e continuare a correre, perché non possono permettersi rimpianti.

mercoledì 11 gennaio 2017

Il 70 per cento degli italiani è analfabeta (legge, guarda, ascolta, ma non capisce)

Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all'80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano "normali" anch'essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell'unico di loro che non è analfabeta, e però sono "diversi".  

 

Quel é questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva. Non sono certamente analfabeti "strumentali", bene o male sanno leggere anch'essi e – più o meno – sanno tuttora far di conto (comunque c'è un 5 per cento della popolazione italiana che ancora oggi è analfabeta strutturale, "incapace di decifrare qualsivoglia lettera o cifra"); ma essi sono analfabeti "funzionali", si trovano cioè in un'area che sta al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura o nell'ascolto di un testo di media difficoltà. Hanno perduto la funzione del comprendere, e spesso – quasi sempre - non se ne rendono nemmeno conto. 

Quando si dice che quella di oggi non è più la civiltà della ragione ma la civiltà della emozione, si dice anche di questo. E quando Bauman (morto ieri, grazie a lui per ciò che ci ha dato) diceva che, indipendentemente da qualsiasi nostro comportamento, ogni cosa é intessuta in un discorso, anche l'"analfabetismo" sta nel "discorso". Cioè disegna un profilo di società nella quale la competenza minima per individuare una capacità di articolazione del proprio ruolo di "cittadino" - di soggetto consapevole del proprio ruolo sociale, disponibile a usare questo ruolo nel pieno controllo della interrelazione con ogni atto pubblico e privato – questa competenza appartiene soltanto al 20 per cento dei nostri connazionali. 

 

E' sconcertante, e facciamo fatica ad accettarlo. Ma gli strumenti scientifici di cui la linguistica si serve per analizzare il rapporto tra "messaggio" e "comprensione" hanno una evidenza drammatica. 

 

Non é un problema soltanto italiano. L'evoluzione delle tecnologie elettroniche e la sostituzione del messaggio letterale con quello iconico stanno modificando un po' dovunque il livello di comprensione; ma se le percentuali attribuibili ad altre societá (anche Francia, Germania, Inghilterra, o anche gli Usa, che non sono affatto il modello metropolitano del nostro immaginario ma piuttosto un'ampia America profonda, incolta, ignorante estremamente provinciale) se anche quelle societá denunciano incoerenze e ritardi, mai si avvicinano a queste angosciose latitudini, che appartengono soltanto all'Italia, e alla Spagna. 

 

Il "discorso" è complesso, e ha radici profonde, sociali e politiche. 

Se prendiamo in mano i numeri, con il loro peso che non ammette ambiguità e approssimazioni, dobbiamo ricordare che nel nostro paese più di 23 milioni di italiani – circa il 40 per cento – non ha alcun titolo di studio o ha, al massimo, la licenza della scuola elementare. Non é che la scuola renda intelligenti, e però fornisce strumenti sempre più raffinati – quanto più avanti si vada nello studio - per realizzare pienamente le proprie qualità individuali. 

Vi sono anche laureati e diplomati che sono autentiche bestie, e però è molto più probabile trovare "bestie" tra coloro che laurea e diploma non sanno nemmeno che cosa siano. (La percentuale dei laureati in Italia, poi, é poco più della metà dei paesi più sviluppati.) 

 

Diceva Tullio De Mauro, il più noto linguista italiano, ministro anche della Pubblica Istruzione (incarico che siamo capaci di assegnare perfino a chi non ha né laurea né diploma – e questo dato rientra sempre nel "discorso"), che più del 50 per cento degli italiani si informa (o non si informa), vota vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge le complessità, ma che anche davanti a un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale) é capace di una comprensione appena basilare.  

 

Un dato impressionante ce l'ha fatto conoscere ieri l'Istat: il 18,6 per cento degli italiani – cioè quasi uno su 5 – lo scorso anno non ha mai aperto un libro o un giornale, non é mai andato al cinema o al teatro o a un concerto, e neppure allo stadio, o a ballare. Ha vissuto prevalentemente per la televisione come strumento informativo fondamentale, e non é azzardato credere – visti i dati di riferimento della scolarizzazione – che la sua comprensione della realtà lo piazzi a pieno titolo in quell'80 per cento di analfabeti funzionali (che riguarda comunque un universo sociale drammaticamente molto più ampio di questa pur amara marginalità). E da qui, poi, il livello e il grado della partecipazione alla vita della società, le scelte e gli stili di vita, il voto elettorale, la reazione solo di pancia – mai riflessiva – ai messaggi dove la realtà si copre spesso con la passione, l'informazione e la sua contaminazione con la pubblicità e tant'altro che ben si comprende. E' il "discorso".  

Il "discorso" ha al centro la scuola, il sistema educativo del paese, le scelte e gli investimenti per la costruzione di un modello funzionale che superi il ritardo con cui dobbiamo misurarci in un mondo sempre più aperto e sempre più competitivo. Se noi destiniamo alla ricerca la metà di un paese come la Bulgaria, evidentemente c'é un "discorso" da riconsiderare.