sabato 8 aprile 2017

Cultura inaspettata

Da quando l'hanno fotografata seduta sul guardrail della Pontina, la strada che va da Roma a Latina, intenta sulle pagine di Delitto e castigo di Dostoevskij in attesa del prossimo cliente le hanno telefonato le colleghe: «Mi hanno detto se sono matta, che così mi faccio riconoscere e i clienti non verranno più per paura. Per tutti sono "quella" con il libro adesso», dice un po' compiaciuta. Un vecchio libro «con il prezzo ancora in lire». Di solito il tempo sulla strada si inganna con il telefonino ma a lei non era sembrato strano aspettare sfogliando i libri che le lascia qualcuno degli uomini che viene a trovarla con regolarità dietro il cancello arrugginito dove riceve subito dopo uno svincolo. Non ha trovato strano usare un libro per adescare e rendersi un po' diversa dalle altre.

«Adesso per un po' non li porterò più — dice sorridendo e accarezzandosi le extension dei capelli decisamente da rifare —. Non posso neppure mettermi seduta altrimenti mi riconoscono dalla posa», racconta Anna, che è il soprannome di questa ventisettenne ucraina che racconta di avere la passione per la lettura da quando è piccola. Ora ha anche l'ossessione di «diventare ricca per comprar casa e assicurare un futuro» ai suoi due gemelli, oggi undicenni, prima che sia troppo tardi: «Dopo i trent'anni per noi è finita, arrivano le diciottenni e ti sostituiscono». Lei deve fare in fretta e per questo è sempre qui. «Ogni tanto vado a Kiev a trovare mia madre e i miei figli: lei sa che cosa faccio e abbiamo avuto tanti conflitti (sì, dice conflitti ndr) ma i soldi li porto io. I miei figli credono che faccia la badante, ma con 900 euro al mese come farei?». E qui invece? «Anche 8 mila euro al mese: lavoro da sola, non li devo dividere con nessuno. Dovreste fare come in Germania e farci pagare le tasse: 120 euro a notte per poter uscire per strada», suggerisce.

Ma davvero legge Dostoevskij, qui tra lo sfrecciare delle auto e i camionisti che suonano il clacson quanto passano davanti a lei? «Lui è uno che ci sa fare con il racconto, lascia sempre le storie aperte», spiega nel suo italiano con l'accento ucraino. Non ha un personaggio preferito in Delitto e castigo: «Mi piace l'intrigo e leggo un po' di pagine per volta. Un libro l'ho anche comprato: è di Stephen King, il mio autore preferito. Anche se quello che amo di più èIl Piratadi Harold Robbins, lì c'è tanto intrigo e suspence».

Nella sua biblioteca portatile, racchiusa in uno scatolone, ha anche un libro inchiesta su Luciano Gaucci latitante ai tropici, Ken Follett con Alta Finanza il fantasy per ragazzi Maximum Ride di James Patterson, La voce invisibile del vento di Clara Sanchez e, appunto, Il Pirata: quando ne parla effettivamente le si allarga il sorriso. «Oh sì, lo leggo e lo rileggo, mi piace tantissimo, se lo comincio vado fino in fondo, ogni volta». Le piacerebbe anche tornare al cinema, dove è stata qualche volta, chissà «forse il prossimo inverno». Nel frattempo continua ad aspettare i suoi clienti e a fare i suoi conti: «Io ho fatto la fame, sa com'è quando la sera non c'è da mangiare? Ho dormito sotto i ponti quando sono arrivata in Italia, il mestiere che faccio non mi piace e non ho amici: ma ora ho una casa ad Aprilia, un appartamento che affitto dove posso tornare ogni sera». E una decina di libri per farsi compagnia. Poi un giorno spera di ripartire per Kiev: porterà i suoi libri? Sorride di nuovo: «Non so, i miei figli odiano leggere. Vogliono solo i videogiochi».

venerdì 7 aprile 2017

The tamed Woman

Un ex tipografo è stato condannato a soli sei anni e tre mesi per l'assassinio della moglie in quanto la vittima era una solenne rompiscatole e la sera prima gli aveva gridato: «Tu non vali niente, qui comando io». Non si tratta di un pesce d'aprile, anche perché nell'era della post-verità le notizie fasulle sguazzano già tutto l'anno e il primo aprile semmai si prendono una pausa. Un giudice — una giudice donna — ha realmente concesso l'attenuante della provocazione a un uxoricida di Gioia del Colle, in provincia di Bari, alla luce delle testimonianze che descrivevano sua moglie come un modello particolarmente efficace di trapano ricaricabile. Persino i figli, in una lettera indirizzata al padre in carcere, oltre a perdonarlo hanno ammesso di comprenderlo.

La vicenda pugliese avrà le sue specificità, ma se passasse il principio che la natura bisbetica del coniuge o del collega configura un'attenuante, in poche ore l'Italia si trasformerebbe nel teatro di una strage. Suscita più di qualche preoccupazione il pensiero che la vita delle persone possa cambiare valore a seconda del loro carattere. Ergastolo quando la vittima è un santo. Se invece è un tipo insolente bastano vent'anni, ma la pena può essere ridotta a dieci in caso di comportamenti sistematicamente acidi. Se poi è un reiterato frullatore, il tariffario penale scende fino a sei anni e qui mi fermo perché sto diventando un po' troppo indisponente e non vorrei che qualche lettore pensasse di potermi fare fuori gratis.

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sabato 1 aprile 2017

la nostra libertà in internet


La sinistra non è mai stata un asso nel creare eccitanti narrazioni a sfondo tecnologico, e infatti anche in questo caso non ha alcuna eccitante narrazione da offrirci. Peggio ancora: non ne avrà mai una se non riscriverà la storia di internet – l'humus intellettuale della Silicon Valley – come una storia di capitalismo e imperialismo neoliberista. 

 

Già come concetto, internet non è una nitida fotografia della realtà. Somiglia più alla macchia d'inchiostro del test di Rorschach, e di conseguenza chi la guarda ne trarrà una lezione diversa a seconda della sua agenda politica o ideologica. Il problema di internet come concetto regolativo su cui basare una critica alla Silicon Valley è che la rete è così ampia e indeterminata – può contenere esempi che portano a conclusioni diametralmente opposte – che lascerebbe sempre alla Silicon Valley una facile via di fuga nella pura e semplice negazione. Dunque qualsiasi sua critica efficace dovrà anche sbarazzarsi del concetto stesso. 

 

Persino progetti come Wikipedia si prestano a questa lettura duplice e ambigua. Nel sinistrorso ambiente accademico americano la tendenza dominante è leggere il suo successo come prova che le persone, lasciate a se stesse, sono in grado di produrre beni pubblici in modo del tutto altruistico e fuori dal contesto del mercato. Ma da una lettura liberista (o di destra) emerge un'interpretazione diversa: i progetti spontanei come Wikipedia ci dimostrano che non serve finanziare istituzioni perché producano beni pubblici come la conoscenza e la cultura quando qualcun altro – la proverbiale «massa» – può farlo gratis e per giunta meglio.  

 

La nostra incapacità di smettere di vedere ogni cosa attraverso questa lente internet-centrica è il motivo per cui un concetto come la sharing economy risulta così difficile da decifrare. Stiamo assistendo all'emergere di un autentico post-capitalismo collaborativo o è sempre il buon vecchio capitalismo con la sua tendenza a mercificare tutto, solo elevata all'ennesima potenza? Ci sono moltissimi modi di rispondere a questa domanda, ma se partiamo risalendo agli albori della storia di internet – è stata avviata da una manica di geni intraprendenti che smanettavano nei garage o dai generosi fondi pubblici delle università? – difficilmente troveremo una risposta anche solo vagamente precisa. Vi do una dritta: per capire l'economia della condivisione bisogna guardare – indovinate un po'… – all'economia. 

 

Da una prospettiva culturale, la questione non è se internet favorisca l'individualismo o la collaborazione (o se danneggi o agevoli i dittatori); la questione è perché ci poniamo domande così importanti su una cosa chiamata internet come se fosse un'entità a sé stante, separata dai meccanismi della geopolitica e dal contemporaneo capitalismo iperfinanziarizzato. Finché non riusciremo a pensare fuori da internet, non potremo tracciare un bilancio corretto e attendibile delle tecnologie digitali a nostra disposizione. 

 

Ci siamo fossilizzati sulla tesi della centralità di internet per spiegare la realtà (a seconda delle volte fosca o edificante) attorno a noi, e così continuiamo a cercare aneddoti che confermino la correttezza della nostra tesi; il che non fa che convincerci ancora di più che la nostra tesi preferita debba essere centrale in qualsiasi spiegazione dei nostri problemi attuali. 

Ma cosa significa in pratica pensare fuori da internet? Be', significa andare oltre le favolette fabbricate dal complesso industrial-congressuale della Silicon Valley. Significa prestare attenzione ai «dettagli» economici e geopolitici relativi al funzionamento di molte società hi-tech. Scopriremmo così che Uber – grande promotore della mobilità e della lotta alle élite – è un'azienda che vale più di 60 miliardi di dollari, in parte finanziata da Goldman Sachs. Allo stesso modo, ci renderemmo conto che l'attuale infornata di trattati commerciali come il TiSA, il TTIP e il TPP, nonostante siano ormai falliti, mira a promuovere anche il libero flusso di dati – scialbo eufemismo del ventunesimo secolo per «libero flusso di capitali» –, e che i dati saranno sicuramente uno dei pilastri del nuovo regime commerciale globale. 

 

Una simile lente post-internet potrebbe far sembrare il mondo un posto assai deprimente, ma non più di quanto già lo sia la realtà stessa del capitalismo di oggi. Questo nuovo modo di vedere ci offrirebbe anche un'idea di quello che bisogna fare e dei soggetti a cui si potrebbe affidare un eventuale programma di emancipazione. Una discussione adulta e matura sulla costruzione di un solido futuro tecnologico deve iniziare dal riconoscimento che dovrà essere anche un futuro tecnologico non liberista. 

 

Quindi, invece di continuare a discutere all'infinito su quanto emancipante possa essere il consumo o su come dobbiamo adattarci all'ultima calamità imparando a codificare la nostra soluzione individuale, dovremmo chiederci quale effetto hanno le politiche di austerity sugli stanziamenti per la ricerca. Dovremmo indagare sul fatto che l'evasione fiscale delle società tecnologiche impedisce alle alternative pubbliche di emergere. Dovremmo ammettere che l'incapacità delle persone di arrivare a fine mese a causa della crisi economica rende la sharing economy, con la possibilità che offre di mettere sul mercato tutto ciò che si possiede, non solo allettante ma anche inevitabile. 

 

Per tornare a una delle prime domande che ci siamo posti: possono i cittadini riconquistare la sovranità sulla tecnologia? Sì, ma solo a patto di riconquistare prima la sovranità sull'economia e la politica. Se la maggior parte di noi crede in qualche specie di «fine della Storia» – perché non ha voglia o non è capace di indagare la possibilità di una genuina alternativa sia al capitalismo globale sia al ruolo dominante del mercato nella vita sociale –, allora davvero non c'è speranza. Qualsiasi nuovo valore internet abbia potuto contenere al suo interno sarà schiacciato dall'attrattiva del soggettivismo neoliberista. 

 

Tuttavia, se si pensa allo stato disastroso in cui versa oggi il capitalismo – dalla crisi finanziaria alle guerre in Medioriente al possibile sgretolamento dell'Unione Europea –, è difficile non dare per scontata una simile teoria della «fine della Storia». 

 

Insomma, la cattiva notizia è che, se vogliamo che internet esprima fino in fondo il suo potenziale, il capitalismo deve finire. La buona notizia è che questo potrebbe succedere prima di quanto pensiamo.