lunedì 8 ottobre 2018

Nuovo libro di Emanuele Severino: domande sulla morte

Emanuele Severino, il nuovo libro
Ogni istante della vita è eterno

Un volume, edito da Rizzoli, che s’ispira alle controversie dell’Umanesimo. I limiti
della tradizione occidentale e l’egemonia della tecnica. Le critiche ad Adorno e Popper

di PIERLUIGI PANZA


L’uomo teme la morte. Se la morte è la minaccia che Dio rivolge ad Adamo, significa che Dio sa ciò che il primo uomo già teme maggiormente. Essa è l’elemento fondante il pensiero occidentale, secondo il quale l’ente è concepito dal nulla, diventa ente e poi torna nel nulla, di cui la morte segna il passaggio. Ma tutto questo l’essere non può esserlo, poiché il nulla è la negazione dell’essere e dove c’è il primo, che è eterno, non si può palesare il secondo.

Nel suo nuovo libro, Dispute sulla verità e la morte (Rizzoli), il filosofo Emanuele Severino muove dalle considerazioni base del suo pensiero neoparmenideo, guidando il lettore nel labirinto delle grandi domande, anche attraverso la rielaborazione di articoli apparsi sul «Corriere della Sera».

Il termine Dispute rimanda ad esempi della letteratura filosofica dell’Umanesimo o del Settecento: è l’affrontarsi di argomenti opposti. Qui sono il dominio delle tecnoscienze, che illusoriamente combatte il diventare nulla degli enti, contro l’immutabilità degli stessi in quanto esseri nella loro totalità, cosa che rimangono anche dopo il ritirarsi dalla vista.



È con il pensiero greco che gli enti incominciano a nascere dal nulla e sparire nel nulla. «Quasi, nascendo, moriamo», scriveva in ripresa a questo pensiero l’umanista Leon Battista Alberti; ed è ciò che diventerà l’«essere per la morte» nell’esistenzialismo di Martin Heidegger. Prima con i miti, poi con le religioni e, infine, con le tecnoscienze che hanno preso il posto della filosofia (e che il capitalismo crede, illusoriamente, di controllare), l’Occidente ha cercato di offrire una risposta all’angoscia del venir meno di ciò che era presente prima di precipitare nel nulla. Per Heidegger l’«Essere» è tempo e nessun ente è eterno; per le tecnoscienze conta l’incidenza pragmatica di un postulato sugli enti; gli scritti di Severino perseguono una terza via: la necessità che ogni ente sia eterno perché esso sia.



L’annientamento non può apparire, perché non possiamo fare esperienza dell’altro e perché, quando si crede che le cose si annientino, è necessario «che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza», ed è quindi impossibile che l’esperienza mostri a quale destino siano andate incontro le cose da essa uscite. Il significato della morte va posto fuori dal movimento dell’Occidente, concorde nelle sue esperienze del mito, delle religioni («strumenti ciechi» che si contendono la lotta al nulla) e delle tecnoscienze nel ritenere che l’individuo venga e ritorni al nulla. Questa concordanza costituisce una piattaforma dogmatica che consiste nel mostrare l’impossibilità di qualcosa di eterno o immutabile.

Severino si pone in alternativa a questa piattaforma: «Il destino della verità è l’apparire dell’eternità di ogni essente; sì che il venire e l’andare degli essenti, la loro nascita e la loro morte, è il comparire e lo scomparire degli eterni. La loro eternità è la condizione del loro ritorno». Il compimento e il non continuare che la morte segna non sono l’annientamento di ciò che ha avuto compimento e non continua. Per il principio per cui nessuna cosa può essere altro da ciò che è, ogni cosa è eterna, perché qualsiasi cambiamento la renderebbe diversa da ciò che è. Anzi, essendo l’essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza. Totalità non nell’accezione hegeliana della storia risolta nell’«In sé», ma totalità ontologica.

Per porre al centro l’eternità di tutte le cose e la negazione dell’esperibilità del loro diventar altro, Severino suggerisce di reintrodurre una educazione alla morte sul modello della Death Education (cita, a questo proposito, il libro di Ines Testoni, L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education, Bollati Boringhieri, 2015), una sorta di meditatio mortis che i Paesi anglosassoni intendono rendere operante. Questo è urgente perché nel nostro tempo le tecnoscienze, nel dispiegare il loro scopo che è la creazione di scopi sia in chiave prassistica che controprassistica (Severino supera la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer), tendono a nascondere la morte come sconfitta. La tecnoscienza, infatti, non conosce la verità e la rifugge come Metafisica (qui la critica è a Congetture e confutazioni di Karl R. Popper), «ma non può nemmeno conoscere che cosa sia in verità la morte e l’angoscia per la morte». La morte è solo la persuasione «dell’assentarsi dell’eterno».

L’educazione alla morte deve partire dalla consapevolezza che l’eternità compete a ogni essente, non perché è contenuto originariamente in Dio, o perché la sua materia sia eterna, bensì perché esso «è quell’essente che è»: questa penombra della stanza, questo ricordo della giornata trascorsa, queste nubi del cielo, ogni istante della storia del mondo sono eterni perché sono questa penombra, questo ricordo, queste nubi, questi istanti. Non sono, e non possono diventare, un nulla.

Agli aspetti qui presentati, il volume ne aggiunge molti altri, come le osservazioni su Giovanni Gentile e i contributi nati dal pensiero dell’autore. In coda è pubblicata una lunga intervista rilasciata a Sioned Puw Rowlands. Il rilievo di alcuni è che Severino non abbandona il concetto di verità, così consustanziale alla filosofia greca, al cristianesimo e alla scienza moderna che egli contrasta.


Determinismo contro possibilismo din Emanuele Severino

Determinismo contro possibilismo
Le contraddizioni di una sfida

Necessità e libertà: un conflitto molto antico che informa di sé tutti i campi del sapere. Dopo una lunga prevalenza, da due secoli l’Occidente ha messo ai margini il determinismo. Ma restano ancora domande aperte

Emanuele Severino


Negli antichi miti greci e nella tragedia attica gli eventi umani sono irrevocabilmente stabiliti dalle potenze supreme. Alla «Necessità» non è possibile sfuggire. «La tecnica, il darsi da fare dell’uomo — dice il Prometeo di Eschilo —, è troppo più debole della Necessità». Tra le vicende necessarie, le metamorfosi, gli straordinari «cambiamenti delle forme» delle cose: trasformano gli uomini in alberi, stelle, rocce, animali. Di quelle narrate prima di Ovidio, restano quelle tramandate da Le Metamorfosi di Antonino Liberale (Adelphi, a cura di Tommaso Braccini e Sonia Macrì). Tuttavia sono metamorfosi anche le trasformazioni meno stupefacenti, come l’annuvolarsi del cielo e il germogliare dei semi. Come si fa notare nel libro adelphiano, le parole che nominano la metamorfosi sono «egli divenne», «egli cambiò», «egli (il dio) fece». Anche il cielo «cambia» e «diventa» nuvoloso, anche il seme «diventa» germoglio, e non occorre essere un dio per «fare» qualcosa. Ma poi, c’è proprio bisogno di rifarsi agli antichi miti greci per imbattersi nelle metamorfosi? L’evoluzionismo non sostiene forse che l’uomo è il risultato di trasformazioni di organismi molto elementari? Gli uomini diventano bestie, dice il mito; le bestie diventano uomini, dice la scienza. Ma le parti possono essere scambiate. E la tecnica del nostro tempo sta procedendo lungo una strada dove il «cambiamento delle forme» e della stessa forma umana non ha nulla da invidiare alle trasformazioni di Dioniso. Ormai la Necessità è troppo più debole della tecnica.



La filosofia trasfigura il senso della «Necessità». Anassimandro, gli stoici, Spinoza, il Kant della Critica della Ragion Pura, Hegel, Schopenhauer, Einstein: in tutte le dottrine «deterministiche» sostenute in campo filosofico e scientifico l’affermazione del succedersi necessario degli eventi è legata all’affermazione dell’esistenza di una verità definitiva e incontrovertibile. La prima è un caso di questa seconda affermazione, la quale domina l’intera tradizione della civiltà occidentale. Ma alla tradizione gli ultimi due secoli dell’Occidente hanno voltato le spalle: in campo scientifico, giuridico, politico, economico, religioso, artistico e innanzitutto filosofico. Con maggiore o minore radicalità. Ne è derivato il rifiuto di ogni determinismo e il prevalere della convinzione (già esplicitamente presente in Aristotele) che gli eventi che accadono sarebbero potuti non accadere o accadere in modo diverso e che dunque, poiché le decisioni sono un certo tipo di eventi, l’uomo avrebbe potuto non prendere quelle che ha preso, o avrebbe potuto decidere diversamente. Le decisioni sono un «libero arbitrio». Il principio di indeterminazione di Heisenberg (che si riferisce esplicitamente ad Aristotele) dice appunto, in sostanza, che lo stato futuro del mondo, quando accadrà, sarà qualcosa che sarebbe potuto non accadere. Qui, la «possibilità» è la categoria fondamentale. Possiamo chiamare «possibilismo» l’atteggiamento che ne è il sostenitore.



Nel clima culturale attualmente dominante, la «necessità» rimane solo come conseguenza necessaria di una decisione presa, cioè di uno stato non necessario che è riuscito a imporsi. La decisione in cui consiste ad esempio la volontà capitalistica di accrescere indefinitamente il profitto privato implica «con necessità» che rispetto a questa decisione il Welfare State non debba superare una certa soglia. Analogamente, è un’implicazione «necessaria» quella dove l’economia pianificata deve escludere che l’iniziativa privata vada oltre un certo limite. Tale implicazione è stata chiamata «imperativo funzionale» o «sistemico» (Talcott Parsons, Jürgen Habermas).

Ma quando non si vuol restare prigionieri di questi imperativi — che nel mondo economico e politico escludono «alternative» e servono a tutelare interessi di parte — e si mira a ricondurre il discorso alla dimensione fondamentale della contrapposizione tra «determinismo» e «possibilismo», allora il problema si complica molto più di quanto solitamente si creda. Provo a indicare alcuni aspetti di tale complicazione.

Innanzitutto: entrambi i contendenti — determinismo da una parte e possibilismo degli eventi e in generale del corso storico dall’altra — affermano qualcosa che non è attestato dall’esperienza; sono cioè costruzioni concettuali che debbono render conto della consistenza della loro logica. Non si fa esperienza dell’altra faccia della luna, dei luoghi in cui non ci si trova, della coscienza altrui, dell’interno dei corpi, della storia passata e futura, eccetera. Si fa esperienza del chiarore del giorno, del luogo in cui ci si trova, dei moti del nostro animo. Ciò che non è esperibile è il non osservabile, il non constatabile. Lo si può supporre, ricordare, desiderare, temere, ma non sta qui davanti «in carne ed ossa», «direttamente». La fenomenologia di Edmund Husserl ha approfondito queste affermazioni. Del determinismo e del possibilismo, della necessità e della libertà non si può fare esperienza.

Determinismo. Esso sostiene un rapporto necessario tra il passato e il futuro: il futuro sarà come sarà, e non potrà essere altrimenti, perché il passato ha la configurazione che ha. Ma i rapporti attestati dall’esperienza sono soltanto rapporti di fatto, non necessari, perché i rapporti necessari sono quelli che valgono anche al di là di quanto l’esperienza attesta di essi. L’esperienza attesta che il lampo è seguito dal tuono, ma se questa sequenza fosse necessaria, essa esisterebbe anche nel futuro, che però non è ancora sperimentato, e sarebbe esistita anche nel passato che a sua volta non è più sperimentato. L’esperienza reale non può dunque attestare alcun rapporto necessario, non lo può rendere osservabile, constatabile.

Possibilismo (libertà-possibilità degli eventi). Sostiene, si è detto, che quel che accade sarebbe potuto non accadere o accadere diversamene. Noi «vediamo», dice Aristotele (De interpretatione) che molte cose prima esistono e poi non esistono, e viceversa. «Vediamo», cioè facciamo esperienza. Quindi esse, egli conclude, invece di non esistere più, sarebbero potute continuare ad esistere, e invece di incominciare ad esistere sarebbero potute rimanere inesistenti. È, questo il pensiero ormai dominante — anche quando ci si è dimenticati di Aristotele.

Sennonché, dal fatto che «vediamo» che molte cose prima esistono e poi non esistono, non segue affatto che «vediamo» che invece di non esistere più sarebbero potute continuare ad esistere (e viceversa). Teniamo aperta la mano (può essere una mano qualsiasi, ma può anche essere la mano fatale di Adamo), poi la chiudiamo. È un cambiamento che «vediamo». (Si può ripetere a piacimento questo gesto: «vediamo» la ripetizione). Ma che invece di chiudere la mano avremmo potuto lasciarla aperta, questo è qualcosa che non solo non «vediamo» ma che è impossibile «vedere». Che, invece di chiudersi, la mano sarebbe potuta rimanere aperta è un evento che avremmo potuto «vedere», sperimentare, ma che effettivamente non abbiamo «veduto» e sperimentato, osservato. È impossibile che siano qualcosa di sperimentato gli eventi che si sarebbero potuti sperimentare ma che di fatto non sono stati sperimentati.

Per quanto antitetici, determinismo e possibilismo hanno in comune la non sperimentabilità di ciò che essi affermano. Ma hanno in comune anche qualcosa di più radicale: l’affermazione della metamorfosi delle cose. Per il determinismo il passaggio delle cose dall’esistenza all’inesistenza (e viceversa) è inevitabile, avviene con necessità; per il possibilismo questo passaggio non è inevitabile. Ma per entrambi è indiscutibile che questo passaggio esista e che anzi sia l’evidenza suprema. Anche l’uomo della strada ne è convinto. Non è forse un vaneggiare, un esibizionismo patetico, e nel migliore dei casi una perdita di tempo, mettere in questione questa evidenza?

Se non si ha fretta di rispondere, è il caso di prestare attenzione a una circostanza sorprendente: che non solo determinismo e possibilismo affermano qualcosa di non sperimentabile, ma che non è qualcosa di sperimentabile nemmeno quella metamorfosi delle cose che i due antagonisti hanno in comune: nemmeno quell’andare delle cose dall’esistenza all’inesistenza e dall’inesistenza all’ esistenza, che il mondo considera come l’evidenza suprema e supremamente indiscutibile.

Ma a questo punto le proteste, il biasimo, il disgusto si fanno subito sentire: «Ma come, non “vediamo” forse, e angosciati, l’agonia che conduce l’uomo alla morte? che cioè conduce dall’esistenza all’inesistenza? e prima di “vedere” la morte del prossimo non vediamo forse la morte di ogni istante della nostra vita?».

La risposta, qui, non può essere che un nuovo domandare. Per quanto terribile possa essere il modo in cui qualcosa muore, ciò che muore e diventa inesistente rimane «visibile»? Quando vien notte, il giorno continua ad esser «veduto»? L’agonia del sole, al tramonto, rispecchia l’agonia dei viventi; ma quando la luce del sole che ha illuminato una certa giornata si estingue e muore e diventa inesistente, continua forse ad esser «veduta»? Se si crede che essa divenga inesistente non è forse inevitabile che essa, annientatasi, non sia più «visibile», esperibile e che quindi il suo «annientamento» non appartenga al contenuto dell’esperienza? e che dunque l’agonia, visibile, sia lo stato che precede l’uscire dal «visibile»? È proprio così facile liberarsi di queste domande? È proprio così semplice (magari, come si richiamava sopra, per andare oltre le semplificazioni economico politiche degli «imperativi sistemici») appellarsi al carattere di possibilità della storia del mondo?


Ritorno al futuro


di Alessandro D’Avenia


Un uomo seduto su una spiaggia fissa il mare, le sue spalle possenti sussultano come quelle di un bambino: è in lacrime. I suoi occhi sempre accesi sono ora offuscati. Così compare per la prima volta, nel poema a lui dedicato, Ulisse. L’eroe è spezzato dalla «mancanza»: «passava la dolce vita piangendo il ritorno». È a Ogigia, isola sperduta e paradisiaca, dove è naufragato di ritorno da Troia. Qui lo trattiene da sette anni la dea Calipso, che gli ha promesso l’immortalità se rimarrà con lei. Ulisse ha tutto, benessere e devozione, eppure la «mancanza» non gli dà pace. Calipso gli dice la verità: «Se tu sapessi quanti dolori ti è destino patire prima di giungere in patria,/qui resteresti con me.../e saresti immortale, benché tu voglia vedere/tua moglie, che ogni giorno desideri./Eppure mi vanto di non essere inferiore a lei». Ma la risposta di Ulisse è netta: «Lo so bene anche io/che Penelope/a vederla è inferiore a te per beltà e statura:/lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia./Ma anche così desidero e voglio ogni giorno/giungere a casa e vedere il dì del ritorno». Il ritorno è salvezza. E per noi?

Nostos: è questa la parola con cui l’eroe indica il ritorno. Se ne servì un medico nel XVII secolo per descrivere la sofferenza che spingeva i soldati svizzeri a disertare dopo aver ascoltato i canti della propria terra lontana. Unì a nostos la parola per indicare il dolore, algos, coniando così un termine che indicava il dolore del ritorno: nostalgia. Attribuire questo sentimento a Ulisse rischia però di essere fuorviante. Egli, infatti, non rimpiange la patria mentre è in guerra, come i soldati svizzeri, ma si sente privato della sua dimensione eroica: sarà proprio il ritorno a Itaca che farà di lui un eroe e lo renderà immortale, benché a Ogigia una certa «immortalità» gli sia messa a disposizione, indisturbatamente e senza sforzi. Ulisse vuole uscire dal «dolce isolamento» di Ogigia, per raggiungere l’isola in cui c’è la vita vera: quella mortale. La scelta della mortalità è la vera scelta eroica, perché la salvezza non è nella comoda infinita sicurezza ma nell’impegno. Ulisse vuole raggiungere l’immortalità attraverso la mortalità, abbraccia la rischiosa fragilità della vita, perché proprio il limite, accettato e scelto consapevolmente, lo rende «eroe», parola che originariamente significava semplicemente «uomo». Penelope non è bella come Calipso ed è più avanti negli anni, ma Ulisse ha scelto lei. Itaca è povera rispetto all’incantevole Ogigia, ma Ulisse ha scelto Itaca. Quello di Ulisse è un vero e proprio «ritorno al futuro», perché Penelope, Itaca e tutto il resto, diventano immortali proprio perché l’eroe lotta per loro. Ulisse è l’eroe del «ritorno», una parola antichissima che viene dal lavoro dell’artigiano al «torno» (oggi tornio): egli imprimeva un moto rotatorio al piatto su cui era posto l’oggetto da fare. L’aggiunta del ri- indica ripetizione, ma non dell’uguale: chi lavora al tornio, a ogni giro, perfeziona l’opera. È la stessa logica del termine ricerca: «circa» vuol dire (per l’appunto) «intorno», ricercare è continuare a girare intorno a qualcosa per scovarne con sempre maggior precisione la verità. La «mancanza» di Itaca non è regressiva, ma progressiva: Itaca non è già fatta, ma da fare, è un progetto. La fedeltà dell’eroe è ciò che rende Itaca Itaca e Ulisse Ulisse. Per avere l’immortalità egli non sceglie la vita breve ma gloriosa nel ricordo altrui, come Achille, o la dolce infinita longevità con Calipso, ma sceglie un’arrischiata vita mortale. Non c’è futuro senza fedeltà alla mortalità.

Così si comprende perché le promesse di «futuro felice», le «futorologie» (ideologie di futuro), spesso siano solo utopie, magari violente: non emerge futuro se non a partire da un’azione accrescitiva del pre-sente (letteralmente: la vita che ho di fronte) e non dall’imposizione di una formula alla realtà. Solo la manutenzione del presente forma il futuro, perché l’esistenza fiorisce grazie all’affermazione del possibile, che poi non è altro che amare. «Ritornare» è porre la materia della vita sul tornio e perfezionarla con impegno creativo. Ogni giorno (un giro di 24 ore) la madre ritorna al piccolo, il marito alla moglie, il pittore alla tela, il giardiniere al seme: gli artigiani del presente esigono da se stessi, i futurologi dagli altri, i primi servono, i secondi impongono.

La parola «futuro» richiede immaginazione e non violenza, deriva infatti da una forma latina del verbo essere che indicava semplicemente «ciò che sta per essere». Ma sta per essere, cioè raggiungere la sua pienezza, solo ciò che al presente contiene tale premessa: il seme è la premessa del frutto, il lavoro dell’uomo la sua promessa. Le futorologie non amano ciò che sta per essere, non hanno rispetto del tempo, non si mettono al servizio della vita presente e fragile, preferiscono imporre il dover essere. Ma il futuro smette di aprirsi se non è conseguenza della cura di ciò che è già dato. Il futuro è fedeltà al presente, perché la vita non evolve a salti e rivoluzioni, ma a passi lenti e a spirale, cioè a ritorni. Itaca è il «futuro anteriore» di Ulisse, perché è sì alle sue spalle, ma è tutta da fare, è una premessa che richiede una promessa di fedeltà. A cosa? Alla mortalità. Ulisse «fa» Itaca perché all’immortale Calipso preferisce la mortale Penelope. Ulisse «fa» Itaca perché agli sterili agi di Ogigia preferisce dare un’eredità al figlio Telemaco. Ulisse «fa» Itaca perché a una vita senza legami preferisce l’anziano padre Laerte. Ulisse «fa» Itaca perché «ritorna», la sua «nostalgia» non serve a imporre un passato morto, ma a portare a compimento un presente ancora fragile e incerto: torna infatti da mendicante e non da re. Ritornare è portare a compimento: la fedeltà è il «tornio» che perfeziona la vita e noi gli artigiani del presente. Dante inventò il verbo «infuturarsi», riferendosi proprio alla vita umana che si allunga quando l’azione nasce dalla fedeltà al bene da fare qui e ora: un seme s’infutura grazie al lavoro ben fatto del giardiniere, uno studente grazie a quello dell’insegnante... La fedeltà non è, come si crede, la rigida e noiosa permanenza in un ruolo, ma è il laborioso entusiasmo di chi accoglie la vita, continuando a perfezionarla creativamente. «Fedele» infatti viene da una radice che indica il «legame»: chi è schiavo subisce vincoli soffocanti, chi è fedele sviluppa legami liberanti con le persone e le cose presenti nelle sue 24 ore.

Nella mia scena preferita di 8 e ½ di Fellini, Guido (Marcello Mastroianni), un regista che deve girare un film ma è in crisi, chiacchiera in una notte quasi mistica con Claudia (Cardinale), scelta da lui come protagonista. Guido, ragionando sulla trama, in realta le parla di sé stesso: «Tu saresti capace di essere fedele a una cosa, a una cosa sola e farne la ragione della tua vita? Una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto, proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinita. Ne saresti capace?». Lei: «E tu ne saresti capace?». E lui, fingendo di riferirsi al protagonista del film, risponde: «No, questo tipo vuole arraffare tutto, non sa rinunciare a niente...». Allora lei lo inchioda: «Un tipo cosi, che non vuol bene a nessuno, non fa mica tanta pena. È colpa sua. Che cosa pretende dagli altri? Incontra la ragazza che lo può far rinascere, ma la rifiuta». Lui: «Perché non ci crede più». Lei: «Perché non sa voler bene». Claudia mette a nudo la crisi di Guido: non ha futuro perché ha smesso di essere fedele alla vita, servirla. Non ha nessuno a cui ritornare, si è ridotto ad arraffare tutto: non sa più amare. La consistenza del futuro di un uomo dipende da quanto sa amare (a chi o cosa sei fedele?), tutto il resto passa, come scriveva Ezra Pound: «Cio che sai amare rimane, il resto e scoria/Cio che tu sai amare non sarà strappato da te/Cio che tu sai amare è il tuo vero retaggio», versi che ho riscoperto grazie al bel libro di Alessandro Rivali, dedicato al poeta e non a caso intitolato Ho cercato di scrivere paradiso.

Le futorologie impongono la loro idea di bene con la forza, l’artigiano del futuro invece rende servizio alla vita così com’è, fragile, sporca, possibile, difettosa: mortale. Ulisse è un eroe perché si mette al servizio di Penelope, sceglie ciò che è mortale e lo rende immortale con la sua fedeltà: per questo ci affascina. C’è un eroismo del quotidiano alla nostra portata, che apre il futuro, e consiste nel curare i legami con cosa e chi ci viene affidato, accrescendone la vita, come possiamo. Come il Guido di Fellini aspiriamo a una fedeltà tale da rendere infinito ciò che amiamo, ma essendo finiti quello che possiamo provare a fare è «infuturare» la vita: abbracciare la nostra e altrui mortalità per scoprire che è aperta verso un «per sempre» per il quale le forze umane però non bastano. Ricorderete tutti che Ulisse, alla fine del viaggio, si fa riconoscere da Penelope parlandole del loro letto costruito sulla radice di un albero, solo loro due sanno questo segreto. Questo è il letto da rifare oggi, costruire Itaca attorno al suo centro, una radice che, fedelmente lavorata, diventa, per l’appunto, letto, legami, casa, isola, ritorno, poema: solo così la nostalgia che ci coglie quando siamo soli, con lacrime evidenti o trattenute, potrà segnalarci che siamo diventati infedeli alla vita. È ora di ritornare al futuro: amare.