martedì 6 novembre 2018

I talenti da vendere o da usare

«Non possiedo nessun talento. Non voglio crogiolarmi nell’autocommiserazione, è così. Io non ho niente da dare». È uno dei temi ricorrenti nelle lettere che ricevo dai ragazzi, ma ho scelto queste parole di una ventenne perché, in un solo doloroso giro di frase, c’è il nesso tra l’avere un talento e la possibilità di donare qualcosa. Ma la parola «talento», nella cultura della prestazione e del successo, si è profondamente trasformata. «Talento» va ormai a braccetto con show: qualcosa, anche se acerbo, da dare in pasto al pubblico. Così non si ha un talento, si è un talento: l’identità dura il tempo della ribalta. I «talent», che abbracciano tutte le età e ambiti utili all’audience, hanno riportato in auge il talento come dono da riconoscere e valorizzare. Il format infatti ha la struttura di una scuola, ma si tratta di una costruzione narrativa che riduce il talento a competizione nella quale chi non va avanti — «per me è un no!» è diventato proverbiale — deve affrontare ciò che, nella vita ordinaria, è un fallimento. Il contesto provoca quindi un cortocircuito: non ho successo, non valgo, non ho talento. Uno dei motivi dell’insoddisfazione cronica di oggi è frutto dell’immaginario della felicità come successo. Ma la vita non ha valore per la prestazione, bensì per la presenza: nulla e nessuno appare invano. I Greci definivano la verità aletheia: ciò che non rimane nascosto e deve venire alla luce. Il successo però si concentra sulle luci (della ribalta), non su ciò che viene alla luce. I talent di fatto forzano il tempo necessario per lavorare sul proprio dono: infatti il talento si coltiva, il successo si produce. Ed è per questo che molti «successi», spesso esplosi con i talent, con il tempo (a volte bastano pochi mesi) tornano a un amaro silenzio, perché non nati da ciò che merita di venire alla luce, ma su un consenso abbagliato e abbagliante. Aveva talento da vendere o per vendere?

Originariamente però la parola talento indicava la bilancia e per estensione un’unità di misura di peso/valore dell’oro. E perché allora la usiamo tutti i giorni? È diventata proverbiale grazie alla parabola di Cristo raccolta da Matteo nel suo Vangelo. Una delle cose che più mi colpisce della nostra cultura, nata dall’incrocio di Atene e Gerusalemme, è l’ignoranza dei Vangeli, eppure basterebbero sei ore a leggerli. Diceva Borges, nelle sue lezioni americane, che, credenti o no (lui non lo era), le tre storie meglio raccontate al mondo sono Iliade, Odissea e Vangelo, e proprio in quest’ultimo trovava la perfezione del racconto epico. Sì, Borges dice «poema epico», perché è il genere in cui l’uomo si confronta con il destino. Nei Vangeli si trova un’arte di vivere che non ha nulla a che vedere con lo smorto sentimentalismo e citazionismo a cui sono spesso ridotti. Una delle cause è nella lettura che ne diede Nietzsche ravvisando nel cristianesimo proprio il contrario dell’epos: le dimissioni dalla vita terrena a favore di quella ultraterrena. Eppure chi legge davvero il Vangelo non trova un invito a ritirarsi dalla vita, ma una sfida: a differenza degli «straordinari» eroi omerici, trova l’epica dell’uomo «ordinario», perché eroica è ogni vita, perché anche la più nascosta deve venire alla luce. Lo mostra proprio la parabola «dei talenti». Parabola (da «lanciare attorno» e da cui il nostro «parola») è un racconto che prova a definire qualcosa di così denso che si può farlo solo con il linguaggio metaforico, e in questo caso il tema scottante è il giudizio divino. Comincia così: «Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni». Il creato è affidato all’uomo: non è proprietario, ma custode, non è padrone, ma al servizio. Il padrone parte, la fiducia nell’uomo è totale: una certa «assenza» di Dio è buona, garantisce la nostra libertà. Tornerà, ma nel frattempo la sua presenza è nei beni. L’epica comincia a emergere: la vita dell’uomo è responsabilità (rispondere all’inatteso) e protagonismo (combattere in prima linea). Il racconto infatti continua così: «A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì». Il passo è decisivo: i talenti non coincidono con le capacità, ma sono dei beni affidati in base ad esse. Le capacità sono il frutto del grande gioco di libertà umana e necessità del cosmo (scelte, genetica, ambiente), e la base di ogni benedetta differenza. «Ha le capacità ma non si applica» è il ritornello che ha descritto migliaia di alunni. Ma quali capacità? A questo deve saper rispondere l’educatore: se non lo ha chiaro non può educare a coltivare i talenti. Nella parabola il padrone li affida in base alle capacità, a ciascuno viene dato il massimo. La capacità di un boccale di birra è diversa da quella di un bicchiere da liquore, ma se vengono colmati sono pieni entrambi. I talenti sono quindi «tutta la vita» che possiamo ricevere in base alla nostra «capacità».

Ai tempi di Cristo un talento era una cifra esorbitante: 35 chili d’oro (oggi 1,2 milioni di euro). Questo significa che a ciascuno viene affidato qualcosa di grandioso, né al di sopra né al di sotto delle proprie possibilità e nel rispetto delle differenze: un dono inatteso che chiama all’avventura. Così i talenti rendono alcuni servi gli eroi della storia: «Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che ne aveva ricevuto uno solo, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone». O ci si impegna da protagonisti per ampliare la vita che ci tocca o la si sotterra. Sappiamo come finisce: il padrone torna «dopo molto tempo» (la durata della vita) e premia chi ha moltiplicato: «Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Chi ha saputo ampliare una piccola parte del patrimonio della vita lo riceve tutto intero: diventa padrone. Invece l’antieroe si giustifica: «Per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo». Ha sprecato la vita per paura, le sue capacità sono rimaste inattive, e resta un servo: «Servo malvagio e pigro, avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così l’avrei ritirato con gli interessi. Toglietegli il talento, e il fannullone gettatelo fuori nelle tenebre». Il pigro non prende posizione, sotterra la vita, che gli viene tolta perché non l’ha mai vissuta: «Questi sciaurati che mai non fur vivi», così Dante chiama gli ignavi, coloro che, indifferenti a tutto, sono morti in vita.

Il talento è allora la vita stessa nel suo darsi: l’uomo è vivo se rimane aperto, riceve tutta la vita che può e la moltiplica. Come? Attraverso la creatività, dote di tutti gli artisti del quotidiano: siamo fatti per creare con la materia che riceviamo. Tanto che possiamo adattare a ciascuno le parole di Dostoevskij sul poeta: «Non è lui il vero creatore, bensì la vita, la possente sostanza della vita, l’autentico Dio vivente, che concentra la forza e la varietà della sua potenza creativa, perlopiù in un cuore generoso, cosicché se si può dire che non è il poeta stesso l’autentico creatore tuttavia la sua anima è indubbiamente la miniera che crea il diamante». Creare ha infatti la stessa radice di crescere: crea chi fa crescere la vita, cioè chi ama. I talenti di un docente sono le vite degli alunni: da ricevere e moltiplicare, non sotterrare. I talenti di un padre sono i figli, il talento di un marito è la moglie. Il talento di un artista è un dolore da trasformare in bellezza. Insomma il talento è tutto ciò che riceviamo ogni giorno, sta a noi decidere se diventare protagonisti (accettare e moltiplicare) o indifferenti (sotterrare). Inoltre i talenti, mentre proviamo ad accrescerli, fanno crescere le nostre capacità: se accresci, cresci. Continua infatti Dostoevskij: «Dopo si ha la seconda fase dell’intervento del poeta, dopo aver trovato il diamante, lo rifinisce alla perfezione (qui la sua parte è quasi solo quella di un gioielliere)». Più mi impegno per le vite degli alunni (tanti talenti quanti nomi) più le mie capacità educative crescono, divento l’eroe di un poema quotidiano: servire la vita senza essere servo, anzi uscendo dalla condizione servile proprio grazie al patrimonio che mi viene affidato. Ed è una gioia!

Il letto da rifare oggi è restituire al talento il significato ricettivo, ridimensionando quello prestazionale alimentato dall’io frammentato che si aggrappa a ciò che sembra dargli consistenza. Mente chi dice di non avere talenti: è un talento il lunedì, un amico, un film, persino un dolore o una crisi, perché tutto è vitale. Vivere non è ingabbiare la vita in schemi e pretese, ma scegliere che posizione prendere rispetto a ciò che ci viene incontro: ricevere e moltiplicare, rischiando, o sotterrare per paura o comodità. «Adesso so che posizione prendere», così scriveva nel suo Diario Etty Hillesum, ebrea, innamorata del Vangelo di Matteo, morta in campo di concentramento, e si chiedeva: «Sono già abbastanza avanti da dire: spero di andare al campo per essere di appoggio alle ragazze di sedici anni che ci vanno? Per rassicurare i genitori: non siate inquieti, io vigilerò sui vostri figli. In fondo il nostro unico dovere è dissodare in noi stessi vaste aree di pace, per irraggiarle sugli altri. E più pace c’è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato». Cara ragazza della lettera, c’è sempre qualcosa di cui essere ricchi e da dare: il segreto è rimanere aperti per riceverlo, ogni giorno, e prender posizione per moltiplicarlo, costi quel che costi. Solo così, nel poema di ogni vita, tutto diventa vero, tutto viene alla luce.

Guess my age-

A un certo punto della serata mi sono imbattuto in una puntata di «Indovina l’età» e ho avuto una rivelazione. L’idea mi è apparsa come l’epifania di un santo: quanto stava accadendo nello studio televisivo era strettamente connesso alla vicenda di quella professoressa in Brianza presa a sediate dai suoi alunni, benché nulla di ciò che veniva detto o fatto dalle concorrenti c’entrasse direttamente con l’aggressione. Il nesso è tutt’altro che immediato e, a scanso di equivoci, non è di tipo causale: la trasmissione condotta da Enrico Papi non è causa della violenza a scuola, semmai è la violenza a scuola a rendere possibile quella trasmissione, come proverò a spiegare. Ma ecco, se non immediato, il nesso è lampante e l’altra sera ha squarciato il cielo per rivelarsi a miei occhi. Il che richiede ora qualche riga di svolgimento.

Intanto, il gioco: due concorrenti alleati devono indovinare l’età di uno sconosciuto e possiedono un bottino che diminuisce a ogni errore. La cavia sta muta sotto i riflettori, viene valutata, soppesata, può tutt’al più sgranare gli occhi, in un guizzo residuo di amor proprio, davanti alle stime più sballate. La situazione diventa ovviamente più incresciosa quando, come nel caso dell’altra sera, si tratta di una cavia femminile, ma la trasmissione sembra pensata apposta per superare le vecchie forme di cortesia e più in generale il bon ton. Le due concorrenti commentavano le rughe della signora, la tinta dei capelli, le macchioline sulle mani, lo sguardo (cataratta, non cataratta), e poi sparavano un numero. Ogni tanto beneficiavano di un indizio, un breve filmato o una foto di un fatto storico risalente all’anno in cui la signora era nata. Ad esempio, Mussolini che dichiara guerra a Francia e Inghilterra dal balcone di piazza Venezia. Già, ma quand’era? Quando sarà stato? Alla fine le due concorrenti hanno dato novantadue anni alla signora che ne aveva settantotto. Le età della vita, quindi. E la storia.

Risulta difficile per chiunque, ormai, stimare l’età di una persona. La cura del corpo, la sua meticolosa manutenzione, ma soprattutto i nuovi comportamenti volti, diciamo, a valorizzarlo, rendono pressoché invisibile il passaggio da una fase dell’esistenza all’altra. Le donne, in particolar modo, sembrano muoversi in una dimensione mentale che le rende indistinguibili dalle loro figlie e dalle loro madri; un fluido di aspettative, volizioni e impulsi assolutamente invariato dalla pubertà in poi. Si vestono allo stesso modo, si truccano allo stesso modo e frequentano gli stessi social network. Ma si tratta di un fenomeno via via anche maschile. Nonni giovanotti, nonne eterne ragazze, genitori di cinquantenni con la tartaruga, a loro volta padri di mocciose sciantose, eccetera eccetera: insomma, diverse generazioni fuse in una plaga di coetanei. Il che ha migliorato solo in apparenza la qualità della vita, diffondendo uno stato perenne di ansia riguardo al proprio aspetto, ovvero al rischio, sempre dietro l’angolo, di un’improvvisa inadeguatezza alle richieste del mondo.

Le cose poi si complicano ulteriormente di fronte al cosiddetto processo educativo. Difficile educare una figlia se, quando ti confessa di essersi fatta un tatuaggio, tu ti scopri l’anca e gliene mostri uno più grande del suo (come nello spot pubblicitario). Certo, avrebbe dovuto chiederti il permesso, e tu ora dovresti farglielo notare, però così almeno te la compri, le dai prova della tua complicità. La complicità tra genitori e figli sembra l’ultima via praticabile di fronte alla scomparsa dell’autorevolezza. In una plaga di coetanei come si fa a essere autorevoli? L’autorevolezza nasce dal carisma, e il carisma dal ruolo, dalla distanza, dalla differenza costitutiva della figura dell’adulto. Ma se l’adulto somiglia così tanto al ragazzo che è stato, allora può tutt’al più puntare sulla complicità, sull’amicizia. Ed ecco i padri amici dei figli, le madri delle figlie. Lo stesso vale per i nonni e le nonne, la cui saggezza un tempo pioveva dall’alto, o perlomeno da fuori campo, perché i vecchi erano allenatori, o al massimo capitani non giocatori, e ora invece stanno lì a zampettare insieme agli altri, in attacco, in difesa, e tutti gli vogliono un gran bene, ma nessuno è interessato a prestargli ascolto. Non si capisce neanche se sono più grandi di noi, e quanto poi. Hanno settantotto anni o novantadue?

Questi genitori e questi nonni, amiconi di figli e nipoti loro coetanei, portano poi, nei loro bei macchinoni climatizzati, i ragazzi a scuola. E lì, sorpresa, trovano gli insegnanti, uomini e donne adulte che avrebbero la presunzione di trasmettere le loro conoscenze (cose imparate sui libri!), pur essendo gente non famosa, non ricca, che non passerebbe la prima selezione di X Factor né di Masterchef, e che agli occhi di molti studenti sembra aver scelto il peggior lavoro a cui un laureato possa ambire. Convinzione, questa, talvolta assecondata dagli insegnanti, che non hanno più la distanza, né il distacco che un tempo assicurava loro il carisma necessario a rendere interessante il sapere, quindi abbassano lo sguardo, o peggio, alzano la voce. Come i genitori e come i nonni, hanno perso il loro fascino, in altre parole, il loro segreto (è questo che dice la persona affascinante: ho un segreto per te).

In una plaga di coetanei forse aumenta la complicità, ma svanisce il segreto. Dove non c’è differenza, non c’è segreto. E dove non c’è segreto, non c’è desiderio. Accade senza che sia colpa di nessuno. A un certo punto l’età non conta più ed è quasi impossibile indovinarla. Questo fatto — ecco l’epifania venuta a scuotermi l’altra sera — impedisce a un ragazzo di ascoltare con interesse anche se a parlare è il suo professore, soprattutto se è il suo professore. Eri diverso, eri lontano, d’un tratto sei uguale a me, uguale a noi. Se è vero che l’eros è veicolo di conoscenza, ora che sta venendo a mancare non riesco più a seguire le lezioni di nessuno. Le cose che sanno i professori non solo mi sembrano inutili, ma comincio a sentirle parte di un disegno sadico, costruito ai miei danni, qualcosa contro cui mi devo difendere. Era un’insegnante di storia quella aggredita in una scuola della Brianza. Chissà quante volte avrà spiegato il discorso di Mussolini dal balcone di piazza Venezia, il 10 giugno del 1940. I suoi alunni si sono difesi a colpi di sedia e, guarda caso, le due concorrenti non hanno saputo rispondere. Tout se tient. La storia non serve più. Perché mai dovremmo attardarci a studiare il passato, se la vita umana non ha più età?