sabato 19 gennaio 2019

Testimoniando il Destino(Severino)

La riflessione metafisica italiana è ancora sostenuta, nella sua più alta espressione, da Emanuele Severino, giunto con lucidità e passione ai novant’anni (il prossimo 26 febbraio). Se si sfogliano, infatti, i programmi dei dipartimenti di filosofia di oggi si noterà come l’orientamento privilegi logica, epistemologia e storia, nonché ricerche partecipative, relegando ai margini le riflessioni individuali di teoretica e di critica della cultura.

Giunto alla stagione del resoconto, Severino si è concesso la libertà di scrivere un libro sui suoi libri, a partire da La struttura originaria del 1958, che lo impose all’attenzione. Il testo (Testimoniando il destino, Adelphi) non ha nulla di biografico, è tutto bibliografico: quindici capitoli e diciannove postille per spaziare da Destino della necessità a Tecnica e architettura, passando per Dike, Essenza del nichilismo, La Gloria, La morte e la terra... Ancora una volta Severino si interroga su come sia possibile «la stabile conoscenza della verità» in un tempo in cui non solo la scienza, ma la filosofia stessa ha voltato le spalle al «sogno» di un siffatto sapere. La risposta di Severino parte dal riconoscere che «l’errore-errare» più radicale in cui l’uomo si trova è la fede eraclitea «nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che esse sono... affermando che l’evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano». Tutta l’opera neoparmenidea di Severino viene ritematizzata in queste pagine per smascherare «la Follia di questa fede» e per testimoniare la stabile innegabilità del destino della verità. Destino che indica uno «stare che non cede», che «resiste» e si pone come invarianza della necessità. Lo «stare necessario del destino» indica lo stare eterno dell’essere, l’impossibilità che l’essere non sia. Severino rivela il fondamento di questa posizione nell’autonegatività della sua negazione, la quale, nell’implicare la verità di ciò che tenta di negare, nega se stessa nell’atto di imporsi.

Questa tesi, ancorata all’intero percorso di Severino qui heideggerianamente chiamato «pianura della verità che va coltivata», viene approfondita nel suo rapporto con scienza, linguaggio e storia. La stabile «pianura» è il contraltare della fede in cui cresce la storia dell’Occidente, ovvero quella della negazione dell’immutabile. Per superare ermeneutica (che è «volontà separante») e nichilismo (l’impossibile «essere per il nulla») è necessario che la totalità dell’interpretare rinvii «a un interpretato che non sia a sua volta un interpretare», ovvero non a una semiosi infinita. Ciò è la verità, ma non come intesa dalla storia dell’Occidente — la storia del nichilismo —, bensì nella dimensione dell’assolutamente innegabile. Il tratto centrale di questa verità innegabile è l’impossibilità che un qualsiasi ente, in quanto essente, non sia. Tale impossibilità è l’eternità dell’essente. Dato che l’essere è, e non può mai diventare un nulla, «ogni essente è eterno».

Il linguaggio nasce all’interno di separazione e dominio degli essenti e, dunque, non riesce a oltrepassarlo per isolare il fondo del destino. Dobbiamo immaginare gli essenti come cartoline appese a un filo di cui lo scienziato spiega le dinamiche, ma non la macchina da presa o il movimento dello sguardo che le coglie. Per capire lo sguardo sulle cartoline bisogna introdurre il concetto di coscienza trascendentale, ovvero il luogo dove sopraggiungono gli eterni. «Il cosiddetto divenire del mondo non può essere il cominciare a essere e il cessare di essere, ma è il comparire e lo scomparire degli eterni in quella coscienza trascendentale». Ciò che nella «terra isolata» è interpretato come un diventare altro è invece un incominciare e cessare di apparire da parte degli eterni. Avvicinandosi a Hegel, Severino sostiene che l’apparire del finito «copre» la concretezza dell’infinito, quasi sommatoria di «Per sé» che «coprono» l’In sé. Ma l’Infinito non è la totalità della storia; si esprimere piuttosto come quell’Infinito sentito da Leopardi che rende esperibile la vanità di tutti gli enti se colti nella negazione di una dimensione immutabile. Inoltre, i possibili che appaiono potevano anche non apparire; e ciò resta una «possibilità della possibilità» non esperita dalla scienza.

Anche l’io empirico è un apparire. «Che il mondo appaia a me significa che io penso. Il pensare è innanzitutto l’apparire del mondo. Ma questo apparire è l’apparire della non verità della terra isolata dal destino»: ma in quanto mio (o nostro), questi apparire non costituiscono un atto di coscienza (come in Husserl), ma un separarsi dalla verità. «La filosofia della terra isolata è pertanto la testimonianza della relazione che la specializzazione scientifica istituisce col Tutto — ed è relazione tra ambiti essenzialmente isolati. Originariamente... è il destino a esser l’apparire degli essenti nel loro esser parti del Tutto». Sul punto dissentono molti epistemologi; la differenza, come scrive Severino è «abissale». E, d’altra parte, già da Popper e Feyerabend la scienza riconosce il carattere probabilistico delle proprie congetture e confutazioni, il loro non essere verità assolute. L’indicazione di Severino resta quella di tenere fisso un «fondamento» assoluto anche nell’età del massimo relativismo, del pragmatismo tecnocratico e delle fake news. La tecno-scienza dispiega la sua potenza, la comunicazione la sua persuasione mentre la filosofia la verità.

Severino, che nel 2011 ha scritto anche un’autobiografia intitolata Il mio ricordo degli eterni (Rizzoli), sarà dunque festeggiato a Brescia: il 2 marzo è atteso al Centro Teatrale bresciano per una rilettura dell’Orestea da lui tradotta nel 1985 e dal 13 al 15 giugno al secondo congresso organizzato in suo onore dall’Associazione di studi Emanuele Severino (Heidegger nel pensiero di Severino), alla quale aderiscono 140 personalità della cultura italiana.

La speranza di Amos Oz

Mio padre è morto di venerdì. Se i veri giusti muoiono nel giorno dello Shabbat, solo ora capisco che gli scrittori devono morire di venerdì. La notizia è trapelata appena prima di questo sabato invernale e per tutto il lungo fine settimana, in Israele e altrove, decine di migliaia di persone hanno saputo di mio padre e hanno letto le sue parole. Uno scrittore deve morire di venerdì.

All’età di quattro anni ho scoperto la morte. Sono andata da mio padre per confidargli il mio terribile spavento. Mio padre mi disse: «Non temere, Fania, perché per quando sarai grande avrò inventato qualcosa che impedirà alla gente di morire». Disse proprio così, con queste esatte parole. Andate a vedere: il papà venticinquenne che diceva queste cose alla sua bambina era il ragazzo di Soumchi, il ragazzo di Una pantera in cantina, il ragazzo del Monte del cattivo consiglio, e di Una storia di amore e di tenebra. Quel ragazzo di colpo è diventato padre: il mio.

Alcuni sostengono, e a ragione, che non bisogna dire a un bambino spaventato dalla morte che il padre inventerà qualcosa per fermarla. Come se da sole le parole bastassero a donarci la redenzione, la guarigione completa e finale, o almeno ci consentissero di guadagnare tempo, di rimandare il timore della morte di un bambino, di un adulto o di un anziano, per cullarli in un incantesimo artificiale addolcito dal miraggio di un futuro ancora possibile. Questa critica abbraccia anche la visione politica di mio padre. Certo, voglio parlare qui della sua visione politica perché, sia per lui che per me, la politica era una questione anche personale. Non tutto ciò che è personale è politico, ovviamente, ma tutto ciò che è politico è anche personale.

Alcuni pensano che l’«ottimismo» politico che ha accompagnato Amos Oz in quasi tutta la sua vita — non negli ultimi anni, ma per quasi tutta la sua vita — sia stato una fantasia sulla pace mondiale, sulla bontà complicata ma possibile del genere umano, sulla speranza di guarire la società. Riparare e guarire con zappe e badili, con libri e penne. Costoro hanno disprezzato il suo «ottimismo», e anzi, ne erano spaventati, quasi che la sua cocciuta battaglia per la pace tra arabi e israeliani, in particolare tra Israele e la Palestina, fosse una folle illusione, una pericolosa licenza poetica, un’ombra effimera nella caverna di Platone.

Mio padre ha insistito fino alla fine, fin verso la fine, che uomini e donne diventano più buoni con il passar del tempo, più complessi e più buoni, grazie al contatto con il prossimo, e con il dolore del prossimo, per quanto lontano e straniero, attraverso la capacità di raccontare storie e di ascoltare storie, che ci permette di immedesimarci per un breve istante nell’umanità estranea di personaggi lontani e sconosciuti. Mi diceva spesso: «Possiamo condensare tutte le leggi morali, i Dieci comandamenti e tutte le virtù umane in un unico precetto: non infliggere dolore. Tutto qui. Non fare del male. E se non ci riesci, almeno sforzati di causare il minor male che puoi. Di infliggere il minor dolore possibile».

Per tutta la sua vita mio padre si è sforzato di non causare dolore, ma talvolta non ci è riuscito. So benissimo che in alcune circostanze ha causato dolore agli altri. Ma so anche che tantissime persone si sono fatte avanti nelle ultime settimane per raccontarci come mio padre avesse prestato loro ascolto, o assistenza, con pazienza e generosità. Vedete, è davvero possibile alzarsi ogni giorno alle quattro del mattino e far di tutto per causare meno dolore. Causare meno dolore e scrivere. Anche questo faceva, dalle cinque del mattino, dopo la sua camminata all’alba, con la penna nera e la penna blu, per distinguere la voce del narratore dalla voce del cittadino-oratore.

Mio padre creava personaggi inquieti e perseguitati e per loro cercava la pace perfetta. Gettava i suoi incantesimi sulle tenebre per far sgorgare la luce dell’amore. E tra l’amore e le tenebre, e altrettanto complicato quanto l’amore per una donna, mio padre ha trascorso la sua vita a lottare con l’amore per la sua terra e il suo paese, Israele, lo Stato che è germogliato dalle lacrime dei suoi genitori. Con l’energia del testimone davanti al trionfo del sionismo, con la fede incrollabile della generazione che ha fondato uno Stato per gli ebrei in Israele, mio padre ha continuato a esplorare le vie per realizzare la speranza più recondita del sionismo, forse l’ultima speranza sionista rimasta ancora incompiuta: la pace qui tra noi e gli arabi. Ci sono uomini e donne, mi ripeteva, che crescono in bontà e saggezza negli angoli più sperduti del Paese, e saranno loro prima o poi ad afferrare in mano il timone di Israele. Saranno le persone più inattese, forse gli ultimi arrivati — non i famosi e gli assetati di gloria — che si faranno avanti e si metteranno alla guida. Verranno da terre ignote, dove già spuntano in segreto le grandi speranze del domani.

Non ottimismo, ma speranza. L’ottimismo è il colore della previsione; la speranza è la consapevolezza di un valore profondo, o figlia di un’immaginazione sovrumana. La speranza è l’opposto del fanatismo e del suo cugino germano, la disperazione, e di quell’altro parente, il cinismo. Tutti coloro che sbarrano le porte sono nemici della speranza. Parlo nella speranza che un giorno avremo anche noi pace e giustizia, quella giustizia sollecita e benevola che governa una società solidale e matura, non avida né zelante per qualche grande teorema, bensì capace di condividere in ogni cosa il rispetto e l’affetto per gli esseri umani così come sono. È la speranza per una società israeliana capace di nutrire giudaismo e umanesimo, le parole gemelle incise sulla porta di casa di nostro zio, Joseph Klausner. Quella stessa ebraicità i cui ingranaggi segreti, pur nell’assenza di fede in Dio, sono i figli, i libri e il dialogo. E per noi, nella nostra casa e nella nostra cultura, il dialogo con chiunque è sempre benvenuto, e il dibattito è accolto con gioia, infervorato e assordante quanto si voglia, purché non causi dolore a nessuno.

Così radicata e solida è questa grande speranza, che sebbene oggi taluni la respingano nel timore che potrebbe indebolirci e consegnarci nelle mani dei nostri nemici, un’infinità di persone ne sanno cogliere la grandezza. È una speranza che si annida nel centro stesso del sionismo, nel centro stesso dell’umanesimo. La speranza fa bene al cuore, lo allarga, spalanca gli orizzonti e spinge all’azione. Rappresenta l’arena e l’eredità per i nipoti che vivono in questa terra. E per i nipoti che vivono in qualunque parte del mondo.

Mio padre è morto, e chiunque pensi che una speranza come questa sia morta in Israele con la morte di Amos Oz non conosceva bene mio padre, perché lui sapeva che avremmo proseguito su questa strada. Aveva escogitato un’invenzione per non far spegnere la speranza. I suoi figli e nipoti, amici, studenti, lettori e interlocutori, persino i suoi degni oppositori, noi tutti faremo sì che non si estingua. Che sia chiaro: mi riferisco alla speranza di una vera pace qui tra un Israele democratico, uno Stato degli ebrei e di tutti i suoi cittadini, uno Stato fondato sul diritto e sulla giustizia sociale, uno Stato in cui la lingua della Torah possa fiorire, al pari della cultura giudaica ed ebraica, a fianco delle culture arabe e mondiali. (...)

Abbiamo già cambiato la storia una volta. I genitori di mio padre, e i genitori della mia amatissima madre, i pionieri del Kibbutz Hulda e gli ebrei che sono approdati fin qui per vie di mare e di terra, da ogni angolo della diaspora, con un unico scopo nella mente, sospinti da un’immane catastrofe, tutti costoro hanno cambiato la storia. Sfuggiti alle fauci del demonio, hanno cambiato la storia. E noi, non possiamo anche noi, qui e ora, sperare e agire? Non credo che mio padre possa sentire quello sto dicendo. Era un ebreo profondamente laico. Lo sono anch’io. Eppure io sono certa, fermamente certa, che in questo momento egli stia accennando di sì con il capo.

Pertanto è possibile inventare qualcosa per far in modo che la nostra speranza umana e israeliana non muoia. È una speranza saggia e misurata, molto ebraica in un certo senso, una speranza che abbraccia tutti gli uomini e il mondo intero. La speranza che sia concessa a tutti una buona vita sulla terra, e che tutti, o quasi tutti, siano capaci di narrare storie e di ascoltare storie, ma con grande attenzione. La speranza che tutti allora possano cominciare, uno dopo l’altro, a non causare più dolore a nessun altro essere umano, o perlomeno a causare meno dolore.

Ho amato profondamente mio padre e la mia anima era vicina alla sua. Pensavo di venire qui oggi e di non riuscire ad aprir bocca, ma vedo che non mi sono mancate le parole. Abbiamo le parole. Le parole di mio padre e le parole degli altri, e tutte le parole buone che aspettano ancora di essere pronunciate. Queste parole ravvivano l’amore, incarnano i sogni e talvolta cambiano il mondo. Queste parole non moriranno, e presto qualche speranza si trasformerà in realtà anche qui da noi.

Grazie, abba (papà, ndt).


lunedì 7 gennaio 2019

pensieri scomposti


Marina Cvetaeva annotò in uno dei suoi stupendi taccuini: «Scrivere significa vivere». Nel 1919, la grande poetessa russa era così povera che non aveva scelta: i quaderni se li cuciva, e si faceva anche l’inchiostro. Ma sono parole che valgono anche per noi, perché gli hobby a volte non sono meno urgenti delle necessità. È quando «non si vive», ci avverte Marina, che «la mano rifiuta la penna».


True happyness is  to enjoy the present without anxious dependence on the future(Lucio Seneca 5 BC - 65 AD)


Noi siamo Re che si credono Mendicanti(Emanuele Severino)

Religion is regarded by the common people as true, by the wise as false, and by the rulers as useful.
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