Al contrario di quanto qualcuno afferma la leadership non significa semplicemente andare avanti da soli assumendosi l'intero fardello,
una vera leadership crea le condizioni al fine di condividere le responsabilità così come di sostenere assieme i principi di giustizia e dignità umana
martedì 29 marzo 2011
domenica 27 marzo 2011
Una notte nel Negev
Nel cuore del Negev, il più grande deserto di Israele, c'è il famoso kibbutz Sde Boker. Famoso non solo perché i centri abitati del Negev sono pochi e ciascuno di essi merita di essere menzionato, ma soprattutto perché il primo capo del governo israeliano, David Ben Gurion, vi si stabilì già agli inizi degli Anni 50.
Tale scelta fu fatta per proporre alla giovane nazione di cui lui era il principale architetto la sfida di un insediamento nazionale nella regione più desertica di Israele.
Una regione vasta più della metà del suo territorio e scarsamente popolata da ebrei. «Nel Negev si determinerà il destino del popolo ebraico», aveva dichiarato Ben Gurion. E questa semplice frase è incisa su una grande roccia all'ingresso di uno dei campi militari sparsi nel deserto.
La tomba di Ben Gurion si trova nel kibbutz Sde Boker e la lapide riporta, su sua richiesta, solo tre date: quella della nascita, quella della morte, e quella della sua immigrazione in Israele. La semplice casetta di legno dove lui e sua moglie Paula hanno vissuto fino alla morte è ancora meta di pellegrinaggio per molti israeliani e turisti.
Nell'istituto di studi superiori intitolato a Ben Gurion e situato vicino al kibbutz si tengono numerose attività accademiche fra le quali ogni anno, in inverno, un festival di poesia denominato «Poesia nel deserto». A esso partecipano poeti ma anche autori di prosa, ai quali viene chiesto di leggere le loro opere. Nonostante Tel Aviv disti da Sde Boker soltanto un paio d'ore, io sono solito invitare i miei tre figli e i miei sei nipoti a unirsi a me e a mia moglie per un soggiorno nel deserto, ritenendo che ogni israeliano debba recarsi una o due volte all'anno in quei luoghi e trascorrervi almeno una notte.
Abbiamo così preso alloggio in una fattoria poco lontana da Sde Boker, chiamata Zeit Midbar (Olivo del deserto): io e mia moglie nell'unico bungalow disponibile mentre i miei figli, con relativi coniugi e prole, in tende indiane riscaldate. Lì abbiamo goduto per lunghe ore l'atmosfera del deserto, la sua luce particolare, le sue voci e la vista dei pacifici animali che ci gironzolavano intorno.
Quello stesso giorno ci sono giunte le terribili notizie del terremoto in Giappone e dell'omicidio della famiglia di coloni nell'insediamento di Itamar: padre, madre e tre figlioletti, tra cui una neonata di quattro mesi, brutalmente assassinati nel sonno da due terroristi palestinesi provenienti da un vicino villaggio.
Questo abominevole delitto è stato esplicitamente condannato non solo dal presidente dell'Autorità palestinese, ma anche dai direttori di alcuni importanti giornali della West Bank. Il primo ministro israeliano però, non contento delle condanne giunte da tutto il mondo e dall'Autorità palestinese, ha deciso di infliggere una punizione collettiva ai palestinesi annunciando l'immediato proseguimento della costruzione degli insediamenti in molte zone dei territori occupati. Dico «punizione collettiva» perché quale colpa hanno per esempio gli abitanti di Betlemme di un omicidio perpetrato a parecchi chilometri di distanza dalle loro case per essere espropriati da terreni destinati al futuro sviluppo dei loro figli?
La terra è una delle principali componenti dell'identità di un popolo, forse la più importante. L'ampio deserto che ci circonda è parte rilevante e preziosa della mia identità di israeliano e di quella dei miei figli. Se qualcuno ci espropriasse anche di una sua piccola parte protesterei e lotterei con tutte le mie forze. Lo Stato di Israele nei confini del 1967 occupava tre quarti della Palestina originale mentre allo Stato palestinese rimaneva solo un quarto. Perché dovremmo impossessarci di altri territori quando abbiamo a disposizione spazi vuoti che il padre della nostra nazione, David Ben Gurion, vedeva giustamente (sotto un profilo pratico, non romantico) come potenziali zone di insediamento?
Dopo tutto, con i moderni mezzi di trasporto (che continueranno a migliorare), il Negev non è lontano dal centro di Israele. E con i sofisticati mezzi tecnologici a nostra disposizione potremmo costruire nel Negev meravigliose città moderne come è accaduto in molti luoghi desolati del mondo. Perché investire denaro in provocatori insediamenti all'interno del tessuto del popolo palestinese, insediamenti che suscitano una forte opposizione nel mondo e nello Stato ebraico e per la cui esistenza e sicurezza entrambe le parti devono pagare con spargimenti di sangue? Il passato ci ha già insegnato che insediamenti simili nella penisola del Sinai sono stati sradicati dal governo di destra con l'avvento della pace con l'Egitto.
E altri irrazionali insediamenti ebraici nel cuore dei campi profughi della Striscia di Gaza sono stati rimossi con il pugno di ferro dal leader più nazionalista di Israele, l'ex primo ministro Ariel Sharon. Perché ripetere errori che l'intera comunità internazionale condanna? Perché stabilirsi provocatoriamente su territori che creeranno nuovi contrasti, quando invece Israele ha a sua disposizione ampie aree desertiche che attendono solo di essere popolate da ebrei (una scelta corretta anche da un punto di vista ecologico e morale)?
Queste sono state le nostre riflessioni nell'udire le tremende notizie di quel triste venerdì giunte da lontano e da vicino mentre a Sde Boker, fiorente kibbutz nel deserto, ascoltavamo le poesie di amici che ancora credono, giustamente, che la poesia sia in grado di penetrare profondamente nei cuori.
Tale scelta fu fatta per proporre alla giovane nazione di cui lui era il principale architetto la sfida di un insediamento nazionale nella regione più desertica di Israele.
Una regione vasta più della metà del suo territorio e scarsamente popolata da ebrei. «Nel Negev si determinerà il destino del popolo ebraico», aveva dichiarato Ben Gurion. E questa semplice frase è incisa su una grande roccia all'ingresso di uno dei campi militari sparsi nel deserto.
La tomba di Ben Gurion si trova nel kibbutz Sde Boker e la lapide riporta, su sua richiesta, solo tre date: quella della nascita, quella della morte, e quella della sua immigrazione in Israele. La semplice casetta di legno dove lui e sua moglie Paula hanno vissuto fino alla morte è ancora meta di pellegrinaggio per molti israeliani e turisti.
Nell'istituto di studi superiori intitolato a Ben Gurion e situato vicino al kibbutz si tengono numerose attività accademiche fra le quali ogni anno, in inverno, un festival di poesia denominato «Poesia nel deserto». A esso partecipano poeti ma anche autori di prosa, ai quali viene chiesto di leggere le loro opere. Nonostante Tel Aviv disti da Sde Boker soltanto un paio d'ore, io sono solito invitare i miei tre figli e i miei sei nipoti a unirsi a me e a mia moglie per un soggiorno nel deserto, ritenendo che ogni israeliano debba recarsi una o due volte all'anno in quei luoghi e trascorrervi almeno una notte.
Abbiamo così preso alloggio in una fattoria poco lontana da Sde Boker, chiamata Zeit Midbar (Olivo del deserto): io e mia moglie nell'unico bungalow disponibile mentre i miei figli, con relativi coniugi e prole, in tende indiane riscaldate. Lì abbiamo goduto per lunghe ore l'atmosfera del deserto, la sua luce particolare, le sue voci e la vista dei pacifici animali che ci gironzolavano intorno.
Quello stesso giorno ci sono giunte le terribili notizie del terremoto in Giappone e dell'omicidio della famiglia di coloni nell'insediamento di Itamar: padre, madre e tre figlioletti, tra cui una neonata di quattro mesi, brutalmente assassinati nel sonno da due terroristi palestinesi provenienti da un vicino villaggio.
Questo abominevole delitto è stato esplicitamente condannato non solo dal presidente dell'Autorità palestinese, ma anche dai direttori di alcuni importanti giornali della West Bank. Il primo ministro israeliano però, non contento delle condanne giunte da tutto il mondo e dall'Autorità palestinese, ha deciso di infliggere una punizione collettiva ai palestinesi annunciando l'immediato proseguimento della costruzione degli insediamenti in molte zone dei territori occupati. Dico «punizione collettiva» perché quale colpa hanno per esempio gli abitanti di Betlemme di un omicidio perpetrato a parecchi chilometri di distanza dalle loro case per essere espropriati da terreni destinati al futuro sviluppo dei loro figli?
La terra è una delle principali componenti dell'identità di un popolo, forse la più importante. L'ampio deserto che ci circonda è parte rilevante e preziosa della mia identità di israeliano e di quella dei miei figli. Se qualcuno ci espropriasse anche di una sua piccola parte protesterei e lotterei con tutte le mie forze. Lo Stato di Israele nei confini del 1967 occupava tre quarti della Palestina originale mentre allo Stato palestinese rimaneva solo un quarto. Perché dovremmo impossessarci di altri territori quando abbiamo a disposizione spazi vuoti che il padre della nostra nazione, David Ben Gurion, vedeva giustamente (sotto un profilo pratico, non romantico) come potenziali zone di insediamento?
Dopo tutto, con i moderni mezzi di trasporto (che continueranno a migliorare), il Negev non è lontano dal centro di Israele. E con i sofisticati mezzi tecnologici a nostra disposizione potremmo costruire nel Negev meravigliose città moderne come è accaduto in molti luoghi desolati del mondo. Perché investire denaro in provocatori insediamenti all'interno del tessuto del popolo palestinese, insediamenti che suscitano una forte opposizione nel mondo e nello Stato ebraico e per la cui esistenza e sicurezza entrambe le parti devono pagare con spargimenti di sangue? Il passato ci ha già insegnato che insediamenti simili nella penisola del Sinai sono stati sradicati dal governo di destra con l'avvento della pace con l'Egitto.
E altri irrazionali insediamenti ebraici nel cuore dei campi profughi della Striscia di Gaza sono stati rimossi con il pugno di ferro dal leader più nazionalista di Israele, l'ex primo ministro Ariel Sharon. Perché ripetere errori che l'intera comunità internazionale condanna? Perché stabilirsi provocatoriamente su territori che creeranno nuovi contrasti, quando invece Israele ha a sua disposizione ampie aree desertiche che attendono solo di essere popolate da ebrei (una scelta corretta anche da un punto di vista ecologico e morale)?
Queste sono state le nostre riflessioni nell'udire le tremende notizie di quel triste venerdì giunte da lontano e da vicino mentre a Sde Boker, fiorente kibbutz nel deserto, ascoltavamo le poesie di amici che ancora credono, giustamente, che la poesia sia in grado di penetrare profondamente nei cuori.
La Fede intollerante
«Gli attacchi contro di me sono un tipico esempio della dittatura del relativismo denunciata da Benedetto XVI. Perché non ho fatto altro che riaffermare la tradizionale dottrina cattolica sulla provvidenza». Roberto de Mattei è di nuovo nell'occhio del ciclone.
E' nel mirino per una conversazione a Radio Maria, nella quale ha sostenuto che i terremoti «sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio» e che in alcuni casi possono essere castighi divini.
«Innanzitutto - replica de Mattei - non parlavo come vicepresidente del Cnr, ma da cittadino e da credente. Il punto è che, come insegnano san Tommaso e sant'Agostino, nell'universo non accade nulla che non sia voluto, o almeno permesso, da Dio per precise ragioni. E tra di esse non è da escludere l'ipotesi di un castigo divino, anche se in materia non vi è certezza».
Ma il Dio cristiano non è amore? «Certo, infatti nel mio discorso non c'è alcun compiacimento. Esso nasce, al contrario, dalla convinzione che uno dei modi per aiutare spiritualmente chi soffre sia trovare una ragione alta e nobile per le disgrazie che l'hanno colpito, spiegando che anche le catastrofi sono originate dall'amore divino, che trae sempre il bene dal male».
Però la scienza indica cause geologiche per i terremoti. «Qui siamo su un piano diverso. Avanzare questa motivazione per chiedere che io mi dimetta equivale a esigere la cacciata dall'università di un fisico che crede al dogma della transustanziazione, certamente antiscientifico, per cui al momento della consacrazione eucaristica pane e vino diventano corpo e sangue di Cristo. Con questa logica scandalosa si arriverebbe a precludere ai cattolici ogni incarico pubblico». D'altronde de Mattei non si stupisce per gli attacchi degli atei: «Conosco la loro intolleranza: a parte Piergiorgio Odifreddi, non hanno mai accettato di confrontarsi con le mie idee, lanciano solo invettive. Mi colpiscono semmai il silenzio e l'ateismo pratico di certi cattolici, per i quali Dio sarebbe assente dalla storia, avrebbe creato l'universo per poi disinteressarsene».
Alcuni teologi infatti spiegano le sciagure naturali con una meccanica propria del mondo, non riconducibile alla volontà di Dio. «San Paolo scrive che il male e la morte sono entrati nel mondo attraverso il peccato originale di Adamo ed Eva. Da quella colpa derivano tutte le lacrime e i dolori dell'umanità. Oggi però nel mondo cattolico è penetrata una visione evoluzionista e poligenista, per cui il genere umano non proverrebbe da una coppia primordiale. Ma Pio XII nell'enciclica Humani Generis ha riaffermato che l'esistenza personale di Adamo ed Eva fa parte del magistero della Chiesa. Questa è una delle tante ragioni per cui un cattolico non può accettare le teorie di Darwin. Perciò mi stupisce che un semievoluzionista come il cardinale Gianfranco Ravasi presieda il Pontificio consiglio per la cultura».
Secondo lei non è adatto all'incarico? «Si chiede a me di lasciare la vicepresidenza del Cnr, ma sarebbe più logico che si dimettesse Ravasi, che sostiene in campo esegetico e scientifico posizioni non del tutto coerenti con la tradizione della Chiesa. Oltretutto l'evoluzionismo è indimostrabile sul piano sperimentale: di fatto è un mito che si sta sgretolando. Sono sempre più numerosi gli scienziati che lo rigettano.
E' nel mirino per una conversazione a Radio Maria, nella quale ha sostenuto che i terremoti «sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio» e che in alcuni casi possono essere castighi divini.
«Innanzitutto - replica de Mattei - non parlavo come vicepresidente del Cnr, ma da cittadino e da credente. Il punto è che, come insegnano san Tommaso e sant'Agostino, nell'universo non accade nulla che non sia voluto, o almeno permesso, da Dio per precise ragioni. E tra di esse non è da escludere l'ipotesi di un castigo divino, anche se in materia non vi è certezza».
Ma il Dio cristiano non è amore? «Certo, infatti nel mio discorso non c'è alcun compiacimento. Esso nasce, al contrario, dalla convinzione che uno dei modi per aiutare spiritualmente chi soffre sia trovare una ragione alta e nobile per le disgrazie che l'hanno colpito, spiegando che anche le catastrofi sono originate dall'amore divino, che trae sempre il bene dal male».
Però la scienza indica cause geologiche per i terremoti. «Qui siamo su un piano diverso. Avanzare questa motivazione per chiedere che io mi dimetta equivale a esigere la cacciata dall'università di un fisico che crede al dogma della transustanziazione, certamente antiscientifico, per cui al momento della consacrazione eucaristica pane e vino diventano corpo e sangue di Cristo. Con questa logica scandalosa si arriverebbe a precludere ai cattolici ogni incarico pubblico». D'altronde de Mattei non si stupisce per gli attacchi degli atei: «Conosco la loro intolleranza: a parte Piergiorgio Odifreddi, non hanno mai accettato di confrontarsi con le mie idee, lanciano solo invettive. Mi colpiscono semmai il silenzio e l'ateismo pratico di certi cattolici, per i quali Dio sarebbe assente dalla storia, avrebbe creato l'universo per poi disinteressarsene».
Alcuni teologi infatti spiegano le sciagure naturali con una meccanica propria del mondo, non riconducibile alla volontà di Dio. «San Paolo scrive che il male e la morte sono entrati nel mondo attraverso il peccato originale di Adamo ed Eva. Da quella colpa derivano tutte le lacrime e i dolori dell'umanità. Oggi però nel mondo cattolico è penetrata una visione evoluzionista e poligenista, per cui il genere umano non proverrebbe da una coppia primordiale. Ma Pio XII nell'enciclica Humani Generis ha riaffermato che l'esistenza personale di Adamo ed Eva fa parte del magistero della Chiesa. Questa è una delle tante ragioni per cui un cattolico non può accettare le teorie di Darwin. Perciò mi stupisce che un semievoluzionista come il cardinale Gianfranco Ravasi presieda il Pontificio consiglio per la cultura».
Secondo lei non è adatto all'incarico? «Si chiede a me di lasciare la vicepresidenza del Cnr, ma sarebbe più logico che si dimettesse Ravasi, che sostiene in campo esegetico e scientifico posizioni non del tutto coerenti con la tradizione della Chiesa. Oltretutto l'evoluzionismo è indimostrabile sul piano sperimentale: di fatto è un mito che si sta sgretolando. Sono sempre più numerosi gli scienziati che lo rigettano.
martedì 22 marzo 2011
Nessun rischio
In particolare sarebbe stato rilevato iodio radioattivo ad un livello 29,8 volte superiore al limite consentito.
Ma non è solo il mare: il livello di radioattività è aumentato notevolmente in tutta l'area vicina alla centrale nucleare,
secondo quanto affermato dal ministero della scienza e della tecnologia di Tokyo,
precisando tuttavia che i livelli non sono tali da rappresentare una minaccia per la salute umana.
Ma non è solo il mare: il livello di radioattività è aumentato notevolmente in tutta l'area vicina alla centrale nucleare,
secondo quanto affermato dal ministero della scienza e della tecnologia di Tokyo,
precisando tuttavia che i livelli non sono tali da rappresentare una minaccia per la salute umana.
lunedì 21 marzo 2011
Il crocifisso: simbolo umanitario?
Evidentemente tra i «valori non negoziabili» di molti cattolici c'è la rivendicazione dello spazio pubblico per le loro idee su famiglia e omosessualità, ma non c'è la capacità di trovare le parole per comunicare verità dogmatiche di cui si è perso letteralmente il significato: peccato originale, redenzione, salvezza.
Non è certo compito degli atei devoti o dei laici pentiti occuparsi di queste cose. A loro non interessano queste faccende teologiche. Ma dove sono i cristiani maturi?
Quello che non capisco è l'entusiasmo della gerarchia ecclesiastica.
Non si rende conto dell'equivoco che promuovendo il crocifisso come simbolo di universalismo e umanitarismo in esclusiva nazionale, negando di fatto spazio ad altri simboli religiosi, lo priva della sua specifica autenticità religiosa?
Non è certo compito degli atei devoti o dei laici pentiti occuparsi di queste cose. A loro non interessano queste faccende teologiche. Ma dove sono i cristiani maturi?
Quello che non capisco è l'entusiasmo della gerarchia ecclesiastica.
Non si rende conto dell'equivoco che promuovendo il crocifisso come simbolo di universalismo e umanitarismo in esclusiva nazionale, negando di fatto spazio ad altri simboli religiosi, lo priva della sua specifica autenticità religiosa?
venerdì 4 marzo 2011
il cristianesimo accomodante
O rmai, già lo osservava Nietzsche, il cristianesimo come drammaticità, quale veniva pensato da Pascal, nella nostra società borghese è diventato un tranquillante che deve avere l' effetto di placare la coscienza.
Per Pascal il discorso era un altro:
se questa cosa terribile che è il cristianesimo fosse vera? Che cosa devo fare, in vista di questa possibilità?
L' atteggiamento di Pascal non era accomodante, ma corrispondeva a questa cosa terribile; a questa cosa che, se presa sul serio, porterebbe a un modo di vivere sostanzialmente diverso da quello che realizziamo, e che realizziamo proprio perché siamo noi i primi a non prendere sul serio il cristianesimo.
Noi oggi abbiamo rovesciato completamente la posizione pascaliana,
non ci preoccupiamo più di vivere come se questa cosa terribile fosse vera, ma diciamo che, se fosse falsa, è comodo, dà tranquillità vivere cristianamente.
Non comprendiamo niente di ciò che è l' essenza del cristianesimo.
Pascal dice: proviamo a vivere come se questa cosa terribile fosse vera;
oggi si dice: viviamo cristianamente anche se il cristianesimo è una cosa falsa.
Infatti è utile vivere cristianamente. Si dà prova di buon senso, credendo nel cristianesimo.
Invece il cristianesimo non è mai stato una faccenda di buon senso, a cominciare da quella cosa così talmente priva di buon senso che è stata la morte di Cristo,
una cosa che il benpensante contemporaneo di Cristo certamente considerava una pazzia.
Infatti i Greci, che erano i benpensanti del tempo, quando sentivano parlare di un uomo che diceva di essere Dio e che si era fatto uccidere da uomini che non gli credevano, gli davano del pazzo. Questa era la reazione del benpensante rispetto a quella vicenda drammatica che è il cristianesimo
Per Pascal il discorso era un altro:
se questa cosa terribile che è il cristianesimo fosse vera? Che cosa devo fare, in vista di questa possibilità?
L' atteggiamento di Pascal non era accomodante, ma corrispondeva a questa cosa terribile; a questa cosa che, se presa sul serio, porterebbe a un modo di vivere sostanzialmente diverso da quello che realizziamo, e che realizziamo proprio perché siamo noi i primi a non prendere sul serio il cristianesimo.
Noi oggi abbiamo rovesciato completamente la posizione pascaliana,
non ci preoccupiamo più di vivere come se questa cosa terribile fosse vera, ma diciamo che, se fosse falsa, è comodo, dà tranquillità vivere cristianamente.
Non comprendiamo niente di ciò che è l' essenza del cristianesimo.
Pascal dice: proviamo a vivere come se questa cosa terribile fosse vera;
oggi si dice: viviamo cristianamente anche se il cristianesimo è una cosa falsa.
Infatti è utile vivere cristianamente. Si dà prova di buon senso, credendo nel cristianesimo.
Invece il cristianesimo non è mai stato una faccenda di buon senso, a cominciare da quella cosa così talmente priva di buon senso che è stata la morte di Cristo,
una cosa che il benpensante contemporaneo di Cristo certamente considerava una pazzia.
Infatti i Greci, che erano i benpensanti del tempo, quando sentivano parlare di un uomo che diceva di essere Dio e che si era fatto uccidere da uomini che non gli credevano, gli davano del pazzo. Questa era la reazione del benpensante rispetto a quella vicenda drammatica che è il cristianesimo
Il profugo globalizzato
E' la prima assistenza che li accoglie, un metro dopo aver infranto la frontiera della salvezza, con la valigia che schiaccia dorsi piagati, a piedi nudi, allucinati, disfatti, gente che pare condannata a essere in agonia fino alla fine del mondo. Prima della distribuzione del pane, prima dell'acqua, le umili endiadi della sopravvivenza finora previste nel lessico essenziale dei profughi.
Non è più così per i sopravvissuti di Ras Jedir, schiavi stranieri evasi dalla prigione petrolifera di Gheddafi, così innumerevoli da non aver diritto a dati certi, ottantamila già passati di qui, centomila, duecentomila ancora in trappola, chissà. Appena entrati in Tunisia sfilano non davanti a cucine di emergenza, ma davanti a banchetti che offrono la tentazione fondamentale del cellulare: Nokia modello terzo mondo, costo quaranta dinari, venti euro; e poi le schede per caricarli e le batterie di ricambio. Seguono i banchi che mettono a disposizione telefonini predisposti «per chiamate internazionali»: due dinari al minuto. Non caro.
Complimenti a questi trafficanti che si sono gettati, rapaci e accorti, sulla frontiera della disperazione. Non più con sigarette, o cibo. Hanno capito, loro, i nuovi ritmi del mondo, chi oggi è davvero nudo. Un tempo l'uomo apparteneva al luogo dove si sentiva al sicuro. Era quella la sua casa. Oggi appartiene a quello in cui può comunicare. La Libia era per questi uomini in fuga la paura in quanto muta. La violenza poliziesca che ricordano con maggiore astio non sono le ore passate sulle strade ciabattando verso la frontiera, gli oggetti rubati, le botte: quello è il normale fardello del debole, del povero. Che accettano, rassegnati. Li indigna solo il fatto che prima di lasciarli andare abbiano fracassato i loro telefonini e sequestrato le schede. Per impedire che portassero con sé testimonianze di quanto accade nella zona rimasta ancora sotto il Colonnello. La Tunisia è la salvezza perché si può comprare un cellulare. E parlare.
A Ras Jedir constatiamo la nascita di una nuova figura, il profugo globalizzato. Innanzitutto non sogna di sfamarsi, si sente libero solo quando impugna una scatoletta di plastica che gli consente di comunicare con il mondo intero. La sterminata famiglia degli esclusi è ormai quella di chi è lasciato in silenzio. Nel Maghreb con il telefonino si alimentano rivoluzioni che scompigliano dittature preistoriche e sguaiate. Singolare contrappasso: anche le vittime di questi virtuosi sconquassi lo impugnano per sentirsi in salvo.
Attenzione. I fuggiaschi di Ras Jedir non sono studenti, intellettuali, tecnici. Sono decine di migliaia di fellah egiziani, di manovali del Bangladesh, di operai turchi, di sguatteri filippini. Non si preoccupano se la Grande Macchina della Carità internazionale darà loro subito una tenda e un pasto, di quando ci sarà la possibilità di tornare a casa. Questi erano i dannati di Goma, del Ruanda, della Somalia, catastrofi umanitarie ancora dell'era antica. Dimentichiamoli. Qui siamo nel mondo nuovo, nell'Africa del telefonino.
Bisognerà tenerne conto, cambiare le nostre certezze per l'assistenza internazionale. Il kit di pronto intervento deve essere allargato, il biscotto ad alto contenuto energetico, le tende che si montano in tre minuti, il medico, non bastano più, bisognerà aggiungere il telefonino umanitario. Rendiamo omaggio ai pionieri, che sono francesi, la Ong «Télécoms Sans Frontières»: fornisce già alle vittime delle catastrofi il servizio gratuito di telefoni satellitari. Una loro postazione è nel campo di raccolta vicino a Ras Jedir; davanti alla tenda si formano code lunghissime. Più lunghe di quelle dove distribuiscono il pane.
Non è più così per i sopravvissuti di Ras Jedir, schiavi stranieri evasi dalla prigione petrolifera di Gheddafi, così innumerevoli da non aver diritto a dati certi, ottantamila già passati di qui, centomila, duecentomila ancora in trappola, chissà. Appena entrati in Tunisia sfilano non davanti a cucine di emergenza, ma davanti a banchetti che offrono la tentazione fondamentale del cellulare: Nokia modello terzo mondo, costo quaranta dinari, venti euro; e poi le schede per caricarli e le batterie di ricambio. Seguono i banchi che mettono a disposizione telefonini predisposti «per chiamate internazionali»: due dinari al minuto. Non caro.
Complimenti a questi trafficanti che si sono gettati, rapaci e accorti, sulla frontiera della disperazione. Non più con sigarette, o cibo. Hanno capito, loro, i nuovi ritmi del mondo, chi oggi è davvero nudo. Un tempo l'uomo apparteneva al luogo dove si sentiva al sicuro. Era quella la sua casa. Oggi appartiene a quello in cui può comunicare. La Libia era per questi uomini in fuga la paura in quanto muta. La violenza poliziesca che ricordano con maggiore astio non sono le ore passate sulle strade ciabattando verso la frontiera, gli oggetti rubati, le botte: quello è il normale fardello del debole, del povero. Che accettano, rassegnati. Li indigna solo il fatto che prima di lasciarli andare abbiano fracassato i loro telefonini e sequestrato le schede. Per impedire che portassero con sé testimonianze di quanto accade nella zona rimasta ancora sotto il Colonnello. La Tunisia è la salvezza perché si può comprare un cellulare. E parlare.
A Ras Jedir constatiamo la nascita di una nuova figura, il profugo globalizzato. Innanzitutto non sogna di sfamarsi, si sente libero solo quando impugna una scatoletta di plastica che gli consente di comunicare con il mondo intero. La sterminata famiglia degli esclusi è ormai quella di chi è lasciato in silenzio. Nel Maghreb con il telefonino si alimentano rivoluzioni che scompigliano dittature preistoriche e sguaiate. Singolare contrappasso: anche le vittime di questi virtuosi sconquassi lo impugnano per sentirsi in salvo.
Attenzione. I fuggiaschi di Ras Jedir non sono studenti, intellettuali, tecnici. Sono decine di migliaia di fellah egiziani, di manovali del Bangladesh, di operai turchi, di sguatteri filippini. Non si preoccupano se la Grande Macchina della Carità internazionale darà loro subito una tenda e un pasto, di quando ci sarà la possibilità di tornare a casa. Questi erano i dannati di Goma, del Ruanda, della Somalia, catastrofi umanitarie ancora dell'era antica. Dimentichiamoli. Qui siamo nel mondo nuovo, nell'Africa del telefonino.
Bisognerà tenerne conto, cambiare le nostre certezze per l'assistenza internazionale. Il kit di pronto intervento deve essere allargato, il biscotto ad alto contenuto energetico, le tende che si montano in tre minuti, il medico, non bastano più, bisognerà aggiungere il telefonino umanitario. Rendiamo omaggio ai pionieri, che sono francesi, la Ong «Télécoms Sans Frontières»: fornisce già alle vittime delle catastrofi il servizio gratuito di telefoni satellitari. Una loro postazione è nel campo di raccolta vicino a Ras Jedir; davanti alla tenda si formano code lunghissime. Più lunghe di quelle dove distribuiscono il pane.
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