Dialogo di un uomo stanco di vivere con la sua anima [Ba]
[...]
«A chi parlare oggi?
I fratelli sono cattivi,
e gli amici di oggi non sanno voler bene!
A chi parlare oggi?
I cuori sono avidi
e ognuno cerca di impadronirsi dei beni del suo vicino!
L'uomo pacifico è nel travaglio
e il forte schiaccia tutti!
A chi parlare oggi?
È il trionfo del male
e il bene è calpestato dovunque!»
[...]
«La morte è davanti ai miei occhi oggi
come la guarigione per il malato,
come l'uscita dalla sofferenza.
[...]
La morte è davanti ai miei occhi oggi
come una schiarita nel cielo,
come la comprensione di un enigma.
La morte è davanti ai miei occhi oggi
come il desiderio di un uomo di rivedere la sua casa,
dopo lunghi anni di prigionia.»
[...]
Allora Ba (la mia anima) aprì per me la sua bocca
e rispose a quel che avevo detto.
«Se tu ricordi,
il seppellimento è un'angoscia del cuore,
è un portar lacrime rendendo misero l'uomo.
È un portar via l'uomo dalla sua casa
e gettarlo sulla costa del deserto (dov'è la necropoli):
non ne esci alla luce per vedere il sole!
Quelli che hanno costruito (tombe) in pietra di granito,
quelli che hanno edificato piramidi [...]
belle per la loro opera [...],
quando (sono morti) e divenuti come dei
hanno visto le loro stele distrutte:
sono come la sfinita (gente comune morta) sulla riva,
senza un [erede] sulla terra.
Inzuppa l'acqua del fiume le loro estremità,
li brucia similmente il sole.
Parlano loro i pesci a fior d'acqua.
Ascoltami dunque
– ed è bene per tutti ascoltare!:
segui il giorno felice,
dimentica l'amarezza e il dolore!»
[Papiro Berlin 3024 / Egitto, XXIII/XXI sec. a.C.]
venerdì 20 settembre 2013
Dialogo di un uomo stanco di vivere con la sua anima [Ba]
mercoledì 11 settembre 2013
Lettera di Francesco
PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.
La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth".
Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.
Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio.
La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.
La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.
La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità.
Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.
Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.
Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.
Così Gesù predica "come uno che ha autorità", guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell'Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: "Chi è costui che...?", e che riguarda l'identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un'autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l'incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.
Ed è proprio allora - come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco - che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l'uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch'egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l'ha rifiutato, ma per attestare che l'amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.
La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell'amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell'incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva "caro cardo salutis", la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l'incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell'amore e nella fedeltà all'Abbà, testimonia l'incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell'Enciclica.
Sempre nell'editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l'originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull'incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L'originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell'amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell'unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l'esclusione.
Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l'amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutto l'uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.
Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.
Vengo così alle tre domande che mi pone nell'articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l'atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.
In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all'inizio di questo mio dire.
Nell'ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell'uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio - questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! - non è un'idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell'uomo. Dio è realtà con la "R" maiuscola. Gesù ce lo rivela - e vive il rapporto con Lui - come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell'uomo sulla terra - e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno - , l'uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l'universo creato con lui. La Scrittura parla di "cieli nuovi e terra nuova" e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà "tutto in tutti".
Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all'invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall'Abbà "a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19).
Con fraterna vicinanza
Francesco
martedì 10 settembre 2013
Quirico e la rivoluzione siriana
domenico quirico
La notte era dolce come il vino: l'8 aprile ad al Qusayr, Siria, per raccontare un altro capitolo della guerra siriana, dove la Primavera della rivoluzione sembrava poter durare per sempre e capovolgere il mondo. E invece sono stati 152 giorni di prigionia, piccole camere buie dove combattere contro il tempo e la paura e le umiliazioni, la fame, la mancanza di pietà, due false esecuzioni, due evasioni fallite, il silenzio; di Dio, della famiglia, degli altri, della vita. Ostaggio in Siria, tradito dalla rivoluzione che non è più ed è diventata fanatismo e lavoro di briganti. L'ostaggio piange e qui tutti ridono del suo dolore, considerato come prova di debolezza. La Siria è il Paese del Male; dove il Male trionfa, lavora, inturgidisce come gli acini dell'uva sotto il sole d'Oriente. E dispiega tutti i suoi stati; l'avidità, l'odio, il fanatismo, l'assenza di ogni misericordia, dove persino i bambini e i vecchi gioiscono ad essere cattivi. I miei sequestratori pregavano il loro Dio stando accanto a me, il loro prigioniero dolente, soddisfatti, senza rimorsi e attenti al rito: cosa dicevano al loro Dio?
Il racconto integrale
Siamo entrati in Siria il 6 aprile con il consenso e sotto la protezione dell'Armata siriana libera, come tutte le volte precedenti. Ho cercato di raggiungere Damasco e di verificare di persona le notizie sulla battaglia decisiva di questa guerra civile, come faccio sempre. Ma ci hanno detto che avremmo dovuto aspettare alcuni giorni prima di poter raggiungere la capitale siriana e così abbiamo accettato la proposta di andare in una città che si chiama Al Qusayr, vicina al confine libanese, che in quei giorni era assediata da Hezbollah, fedele alleato del regime di Assad.
Siamo arrivati ad Al Qusayr con un convoglio di rifornimenti della stessa Armata siriana libera, un lungo viaggio nella notte a fari spenti passando sulle montagne perché il regime controllava la strada. Siamo stati bombardati da un Mig vicino a un Ticunin, un mulino dell'epoca bizantina. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche sgretolati. Lì si è combattuta la battaglia fra Ramses II e gli Ittiti. Lì la storia è ovunque, nelle colline, nelle pietre. La città era già devastata e distrutta dai bombardamenti dell'aviazione e così la sera successiva abbiamo deciso di tornare dal luogo in cui eravamo partiti per sapere se era possibile intraprendere il viaggio verso Damasco. fidati. Invece probabilmente sono stati loro a tradirci e a venderci. All'uscita della città siamo stati affrontati da due pick-up con a bordo uomini con il viso coperto. Ci hanno fatto salire sui loro mezzi, poi ci hanno portato in una casa e ci hanno picchiato sostenendo di essere uomini della polizia di regime. Nei giorni successivi invece abbiamo scoperto che non era vero, perché erano dei ferventi islamisti che pregavano cinque volte al giorno il loro Dio in modo flautato e dotto. Poi, il venerdì hanno ascoltato la predica di un predicatore che sosteneva la jihad contro Assad. Ma la prova decisiva l'abbiamo avuta quando siamo stati bombardati dall'aviazione: era chiaro che quelli che ci tenevano in ostaggio erano ribelli.
L'emiro Abu Omar
L'ideatore e capo del gruppo che ci teneva prigionieri era un sedicente emiro che si chiama, anzi, si fa chiamare, Abu Omar, un soprannome. Ha formato la sua brigata reclutando gente della zona, più banditi che islamisti o rivoluzionari. Questo Abu Omar copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite, e collabora con il gruppo che successivamente ci ha preso in carico, Al Faruk. Al Faruk è una brigata molto nota della rivoluzione siriana, fa parte del Consiglio nazionale siriano, e i suoi rappresentanti incontrano i governi europei. È stato creata da un generale ribelle che ha arruolato combattenti fra la gente più povera di Homs, fra i più dimenticati dalla mafia di regime. L'Occidente si fida di loro ma ho imparato a mie spese che si tratta anche di un gruppo che rappresenta un fenomeno nuovo e allarmante della rivoluzione: l'emergere di gruppi banditeschi di tipo somalo, che approfittano della vernice islamista e del contesto della rivoluzione per controllare parte del territorio, per taglieggiare la popolazione, fare sequestri e riempirsi le saccocce di denaro.
La prima prigione
Inizialmente ci hanno tenuto in una casa di campagna alla periferia della città di Al Qusayr. Siamo rimasti lì per una ventina di giorni. Poi è accaduto il primo fatto terribile di quella che io chiamo la matrioska di questa storia, un evento all'interno di un altro evento: Hezbollah ha attaccato le posizioni dei ribelli e l'edificio in cui eravamo prigionieri è diventato la prima linea. È stato bombardato e attaccato. A quel punto ci hanno portato in un'altra casa, all'interno della città. Ma era come se il destino si accanisse contro di noi e continuamente ci ponesse nuovi terribili scenari, come se ci ricacciasse sempre indietro, sempre più lontano dalla prospettiva di essere liberati. Alla fine anche questa casa è stata attaccata e per una settimana siamo stati affidati ad una brigata di Jabat Al Nusra, l'Al Qaeda siriana. È stato l'unico momento in cui siamo stati trattati come esseri umani, per certi aspetti persino con simpatia: ad esempio ci hanno dato da mangiare le stesse cose che mangiavano loro. I qaedisti in guerra fanno una vita molto ascetica e sono dei guerrieri radicali, islamisti fanatici che si propongono di costruire uno stato islamico in Siria e poi in tutto il Medio Oriente, ma nei confronti dei loro nemici - perché noi, cristiani, occidentali, siamo loro nemici - hanno un senso di onore e di rispetto. Al Nusra è nell'elenco delle organizzazioni terroristiche degli americani ma sono gli unici che ci hanno rispettato. Poi siamo tornati nelle mani di Abu Omar.
La fuga da Al Qusayr
Al Qusayr era sotto assedio e diventava ogni giorno sempre più piccola, veniva demolita mattone su mattone. All'inizio di giugno l'assedio stava per finire con la vittoria degli Hezbollah. Intorno al 9 del mese tutte le varie fazioni della ribellione (fra cui anche la «katiba» di Abu Omar), hanno deciso di sfondare le linee nemiche insieme alla popolazione per provare a fuggire in un altro luogo della Siria. Incredibilmente ce l'hanno, ce l'abbiamo, fatta. È stata un'epopea straordinaria e terribile, con uomini, donne, bambini, handicappati e vecchi che hanno marciato a piedi per dodici ore, per due notti consecutive, attraverso la campagna. Erano 5-6 mila persone. Durante la marcia sui ciottoli questa folla faceva un rumore sordo, come se a spostarsi fosse un unico corpo. Quando i razzi lanciati dai soldati del regime per permettere all'artiglieria e alle mitragliatrici di colpirli illuminavano la scena, la campagna diventava abbagliante e tutte queste migliaia di persone si gettavano a terra improvvisamente creando un silenzio incredibile. Subito dopo, quando i razzi, che scendono lentissimi, si spegnevano per terra, tutta la folla si rialzava e riprendeva il cammino lasciando dietro di sé la catena dei morti.
Pesche acerbe
Alla fine della prima notte l'esercito è riuscito a bloccare l'avanzata e tutte queste persone si sono disperse nei frutteti e nei campi, senz'acqua e senza cibo, aspettando un'altra notte per tentare di proseguire. Non c'era nulla da mangiare. C'erano solo le pesche degli alberi, che essendo giugno erano ancora lontane dall'essere mature. Ci siamo nutriti schiacciandole e mangiando la parte più interna e il nocciolo, che erano abbastanza molli. C'erano anche alcuni vecchi personaggi omerici che si avviavano da soli verso le linee dell'esercito di Bashar e venivano falciati dalle mitragliatrici. Ma la cosa più straordinaria è stata che all'imbrunire, quando è scesa la sera, tutto questo popolo si è fermato e ha pregato. E gli uomini di Abu Omar hanno incrociato due kalashnikov davanti alle fila dei combattenti per intonare una preghiera della guerra. Il canto modulato si è levato sui campi sui boschi per chiedere a Dio di vincere la guerra, di uccidere i loro nemici. Dopodiché questa gente si è avviata verso il nemico, ha sfondato le linee e incredibilmente è avanzata oltre i soldati.
Verso Homs
Siamo scesi verso Homs dall'altopiano. Io credo di aver pensato di sognare, che non fosse una scena reale. Nella notte stavamo camminando verso questa grande città, la città nella quale è iniziata la rivoluzione. Una parte della città era già stata distrutta dai bombardamenti ed era vuota, l'altra parte invece era ancora abitata e i combattimenti continuavano. Per uno strano e incredibile effetto ottico l'immensa distesa di queste case bianche si proiettava al contrario verso il cielo: una parte, quella distrutta, aveva la fissità e il silenzio di un cimitero, di una tomba, l'altra invece era tutta luce, scoppi, razzi e rumori. Siamo scesi verso la pianura di Homs. Camminavamo in mezzo a due colonne di fuoco circondati da ombre: la gente correva tenendosi bassa perché le mitragliatrici tiravano ad altezza uomo, inciampavamo sui morti, finché alla fine non siamo arrivati in una piccola città di cemento, una delle tante piccole orribili città della Siria, mal costruite, approssimative.
Come Ulisse
Dopo quella notte ci hanno riportato nella città in cui era iniziato il nostro viaggio, come in una sorta di Odissea. Ulisse va verso Itaca, vede la sua casa, la sua isola là in fondo, ma il Dio feroce, implacabile, il destino, si accanisce contro di lui e una tempesta lo ricaccia indietro e quella è la sua condanna. A noi è successa la stessa cosa. Tornati a Reabruc, la città da cui eravamo partiti, ci hanno venduto al gruppo di Al Faruk. Il vortice è ripreso perché dopo due giorni ci hanno detto che ci avrebbero portato verso nord, verso il confine con la Turchia, e che ci avrebbero liberato. Abbiamo trascorso due notti in viaggio su questi pick-up sulle strade di montagna, con gli autisti che ogni tanto guardavano con il cannocchiale a infrarossi se i militari preparassero agguati sulla strada. Dopo la seconda notte di viaggio al freddo dentro il cassone del pick-up, ricoperti di polvere, siamo arrivati nella zona di Idlib, dove ci hanno tenuto per altre tre o quattro settimane in una base militare. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche sgretolati come quello degli Ittiti... Il capo dei sequestratori si faceva chiamare Abu Omar. Copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite Noi lo chiamavamo l'infame.
La telefonata
Dopo il primo giorno di marcia questo Abu Omar era seduto come un pascià sotto un albero circondato dalla sua piccola corte di guerriglieri. Mi ha chiamato perché voleva che mi sedessi accanto a lui, voleva fingere di essere nostro amico per ingannare un po' anche la gente che era lì intorno e che si chiedeva chi fossero questi due occidentali malvestiti e distrutti dopo due mesi di prigionia. Gli ho chiesto il telefono per chiamare casa, dicendo che i miei probabilmente pensavano che io fossi morto e che stava distruggendo la mia vita, la mia famiglia. Lui rideva. E mi mostrava il suo telefonino mentendo e dicendo che non c'era campo, che non si poteva telefonare. Non era vero. In quel momento un soldato dell'Esercito siriano libero, ferito alle gambe, ha tirato fuori dalla tasca dei suoi pantaloni un telefonino e me l'ha dato davanti a lui. È stato l'unico gesto di pietà umana che ho ricevuto nei 152 giorni. Nessuno ha avuto verso di me una manifestazione di quella che noi chiamiamo pietà, misericordia, compassione. Persino i vecchi e i bambini hanno cercato di farci del male. Lo dico forse in termini un po' troppo etici, ma veramente in Siria io ho incontrato il paese del Male. Sono riuscito a chiamare a casa solamente per 20 secondi, dopo quell'urlo disperato che ho sentito dall'altra parte, la linea è caduta.
La prigionia
Ci tenevano come animali, costretti in piccole stanze con le finestre chiuse nonostante il terribile caldo, gettati su dei pagliericci, ci davano da mangiare i resti dei loro pasti. Nella mia vita, nel mondo occidentale, non ho mai provato cos'è l'umiliazione quotidiana nelle cose semplici come il non poter andare alla toilette, il dover chiedere tutto e sentirsi sempre dire no. Credo che c'era una soddisfazione evidente in loro nel vedere l'occidentale ricco ridotto come un mendicante, come un povero.
I tentativi di fuga
La prima volta, il nostro custode probabilmente quella sera si era addormentato, siamo usciti dalla casa e ci siamo diretti verso delle luci,pensavamo fosse AlQusayr. Dopo duecento metri ci hanno ricatturati. La seconda volta invece, eravamo in un'altra località, nell'ultimo periodo della nostra detenzione. Abbiamo approfittato della distrazione di questi quattro ragazzi, che la sera spesso non badavano alle loro cose, ai loro giubbotti con i caricatori, ai kalashnikov, abbandonati vicino alla nostra stanza. Abbiamo preso due granate, pensando di utilizzarle per aprirci la strada. Le ho nascoste sotto un sofà distrutto. Pensavamo di sorprenderli, prender loro un telefonino, telefonare a casa, in Italia, per farci guidare in questa fuga. Purtroppo, o per fortuna, perché credo che un simile tentativo mi avrebbe creato enormi problemi morali, la cosa non è andata in porto. Ma una sera non hanno chiuso con la catena la porta della casa, siamo usciti, dopo aver preso i due kalashnikov, siamo fuggiti verso il confine di Bab al Hawa. Conoscevo quella zona, perché ci ero stato a gennaio.
Ridotto a merce Ci siamo nascosti in una specie di rudere nella campagna. Abbiamo cercato di attraversare il confine di notte, ma abbiamo scoperto che c'erano i campi minati. Siamo arrivati fino al filo spinato e siamo dovuti tornare indietro. Abbiamo fermato un'auto col kalashnikov, abbiamo chiesto al guidatore di portarci in un villaggiolì vicino. Ma c'era un posto di blocco.Ci hanno sparato, fermato e riportato verso la casa dove ci tenevano e ci hanno consegnato ai carcerieri per punirci. Ci hanno chiuso in una specie di sgabuzzino con le mani legate dietro la schiena, quasi incaprettati e ci hanno tenuti così per tre giorni. Il nostro valore era quello di una mercanzia. Non si può distruggere la mercanzia, se no si rischia di non ottenere più il suo prezzo. E ti senti veramente come un sacco di grano, un oggetto che vale in quanto vendibile. Ti possono prendere a calci ma non ti possono ammazzare perché se ti guastano troppo, o definitivamente, non ti possono più vendere. È l'orribile legge dell'ostaggio.
Le cose semplici della vita
Una volta ho parlato con Georges Malbrunot, giornalista del «Figaro» che è stato forse uno dei più celebri ostaggi, molti anni fa, durante la guerra Iraq-Iran. Credo che sia stato ostaggio quattro mesi, in condizioni forse addirittura peggiori delle mie, in una grotta. E raccontava questa depauperizzazione di tutto ciò che uno è, che sono le scarpe, i vestiti... Io sono stato cinque mesi senza scarpe, camminando a piedi nudi. Per cinque mesi il mio ritmo di vita è diventato il sole che spunta e il sole che tramonta. E poi l'impossibilità di fare tutte le cose che costituiscono la vita: camminare, muoversi, incontrare altre persone, scrivere leggere, guardare il paesaggio, sognare di fare delle cose che poi magari non fai, che sono il tuo modo di vivere. Io per cinque mesi ho vegetato, nel senso stretto della parola, cinque mesi in cui mi è stata succhiata la vita ed è stata sostituita con qualche cosa di artificiale, che è essere un oggetto e lottare contro il tempo. Ho imparato il carattere straordinario di alcune cose semplici, come un bicchiere d'acqua fresca. E poi vedere il sole, perché le finestrelle erano piccole e spesso c'era l'oscurità totale. Camminare, parlare con qualcuno che non fosse sempre questo mio compagno di sventura. E meno male che c'era, perché altrimenti sarei impazzito.
I carcerieri Erano di un gruppo che si professa islamista ma in realtà è formato da giovani sbandati che sono entrati nella rivoluzione perché la rivoluzione oramai è di questi gruppi che sono a metà tra il banditismo e il fanatismo. Seguono chi gli promette un futuro, gli dà le armi, la forza, gli versa il denaro per comprarsi i telefonini, computer, vestiti. Le Adidas sono estremamente diffuse in Siria, tutti hanno magliette Adidas, scarpe Adidas, sembra una specie di sponsorizzazione. Questi ragazzi vivono una vita di maschi, senza femmine, comunitaria in cui non fanno nulla e passano la giornata sdraiati sui materassi a bere mate. Credevo fosse una cosa sudamericana invece è estremamente diffuso in alcune zone della Siria. E fumano Marlboro originali americane che fanno arrivare dalla Turchia. Io sembravo più islamista di molti di loro perché non fumo e non bevo. E guardavano la televisione ma l'informazione era l'ultima cosa che gli interessava. Solo filmetti vagamente osé della televisione del Qatar o vecchi film egiziani sentimentali degli anni 50 in bianco e nero o gare di lotta, il wrestling americano oppure una terribile forma di lotta praticata nei paesi arabi in cui tutto è permesso...
Le finte esecuzioni
Per due volte hanno finto di mettermi al muro. Eravamo dalle parti di Al Qusayr. Uno si è avvicinato con la pistola e mi ha fatto vedere che la pistola era carica poi mi ha detto di mettere la testa contro al muro, mi ha avvicinato la pistola alla tempia. Lunghi momenti in cui ti vergogni... io mi ricordo la finta esecuzione di Dostoevskij... ti viene una rabbia perla paura che hai, senti che l'uomo che è vicino a te respira, trasuda il piacere di avere nelle sue mani un altro uomo e sentire che tu hai paura, e ti viene la rabbia perché tu hai paura. È un po' come quando i bambini, che sono spesso terribilmente crudeli, strappano la coda alla lucertola o le zampe alle formiche. La stessa ferocia terribile.
Le trattative Per ridere di noi i nostri carcerieri ogni tanto ci dicevano «due o tre giorni, una settimana, e poi via liberi in Italia» per vedere poi la nostra disperazione... perché aggiungevano una parola... Inshallah... che è il loro modo di mentire senza avere il senso di mentire, inshallah, è successo... Dicevano continuamente «bukrah» che vuole dire domani... poi l'indomani non partiva nessuno. Un gioco veramente crudele, ma negli ultimi tempi quando ci dicevano così noi a nostra volta rispondevamo: «inshallah...» per far capire che avevamo capito. Alla fine, domenica, ho sentito che sarebbe stata la volta buona. Forse per bruciare le piste, abbiamo praticamente attraversato tutto il paese, fin quasi a Deir Azor, nel grande deserto siriano. Ci siamo fermati in una città di cui non saprei dire il nome e poi siamo tornati indietro rifacendo la stessa strada. Una sorta di depistaggio. E poi siamo stati liberati. E questa volta non era Inshallah. Ci hanno fatto scendere dalle macchine dall'altra parte del confine, dicendo di camminare. Confesso di aver pensato che ci avrebbero sparato nella schiena, era buio, era notte, domenica dopo il tramonto. Ho pensato che se avessi sentito il rumore del caricatore mi sarei buttato per terra. Ero sicuro che mi avrebbero eliminato, avevamo visto le loro facce, sapevamo i loro nomi. E invece nessuno ha caricato il kalashnikov. E poi ho sentito voci italiane. Inshallah, questa volta era la volta buona.
I libri
Io viaggio sempre con i libri, piuttosto rinuncio a tre ricambi di magliette. Questa volta ne avevo quattro. Due libri di un autore che sciaguratamente oggi è stato dimenticato, Erich Maria Remarque, due opere forse un po' minori «Tempo di vivere, tempo di morire» e «La via del ritorno» che è la storia del ritorno di alcuni reduci tedeschi alla fine della prima guerra mondiale. Un po' il simbolo anche della mia via del ritorno che non riuscivo a trovare. Norman Mailer, «Il nudo e il morto» e poi «Delitto e castigo» di Dostoevskij. Li ho letti e riletti. Posso raccontare tutti i personaggi, recitarli all'indietro. Li ho portati dietro di me con fatica perché pesavano, ho marciato con loro per due notti e per due giorni durante la ritirata di Al Qusayr. Me li hanno sequestrati l'ultimo giorno. I libri ti parlano. Ma per un certo periodo non mi hanno parlato più, scorrevano le parole, le storie i personaggi... Se farò altri viaggi del genere mi porterò sempre la «Recherche» di Proust, il «Don Chisciotte», libri lunghi, molto lunghi... aiuta.
La fede
In tutta questa esperienza c'è molto Dio. Pierre Piccinin è un credente. Io sono un credente. La mia è una fede molto semplice, la fede delle preghiere di quando ero bambino, dei preti che quando andavo a trovare mia nonna in campagna incrociavo mentre raggiungevano in bicicletta delle piccole parrocchie con gli scarponi da operaio e la borsa attaccata alla canna della bici, e portavano estreme unzioni, benedivano le case, con la fede dei preti di Bernanos, semplice ma profonda. La mia fede è darsi, io non credo che Dio sia un supermercato, non vai al discount a chiedere la grazia, il perdono, il favore. Questa fede mi ha aiutato a resistere.È la storia di due cristiani nel mondo di Maometto e del confronto di due diverse fedi: la mia fede semplice, che è darsi, è amore, e la loro fede che è rito. Avevo anche un mio bloc notes e ogni giorno segnavo ciò che succedeva.L'avevo quasi finito, mancavano due pagine. L'ultimo giorno me l'hanno preso. Mi è servito soprattutto a tenere il conteggio dei mesi, dei giorni,perché se uno perde il senso del tempo affonda in un pozzo da cui non esce più.
lunedì 9 settembre 2013
un colpo di spugna
C'è qualcosa di misterioso nell'ossessione di aprire una crisi. Far cadere il governo e andare alle elezioni (ammesso che al voto si vada) non cambierà di un millimetro la situazione giudiziaria di Berlusconi. Il 15 ottobre la condanna diventerà operativa con la scelta tra arresti domiciliari e affidamento ai servizi sociali. Poco dopo arriverà la Corte d'appello che ricalcolerà gli anni di interdizione dai pubblici uffici. Non c'è nessuno, in uno Stato di diritto, che possa ragionevolmente pensare che tutto ciò si possa cancellare con un colpo di spugna prima dell'esecuzione della sentenza e senza che l'ex premier ne prenda atto.