domenica 27 aprile 2014

intervista a Diego Fudaro di filosofico.net




Diego Fusaro, ricercatore in Storia dellaFilosofia presso l'Università San Raffaele, è uno studioso di Marx, di Hegel e della tradizione dell'idealismo italiano. Oltre ad aver creato a 16 anni il sito Filosofico.net, il più cliccato per il settore, ha scritto libri importanti come "Bentornato Marx", "Minima Mercatalia", "Essere senza tempo", "Idealismo e prassi. Fichte, Marx e Gentile" ed è segretario delle due collane di filosofia Bompiani "Testi a fronte" e "Il pensiero Occidentale" dirette da Giovanni Reale.


L'Italia e la crisi. C'è un aspetto tipicamente italiano nell'affrontare una crisi economica che fa impallidire quella del '29?

La crisi che stiamo vivendo non è, ovviamente, solo italiana. Personalmente, ritengo che l'aspetto più drammatico dell'odierna crisi globale stia nel fatto – del tutto coerente con le logiche di sviluppo del capitalismo post-1989 – che essa non venga percepita e affrontata come un prodotto storico e sociale, ma come un fenomeno naturale inemendabile, come un terremoto che non abbiamo prodotto e da cui non possiamo salvarci. Ciò vale a maggior ragione in Italia, dove la crisi è vissuta come l'analogon della peste dei Promessi sposi: lungi dall'essere considerata l'esito delle politiche neoliberali, la crisi è presentata dall'ordine del discorso dominante come una realtà minacciosa e indipendente dall'agire umano, un flagello naturale da cui – in attesa che cessi così come è iniziato – è possibile salvarsi unicamente in forma individuale, in coerenza con l'odierno individualismo trionfante.


Gramsci parlava di "cretinismo economico". È questa una delle malattie italiane? La finanza che detta le leggi alla politica?

È una malattia, certo, ma non solo italiana. È la patologia tipica dell'era della tecnica capitalistica e della sua "immagine del mondo", incentrata – come sapeva Heidegger – sulla riduzione dell'essente a pura quantità calcolabile, misurabile e illimitatamente sfruttabile. Gramsci come Gentile – i due più grandi filosofi italiani del '900 – ci insegnano che la realtà non coincide con una fredda somma di dati oggettivi che chiedono di essere asetticamente registrati dal pensiero calcolante, cifra dell'odierno "cretinismo economico". Al contrario, è la risultante di una costruzione e di una mediazione simbolica operata dalla coscienza umana che si determina storicamente: è l'esito di un fare soggettivo che può sempre da capo essere trasformato, con buona pace della mistica della necessità oggi dominante sotto il cielo. La finanza come espressione del monoteismo del mercato e del fanatismo dell'economia segna il trionfo di quest'oblio dell'uomo e della cultura, ma poi anche del senso della possibile trasformazione socio-politica dell'esistente.


Come giudica lo stato della scuola e dell'università italiane?

Anche in questo caso, la situazione è tragica, ma non seria. Nella notte del mondo propria del fanatismo dell'economia, tutto è ridotto al rito del consumo e dello scambio, alla fanatica liturgia della circolazione senza misura. Non vi si sottrae nemmeno più la scuola. Valutati secondo un demenziale sistema di "debiti" e "crediti", gli studenti delle scuole secondarie siano oggi ministerialmente definiti "consumatori di formazione"; i presidi sono sviliti a manager d'azienda, e la lingua greca è sostituita da una orwelliana neo-lingua, l'inglese non di Wilde e di Shakespeare, ma dello spread e della spending review. Ciò segnala l'avvenuta riduzione, in forma compiuta, dell'umano a merce, della nuda vita a funzione variabile della logica mercatistica. Mai prima d'oggi la forma merce si era elevata a mezzo di comunicazione totale di una cultura.


Nel mondo globale la cultura italiana sembra marginalizzata. Colpa della globalizzazione o dell'Italia?

Colpa di entrambe, direi. Della globalizzazione, giacché essa consiste non certo in un pacifico universalismo che diffonde la cultura e le tradizioni diverse, ma in una perversa logica di reductio ad unum, con cui la pluralità linguistica e culturale dei popoli viene annientata in nome dell'unico profilo globalizzato del consumatore. Ciò è la negazione perfetta della cultura, dato che quest'ultima esiste solo là dove vi siano almeno due culture che dialogano e si relazionano. Ma poi è anche colpa dell'Italia, giacché – Gramsci docet – ha da sempre, inscritta nelle sue radici, una vocazione cosmopolitica e non nazionale della cultura: vocazione che oggi culmina nell'osceno oblio della lingua nazionale, sostituita da indecorosi inviti a parlare in inglese; ma poi anche nella vergognosa rimozione degli autori e dei pensatori della tradizione italiana: chi studia ancora, ad esempio, i grandi CroceGramsci e Gentile?


La corruzione è un cancro del paese. Da cosa dipende la mancanza di senso dello stato e di senso etico da parte degli italiani?

Da molteplici fattori, temo. È difficile per me giudicare l'Italia e gli Italiani, poiché io stesso sono italiano: e, per inciso, sono fiero di esserlo. Provo un disprezzo totale per chi (a destra come a sinistra) sta distruggendo l'Italia oggi, svendendola alla finanza europea e annientando la cultura italiana, di cui bisognerebbe invece essere fieri. Ad ogni modo, credo che la ragione principale della corruzione e dallo scarso senso statale ed etico del nostro popolo debba essere ravvisata non solo nel fatto che siamo pervenuti solo tardi a un'unità statale, peraltro più fragile rispetto a quella di altre realtà europee. Accanto a questo motivo, vi è quello – sia detto al di là di ogni troppo facile retorica – che abbiamo avuto le peggiori classi politiche di sempre.


A suo giudizio la presenza del Vaticano è negativa per lo sviluppo civile del paese? Giovanni Gentile, filosofo da lei studiato, era contrario ai Patti Lateranensi…

È una domanda difficile. In questo, resto hegeliano: la Chiesa dev'essere non sullo stesso piano dello Stato, ma sottomessa ad esso. E, tuttavia, la presenza del cristianesimo in Italia è, per molti versi, positiva: come insegna Gentile, là dove non arriva la filosofia, è giusto che arrivi la religione. Prova ne è, oltretutto, che, morto il marxismo, il solo oggi a farsi carico della questione sociale, se non altro a livello simbolico, è Papa Francesco: là dove la cosiddetta sinistra si è del tutto deproletarizzata (ha cioè abbandonato ogni interesse per gli ultimi e per i lavoratori), proprio mentre la società si è venuta sempre più proletarizzando, complici anche le oscene logiche del precariato. Se per laicità intendiamo il giusto riconoscimento della libertà di coscienza e delle sue conseguenze in ogni campo, allora io sono laico al cento per cento. Se per laicità intendiamo l'armata Brancaleone dei laicisti à la Odifreddi o à la Flores D'Arcais, che trasformano la laicità in un fronte integralista e fanatico nemico di ogni religione, allora non sono laico e credo anzi che il laicismo sia una patologia pericolosissima.


Lei è molto giovane. Cosa pensa dei giovani italiani?

Non penso affatto di essere giovane. Ho 30 anni, poco mi manca per essere "nel mezzo del cammin di nostra vita", come cantava il Poeta. L'ultracapitalismo flessibile e precario è per sua stessa natura "giovanilistico": se oggi si è considerati "diversamente giovani" fino a cinquant'anni, questo accade perché si è idealmente precari fino al termine della propria attività lavorativa sia nella vita sociale, sia in quella affettiva, incapaci cioè di stabilizzare la propria esistenza nelle tradizionali forme familiari (non a caso continuamente irrise come istituzioni borghesi del passato) e lavorative (il posto fisso e stabile, garantito e, dunque, tale da rendere possibile la stabile progettazione di un futuro). Con la grammatica di Marx, i giovani di oggi sono la prima generazione disintegrata nella struttura e integrata nella sovrastruttura: costretti al precariato e alle forme contrattuali più meschine, essi non oppongono resistenza all'esistente, accettandolo in forma irriflessa come una sciagura ineluttabile.


Ha fiducia nel futuro del nostro paese?

Con Gramsci, pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà. L'Italia versa attualmente nella situazione più tragica dal tempo di Attila ad oggi: il progetto criminale impropriamente detto "Europa" – sarebbe meglio chiamarlo "eurocrazia" – è il modo in cui la finanza sta distruggendo il nostro Paese amato dal sole e dal debito. Ma non tuttoè perduto. Siamo ancora in tempo per invertire la marcia e per riprenderci tutto. Il primo gesto da compiere è abbandonare l'euro e tornare alla sovranità nazionale. Ci vuole un moto d'orgoglio, occorre trovare la fierezza di essere italiani o, come diceva Gentile, "sinceramente zelanti di un'Italia che conti nel mondo, degna del suo passato".



giovedì 24 aprile 2014

Un padre amareggiato

Ho tentato di immaginare quale stile potesse esprimere al meglio la mia delusione ma non è garantito che ci sia riuscito.


Egregio Signor Giudice,


nella totale impossibilità di discutere con mia figlia, che ha cominciato ad evitare la casa dei genitori come la casa degli appestati, mi rivolgo a Lei che si imbatte quotidianamente nei casi più disparati e a volte, come spesso succede per le nostre umane avventure, piuttosto lancinanti, e rivolgo a Lei la mia richiesta di esaminare il caso di un padre sconcertato e deluso.


La ricerca della felicità ad ogni costo acceca e fa perder a tutti noi di vista le relazioni che abbiamo intessuto negli anni, tutti gli amici che abbiamo fatto salire a bordo, oltre a tutti quelli che sul treno c'erano già prima, e che hanno costantemente e diligentemente tenuto il treno sui binari.

Ebbene tutto questo la nostra ragione, folle di un desiderio momentaneo, è in grado di sovvertire.

Giunge, la nostra ragione, a voler far deragliare quel treno in movimento..

Ma tutto questo mi riporta alla vicenda di Esaù e Giacobbe.

Affamato dopo aver passato la giornata a girovagare e a trastullarsi Esaù trovò in casa il fratello Giacobbe ai fornelli, pronto a scodellarsi un gustoso piatto di lenticchie.

Ebbene Esaù per quel piatto di lenticchie vendette la sua primogenitura, che a quel tempo voleva dire rinunciare a tutti i beni paterni che avrebbe ricevuto da Isacco.

C'è da dire che Giacobbe era di certo un gran filibustiere e conosceva la balordaggine del fratello.

Un piatto di lenticchie per la primogenitura.

Adesso, Egregio Signor Giudice,

a me pare che altrettanto stia capitando a mia figlia, che ha deciso di approfittare di un piatto di lenticchie, e proseguendo anche con il primo paragone, ha intenzione di far deragliare quel treno su cui non è l'unica passeggera.

Mi viene in mente anche un evento recente, la scomparsa del Boeing 737 al largo dell'Australia, inabissato da un pilota che aveva fretta di raggiungere quella promessa coranica che fa riferimento alle vergini da possedere e ad un bel posto caldo.

Un pilota incurante che all'interno dell'aereo c'erano altri 238 passeggeri che non avevano alcuna intenzione di accodarsi al suo desiderio folle.


Sulle cause del deragliamento avrei molto da dire, ma forse ad un padre conviene tacere.


Una cosa mi è chiara: non intendo avallare né contribuire in alcun modo ad una scelta che considero inopportuna, scellerata.

E per meglio chiarire questa mia indisponibilità mi rivolgo a Lei e Le chiedo:

può un padre rinunciare alla patria potestà, visto che non serve a nulla e che non posso ragionare con mia figlia che non vuol sentire ragioni diverse?


Quello a cui non rinuncio è il bene dei miei nipotini. Credo in loro e di loro ho bisogno, e visto i gravi problemi sentimentali insorti tra i genitori, chiedo il loro affido.


Sperando di non averla infastidita Le invio i miei più cordiali saluti


un padre sconcertato e deluso


P.S.

Mi scusi ma non ho trovato un termine migliore di patria potestà per esprimere il mio disagio, ma so bene che non posso avvalermi di esso su una donna maggiorenne e con prole. Ma mi sembrava adatto ad esprimere la mia delusione ed amarezza.

 

venerdì 18 aprile 2014

I mercati e la vita umana

La tragedia attuale, quella che condanna milioni di persone in carne ed ossa ad una vita di stenti ed inquietudini, viaggia sulle ali di un dogma di fede che tutti i peggiori lestofanti  in forza al mainstream ripetono in coro (e a pagamento): i mercati non capirebbero. Prima di approfondire l'effettivo grado di empatia che i suddetti mercati provano nei confronti dei comuni mortali, sarebbe forse il caso di sciogliere un paio di oscuri enigmi raramente meritevoli di seria e puntuale trattazione: 1) Chi cazzo sono "i mercati"? 2) Per che cazzo la mia vita deve dipendere dagli umori degli stessi? Difficilmente troverete mai un giornalista disposto ad avanzare in diretta domande di questo tipo al cospetto di politicanti alla Matteo Renzi o di soloni illuminati alla Sergio Romano. 

Nel caso lo facessero, infatti, correrebbero il concreto rischio di assistere al noto rito dello "stracciamento delle vesti" già in voga fin dai tempi di Caifa. Tutti sanno che discutere il dogma significa abbracciare la strada dell'eresia, dell'empietà e della perversione. Ma siccome noi de Il Moralista sappiamo che solo i grandi peccatori possono trasfigurarsi in grandi santi,  proseguiamo dritti per la nostra strada sprezzanti del pericolo. Quindi, ricapitolando, chi sono questi benedetti  "mercati"? Proviamo a fare luce nelle tenebre usando il ragionamento.

Considerato che l'ambizione massima che ci unisce e ci conforta è quella di vedere i mercati finalmente "rassicurati", è plausibile ritenere con ragionevole certezza due cose: che i mercati provano sentimenti, e che i mercati agiscono su base razionale. Ora, queste due attitudini mal si conciliano con l'alone di neutra freddezza che accompagna la pubblica rappresentazione dei "mercati". Il patos, l'inquietudine, la speranza, la fiducia e così via sono categorie che attengono perlopiù alla dimensione degli uomini. Ma, guarda caso, chi utilizza strumentalmente lo spauracchio del mercato inquieto non correda mai la contrita denuncia di nomi, sigle o volti. Perché? Perché un dioscuro fintamente immateriale induce nel popolino un rispetto atavico e ossequioso, identico a quello che consigliava alle popolazioni primitive di esperire periodici sacrifici nella infantile e sciocca speranza di rabbonire divinità capricciose e imperscrutabili. Chi non ha paura dell'ira degli dei dell'olimpo, però, dovrebbe quindi preliminarmente sforzarsi di tradurre in termini più visibili e terreni il concetto stesso di "mercati". Uscendo dal mythos, la prima cosa pratica che mi viene in mente riguarda la necessità dello Stato italiano di piazzare i titoli sul mercato. Da quali soggetti è composto questo mercato di potenziali acquirenti? Da Bce, Banca d'Italia, assicurazioni, investitori esteri e famiglie (clicca per leggere). Quindi è ora possibile dare un volto più preciso ai fantomatici mercati, termine generico che racchiude una molteplicità di soggetti potenzialmente interessati all'acquisto di titoli. Bene, a questo punto  riflettiamo sulla bontà o meno delle fesserie più in voga del momento.

Fesseria numero 1: "Se i titoli restano invenduti a causa della mancata fiducia che i mercati nutrono nei confronti dello Stato che emette i titoli si rischia la catastrofe". Fesseria numero 2: " Il consolidamento fiscale e le riforme strutturali rappresentano l'unico modo per rassicurare i mercati circa la solvibilità dello Stato che emette titoli". Decidere di affidare le sorti di uno Stato sovrano ai capricci di sceicchi, tecnocrati, banchieri d'affari o speculatori di professione è una scelta politica, mai una necessità. Nelle tavole di Mosè tale argomento non è infatti trattato. Fino al 1981 in Italia il Tesoro era tutt'uno con la Banca d'Italia, per cui lo Stato provvedeva in autonomia a finanziare direttamente la sua spesa, senza dover andare in giro per il mondo a mendicare un piatto di lenticchie. Anche l'odierna Bce, in presenza di volontà politica, avrebbe potuto fare nel recente passato simili operazioni.

Non le ha fatte sapendo che solo per il tramite della "sofferenza" e della "paura" (Padoan docet) i popoli si sarebbero infine rassegnati ad accettare l'erosione continua e violenta di salari, stato sociale e diritti. Tutto chiaro? Nuova questione. Quando Letta prima e Renzi ora vanno in giro nelle capitali finanziarie del pianeta a chiedere ai magnati globali di investire nell'Italia che accelera sulla strada del cambiamento, secondo voi, di quale tipo di messaggio si fanno  interpreti e corifei? Ve lo dico io. Di quello che affibbia al capriccio del privato il compito di assicurare una qualità di vita dignitosa ai milioni di disoccupati volutamente creati, confinando il ruolo dei pubblici poteri all'interno di un angusto recinto fatto di complicità e irrilevanza. Per figuri come MontiLetta e Renzi, il compito principale della politica consiste nel lisciare il pelo ai plutocrati. Gli stessi che, da decenni a questa parte, chiedono, pretendono e ottengono sempre le stesse cose: taglio dei salari, precarietà, niente welfare e niente diritti. Le istituzioni pubbliche sono occupate militarmente da uomini che perseguono interessi privati e  privatissimi (tutti poi ricompensati a fine mandato con ruoli e incarichi presso quelle banche o aziende che hanno mellifluamente prima servito).

In conclusione è ora possibile rispondere pure alla seconda domanda formulata in apertura di articolo: Per che cazzo la mia vita deve dipendere dagli umori dei mercati? Perché non mi sono preso la briga di leggere, di capire, di studiare e di contestare i falsi e miserabili sicari dell'informazione che per interesse e meschinità obnubilano anche la mia mente. Aprite gli occhi, unitevi ed organizzatevi. Chi è causa del suo mal pianga se stesso.