lunedì 23 aprile 2018

le nostre maschere e l'io strutturante

shadow

«Non ho mai avuto un passeggero così simpatico»: il tassista che ha appena riaccompagnato un paziente scappato per un giorno intero dal proprio ospedale psichiatrico risponde così a uno dei medici. Il signor William Thompson gli ha raccontato storie piene di avventure: «Sembrava che fosse stato ovunque, avesse fatto di tutto, incontrato tutti. Stentavo a credere che in una sola vita si potessero fare tutte quelle cose». Il dottore risponde: «Non è esattamente una sola vita. É una questione d’ identita». Così racconta il neuropsichiatra Oliver Sacks, in un capitolo del suo L’Uomo che scambiò sua moglie per un cappello, parlando di un paziente affetto dalla sindrome di Korsakov che, provocando la perdita continua della memoria, lo costringe a inventare se stesso in ogni situazione. Il carnevale di identità è il salvagente per non annegare nella totale dispersione e disperazione: “privato di continuità, di un racconto interiore calmo e ininterrotto, egli e spinto alla frenesia narrativa. Il mondo scompare continuamente, perde significato, e lui deve costruire un senso, disperatamente, inventando di continuo, gettando ponti sul caos che si spalanca incessantemente sotto di lui”.

La grave patologia raccontata da Sacks fa emergere cosa significhi essere qualcuno: possedere un racconto che abbia una continuità nella molteplicità di eventi e compiti della vita. Il paziente per salvarsi dal continuo naufragio di memoria deve inventare, per ogni situazione in cui interagisce con gli altri, un io provvisorio, perché, continua Sacks: “ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un «racconto», e questo racconto è noi stessi, la nostra identità”.
Il sé non è un guardaroba di identità da scegliere e indossare a piacimento, ma il fondamento dell’esistenza. Se non vogliamo impazzire, abbiamo bisogno di una vita interiore, che dia continuità e quindi senso al nostro navigare nel mare del tempo, tra tempesta e bonaccia. Ulisse ha sconfitto il Ciclope fingendo di chiamarsi Nessuno, ma lo ha fatto proprio perché sapeva chi era e dove andava.

Tutto questo mi ha ricordato la lettera che ho ricevuto di recente da una donna diventata cieca. Mi raccontava dell’effetto “curativo” di un libro ascoltato, in un parco, dalla voce di chi la ama: “da adolescente fuggivo dal caos domestico per andare a leggere negli angoli nascosti del quartiere. Frequentavo il liceo e vedevo già pochissimo dall’unico occhio che rimaneva acceso. Sottolineavo pesantemente i libri con colori forti, per ritrovare facilmente le righe preferite. Mi diplomai con le scuse dei docenti: neanche un insegnante mi aveva aiutato, non esisteva neanche il sostegno… Fu bello vincere la mia prima vera battaglia grazie all’amore smisurato per i libri che fin da bambina fondarono le basi della mia resilienza. Mentre ascoltavo il libro ho ritrovato il filo di continuità con me stessa, il filo che ho perso tre anni fa, quando quasi allo scadere del tempo possibile, la natura ha fatto dono a me e al mio meraviglioso compagno di un bambino che, in modo imprevedibile, ha spezzato la blindatura della mia anima, in cui già suo padre aveva lasciato una breccia. Per anni ho detto che non volevo diventare madre. I bambini mi piacevano tantissimo, ma consideravo disdicevole dare una madre cieca a un figlio. La mia naturale inclinazione alla cura era più che saziata dalla mia professione di psicologa. Diventata cieca dopo la laurea e la specializzazione, riuscivo a condurre una vita felice, in cui un figlio poteva solo scombinare l’equilibrio raggiunto con tanta fatica. Il giorno che è nato il mio bambino pensavo di morire. Temendo di non avere il tempo di potergli dare abbastanza, quando me lo hanno messo vicino gli ho cantato una canzone. Volevo lasciargli almeno la mia voce. Pensavo di non essere capace, di non voler fare la madre e invece mi sono innamorata di mio figlio, non certo del ruolo. Leggendo (pardon ascoltando!) le pagine del libro, ho ri-contattato, o mi sono ri-connessa (come si dice oggi), alla studentessa fiduciosa che i suoi desideri si sarebbero avverati. Ho ritrovato il filo di continuità. Sento di non aver tradito me stessa”. Questa donna è riuscita a riconnettersi con la protagonista della propria vita che le consente di dire “io”, di avere una continuità narrativa, di dare senso a tutto, anche ciò che sembra non averne o scompagina la vita come un terremoto.

Oggi si parla molto di poter scegliere e cambiare la propria identità a piacimento, come punto di arrivo di una libertà totale. Credo che questo, invece di renderci più liberi, ci renda più manipolabili e soggetti a dipendenze: chi non sa chi è ha bisogno di farselo dire da altri, adeguandosi a situazioni e aspettative, in una specie di sindrome di Korsakov esistenziale. Al contrario di Ulisse rischiamo di essere Nessuno e di doverci inventare tanti “Qualcuno” per non sparire. Giocare a fare i grandi quando si è bambini, e poi elaborare la propria identità da adolescenti, sono modi di esplorare il mondo e se stessi, proprio di chi, essendo in formazione, cerca la forma della vita. Ma da adulti non è libero né maturo chi è informe, lo è invece chi possiede un’identità narrativa, cioè dinamica, che non comporta un irrigidimento incompatibile con il nostro essere nel tempo, ma non è per questo liquida, fittizia o sperimentale. L’identità narrativa è una struttura antisismica, capace di accogliere i terremoti della vita e farli propri: più è profonda ed elastica, più è resistente. La nostra identità è elaborata grazie ai ruoli che riceviamo o assumiamo in rapporto al mondo e agli altri, l’io profondo li accoglie e unifica dentro di sé per strutturarsi con sempre maggiore naturalezza, senza per questo doversi reinventare nelle varie circostanze come il paziente smemorato di Sacks. L’identità non coincide con i ruoli, anche se i ruoli la strutturano: io posso dire che “faccio l’insegnante” e quindi anche che “sono insegnante”, ma se smettessi di insegnare non cesserei di essere “io”, perché la mia identità è più in profondità rispetto a ciò che faccio, cosa che mi difende dal dare valore alla mia vita in base alle prestazioni o ai ruoli. La vita mostra il suo valore proprio quando è nuda.

Qual è allora il fondamento della continuità dell’io, il filo della fedeltà a se stessi? Che cosa mi consente di dire “io sono io”? La donna della lettera rinviene la sua continuità con l’adolescente battagliera aperta al futuro, una continuità che si è strutturata grazie agli studi, alla cecità, alla maternità, che ha saputo interiorizzare. Non si è disciolta nei ruoli o nelle situazioni, proprio perché lei vive più in profondità. Ricordo un conoscente, talmente identificato con la sua professione, che, venuto meno il ruolo, era smarrito, come se smarrita fosse la sua stessa identità: non aveva più niente da raccontare. Non c’era il sé profondo, disperso in io provvisori, tenuti su da impalcature che la vita con i suoi terremoti spesso spazza via. Il sé profondo è un racconto che emerge nei momenti di silenzio o in quelli dedicati alle relazioni essenziali: vita interiore e relazioni vere (di famiglia, d’amore e d’amicizia) ci garantiscono la continuità narrativa e ci riparano dall’io-prestazionale. Chi ci dice “ti amo” o “ti voglio bene”, ci dice “vai bene così”, a prescindere da ciò che fai o appari, e ci riconnette a noi stessi. Vita interiore e relazioni sane strutturano il sé, come accade alla donna che ascolta un libro, nella quiete di un parco, dalla voce di chi la ama. Si riconnette al sé protagonista dell’intera storia, e si riconosce fedele a se stessa, e trova pace. Qualcosa che a volte accadeva persino al paziente di Sacks: “tutti i nostri sforzi per «ri-connettere» William falliscono, o addirittura accrescono la sua urgenza di confabulare. Ma quando lo lasciamo tranquillo, a volte va a passeggiare nel giardino che circonda la clinica, e lì ritrova la pace. La presenza degli altri lo costringe a un vero e proprio delirio di creazione e ricerca di una identità; la presenza delle piante, la quiete del giardino, con il suo ordine, fanno sì che il delirio d’identità possa placarsi, offrendogli (su un piano sottostante o trascendente) una profonda comunione con la Natura stessa, e con questo gli restituiscono il senso di essere nel mondo, di essere reale”.

Quell’essere reali impossibile ai personaggi della fortunata serie La casa di carta: prigionieri e banditi indossano tutti la medesima tuta rossa e una sardonica maschera di Dalì. Non è più possibile attribuire un’identità a nessuno, sequestrati e sequestratori sono ridotti a maschere che impediscono alla polizia di intervenire. Il letto da rifare di oggi è quello della nostra identità narrativa. Quale storia possiamo raccontare a noi e al mondo? A cosa corrisponde il nostro io antisismico? A maschere che ci impediscono di essere fedeli a noi stessi e agli altri di riconoscerci? Prima o poi le maschere cadranno e la vita nuda chiederà il conto, anzi chiederà il racconto. A ciascuno il suo.

Multietnicità e multiculturalismo

È la punta dell’iceberg. A volte alcuni episodi diventano oggetto di attenzione mediatica. Sono, verosimilmente, spie di cambiamenti diffusi, molecolari, quotidiani, che tendiamo per lo più ad ignorare. Si prenda il caso dei responsabili dell’ospedale di Parma che trasferiscono un’anziana assistita dal nipote per darla vinta a una islamica che non accetta la presenza di un uomo nella stanza in cui è ricoverata. Oppure il caso di coloro che, a Savona, coprono una statua per compiacere un gruppo di musulmani che sta per riunirsi in una sala. Non si tratta di folklore, forme di stupidità fastidiose ma innocue. Anticipano scenari che, in capo a pochi anni, potrebbero diventare drammatici. Tre domande meritano di essere poste. La prima: il passaggio dalla multietnicità (uno stato di fatto, in sé neutro: né buono né cattivo) al multiculturalismo (una seria minaccia per la democrazia) è inevitabile? La seconda domanda è una articolazione della prima: è possibile difendere la società aperta, o libera, dall’azione di minoranze culturali che le sono ostili senza sopprimere, mentre si cerca di difenderla, la società libera medesima? La terza domanda è: sarà possibile convincere gli italiani ad affrontare senza isterismi antistranieri ma anche facendo il contrario di ciò che si è fatto a Parma o a Savona, il difficile problema della convivenza fra immigrati extraoccidentali e noialtri indigeni?

La multietnicità non è in linea di principio incompatibile con la democrazia. Guidata nel modo giusto può anche infonderle vitalità mettendo i suoi cittadini a contatto con esperienze che in precedenza non conoscevano. In ogni caso, gli ostili alla multietnicità devono darsi pace: una società che ha scelto di non fare più figli non ha altri canali per alimentare la propria forza-lavoro o per mantenere la sua crescente popolazione anziana. Ma se la multietnicità è o può essere un’opportunità, diventa una minaccia se gli indigeni sono così sprovveduti, stupidi o sbadati da accettare che su di essa cresca la mala pianta del multiculturalismo. Il multiculturalismo è una situazione nella quale, di diritto o di fatto (per l’affermazione di nuove usanze), si accetta che l’insieme dei cittadini venga segmentato, diviso lungo le barriere che separano le diverse tradizioni culturali. Si afferma una disparità di trattamento: per i diversi «segmenti» valgono regole diverse, coerenti con le rispettive usanze. La formale uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge viene dapprima neutralizzata di fatto e, in seguito, anche di diritto (in virtù di adeguamenti normativi alla situazione di fatto).

Non è difficile ritrovarsi in un «incubo multiculturale». È sufficiente che nei vari luoghi — dagli ospedali alle scuole agli uffici pubblici e privati — le domande di trattamenti speciali, in deroga, da parte delle minoranze culturali vengano accolte, un giorno qua e il giorno dopo là: il trattamento speciale, una volta concesso, diventerebbe, dal punto di vista della minoranza, un diritto, e i tentativi di revocarlo incontrerebbero dure resistenze. Nascerebbero controversie giudiziarie e non è impossibile che esse sfocino in sentenze volte a riconoscere il suddetto diritto. Ed ecco la società multiculturale, la frantumazione della cittadinanza, la fine dell’uguaglianza formale di fronte alla legge, l’affermazione di diritti speciali e diversità di trattamento a seconda del gruppo culturale di appartenenza.

Chi crede che quanto sta accadendo oggi in Belgio non ci riguardi è un incosciente. Il partito islamico, che si presenterà alle prossime elezioni amministrative, punta ad introdurre formalmente (di fatto, nei quartieri islamici è già operante) la sharia, la legge islamica, cominciando simpaticamente dall’idea di mezzi pubblici di trasporto separati per uomini e donne. Fin qui ho parlato dei rischi del multiculturalismo ma gli esempi negativi che ho citato hanno tutti a che fare con la presenza islamica. Benché problemi di vario genere sorgano anche in rapporto alle attività di altre minoranze, è quella presenza all’origine delle difficoltà maggiori.

Non sto alludendo al tema della radicalizzazione pro jihad di giovani islamici (un problema speciale all’interno di un problema più generale). Mi riferisco alla delicata questione della convivenza — impossibile per i pessimisti, comunque difficile per gli ottimisti — fra comunità islamiche e democrazia occidentale. Il problema, nella sua potenziale drammaticità, è semplice. La società libera si fonda sul principio della separazione fra politica e religione, fra economia e religione, eccetera. Ma nell’Islam queste separazioni non hanno senso. Il che spiega perché le moschee (a differenza delle chiese) non siano soltanto luoghi di culto. Ne deriva una tensione inevitabile fra società aperta e comunità islamiche. È plausibile, come molti pensano, che la compatibilità fra Islam europeo e società aperta si realizzerà solo se e quando, un giorno, le donne musulmane, influenzate dall’individualismo occidentale, riusciranno a imporre l’abbandono di vecchie regole e principi.

Fino ad allora bisognerà stare in guardia, essere consapevoli che si sta maneggiando materiale radioattivo: non bisognerà cedere alle richieste degli (fin troppo visibili) esponenti fondamentalisti delle comunità islamiche, bisognerà favorire solo i musulmani che abbiano già maturato un atteggiamento favorevole per le libertà occidentali, non bisognerà permettere, per eccesso di zelo, deroghe alle regole della nostra convivenza quotidiana. Si riuscirà a «educare» gli italiani? Si riuscirà a impedire che per un misto di ignoranza, opportunismo e desiderio di quieto vivere, passo dopo passo, permettano l’affermazione di principi incompatibili con la democrazia occidentale? Serve una buona dose di ottimismo per crederlo.

mercoledì 11 aprile 2018

Saraceni e il suicidio di una studentessa

Per quanto mi riguarda, la giornata delle lauree è un giorno di lavoro non meno faticoso e stressante di altri. I candidati devono essere attentamente ascoltati, interrogati e valutati. I voti devono essere discussi, spesso anche lungamente, con una commissione di colleghi che non sempre hanno le stesse idee, la stessa sensibilità culturale o lo stesso identico orientamento in tema di voti.

Eppure, la giornata delle lauree per me è anche una giornata gioiosa. Guardando il volto dei genitori, degli amici, dei parenti accorsi per sostenere e supportare il proprio candidato, partecipo volentieri della loro felicità, ne percepisco l'orgoglio e l'emozione. Mentre il candidato parla, sono tesi come corde di violino, attenti ad ogni singola parola, con gli occhi lucidi e lo sguardo fiero. Dopo, si lasciano andare ai festeggiamenti, con tanto di cori e coriandoli.

La giornata delle lauree celebra la maturazione, la fatica e l'impegno dei nostri studenti. Ha il sapore della speranza nel futuro.

A queste cose ho pensato ieri, quando letto che una ragazza di Napoli, il giorno delle lauree, è salita sul tetto dell'Ateneo e si è lanciata nel vuoto: aveva detto a parenti ed amici che quel giorno si sarebbe laureata, ma non aveva completato il ciclo di studi.

L'Università non è una gara, non serve per dare soddisfazione alle persone che ci circondano, non è una affannosa corsa ad ostacoli verso il lavoro.

Studiare significa seguire la propria intima vocazione.

Il percorso di studi pone lo studente davanti a se stesso.

Cerchiamo di spiegarlo bene ai nostri ragazzi. Liberiamoli una volta per tutte dall'ossessione della prestazione perfetta, della competizione infinita, della vittoria ad ogni costo.

Lasciamoli liberi di essere se stessi e di sbagliare.
Questo è il più bel dono che possono ricevere.
Il gesto d'amore che può letteralmente salvarne la vita.

lunedì 9 aprile 2018

un pianoforte su Marte(D'avenia)

Signore, dov’eri?». Una giovane donna passeggia da sola in un bosco, gli alberi come giganti la accerchiano, i suoi occhi sono offuscati dalle lacrime appena versate. Guarda verso l’alto dove ritagli di cielo si liberano tra rami che vogliono intrappolare il suo dolore: suo figlio è morto. Nel silenzio del bosco la donna interroga Dio. A questo punto il regista Terrence Malick rende il film The tree of life un esercizio di meraviglia, traducendo in immagini la risposta alla domanda della donna: quella stessa risposta che Dio diede a Giobbe nell’omonimo libro della Bibbia, mostrandogli la creazione. Sotto gli occhi dello spettatore si dispiega per alcuni minuti la bellezza di tutte le cose, dall’infinito delle galassie all’infinitesimale delle connessioni neurali, mentre uno struggente Lacrimosa, tratto dal Requiem per un amico di Preisner, trasforma in musica il pianto della donna schiacciata dal male, dal dolore, dalla morte. Il contrasto tra il doloroso canto femminile e le immagini di una natura potente ed elegante forma un dialogo incandescente. Un momento di pura e rinfrancante contemplazione, in cui la Bellezza e il Dolore sono faccia a faccia. Il dolore ha generato la domanda, che costringe Dio a rispondere con le sue credenziali mostrando che non ha smesso di prendersi cura del creato, tanto che Giobbe esclama «prima ti conoscevo per sentito dire, ora invece ti vedo». Nel film la telecamera ritorna sui passi rinfrancati della bellissima Jessica Chastain: tutto ciò che abbiamo visto è successo dentro di lei, come un viaggio dantesco. Quando rivedo questa scena i nodi del dolore si allentano e ritrovo speranza, perché la bellezza è il baluardo posto contro il nulla e il male: le cose, anche se non lo sanno, esistono e lottano per essere belle.

Chiamo questi momenti «un pianoforte su Marte»: momenti sempre più difficili da vivere in un quotidiano asfissiato da una quantità sempre maggiore di impegni, di cui a volte riempiamo il tempo anche quando potremmo fermarci. Aumentiamo il rumore per non sentire il panico dell’insignificanza, per farci sordi al silenzio minaccioso della vita nuda, che invece può rivelarsi una voce comprensiva. Mentre Elon Musk promette affollate gite su Marte nel giro di qualche anno, io sistemo il mio immaginario sgabello al centro di uno degli immensi crateri del pianeta rosso, nel silenzio cosmico, senza nulla da poter o dover fare, da poter o dover dimostrare. Premo un tasto per squarciare lo spazio muto e fare una cosa bella e totalmente inutile, mentre, facendo i conti col male, il dolore, la paura, emerge anche in me quella stessa domanda: dove sei?

La risposta di Dio, come quella a Giobbe e alla madre, mi lascia interdetto: non è fatta di ragionamenti, come vorrei, ma da un invito ad aprire gli occhi. All’uomo viene mostrata la bellezza delle cose, dalle migrazioni degli stormi al moto degli astri. Come se il male non si potesse eliminare con un ragionamento, ma solo superare con una contromossa creativa. Perché? Perché la bellezza vera, che è evidenza di un’ininterrotta tensione al compimento, se ci tocca è una voce che, al nostro interrogativo, pone una spiazzante contro-domanda: dove sei tu, piuttosto? A che punto sei tu con i doni della vita? Il dolore non viene rimosso, ma disinnescato perché la risposta ne orienta il senso invitandoci a non usarlo come atto di accusa o di ritirata, e solo così può diventare fecondo. L’ho capito meglio ascoltando urlare un personaggio dei Demoni di Dostoevskij: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno al disopra del nazionalismo, del socialismo, della chimica, di quasi tutto il genere umano, perché sono già il vero frutto di tutto il genere umano, e forse il frutto più sublime! Sono una forma di bellezza già raggiunta, senza la quale io non accetterei neanche di vivere... Ma lo sapete che senza la bellezza l’umanità non avrà assolutamente nulla da fare al mondo! Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui! La scienza stessa non si reggerà un minuto senza la bellezza, lo sapete, questo, voi che ridete? Non inventerete nemmeno un chiodo!». La bellezza ci mostra che la vita è una non sempre evidente creazione continua, che noi possiamo rallentare non interrompere, una cura del mondo che rinnova quella speranza senza cui non c’è desiderio di compimento, come sa chi soffre di depressione: la speranza è ingabbiata, non si vede nulla di bello e quindi nulla da compiere.

Perciò do ai miei alunni i «compiti di silenzio»: 10-15 minuti di quiete, lontani da qualsiasi oggetto, disponibili a sentire tutte le voci che sussurrano o urlano dentro, per soffermarsi sulla più autentica. Per noi e per chi ci è accanto dovremmo trovare momenti di pianoforte su Marte, in cui, in mezzo a paure mute e incombenze urlate, poter lasciare risuonare le domande nascoste nella stanza più interna del cuore, il cuore del cuore, come Amleto chiama il luogo in cui accogliamo solo gli amici veri. Sono domande che al solo ascoltarle trovano parte della risposta, che è già nel coraggio di non accantonarle come infantili o inutili. Le temiamo perché lasciano sgorgare tutto il dolore e la paura che ci portiamo dentro. Se ne stanno un gradino sotto la soglia consapevole, accovacciate, come tigri tra i cespugli dei mille impegni, della ripetitività dei giorni, delle ferite delle relazioni, delle fragilità del carattere, del male che colpisce e quello con cui colpiamo. Domande che non sono il frutto di un ragionamento, ma la fibra stessa della vita, il grado zero: vale la pena esser nati? Per cosa vale la pena vivere? L’essenziale della vita gioca a sfuggirci perché impariamo a non accontentarci, a non fare tutto da soli, ad affidarci ad altro da noi. La domanda su ciò che precede e segue la vita, non è alla nostra portata, però ce la portiamo dietro e dentro. Tenerla viva ci rende umani, perché apre la conversazione interiore che solo a noi è data, e non alle pietre, alle piante, agli animali, perché solo a noi, in quello spazio intimo, è concesso di aver paura della morte e poi resisterle.

Tutta la cultura umana è resistenza alla morte, come mostra il salto evolutivo delle ossa inumate dai nostri antenati più antichi. Gli Egiziani hanno lasciato enormi tombe a forma di piramide. I Greci si affidarono alla parola che svela e ricorda: da Achille ad Alessandro Magno, meglio una vita breve ma gloriosa che una lunga ma anonima. I Romani confidarono nelle loro mani, costruendo vie, ponti, acquedotti ed eserciti, per rendere perenne l’Impero. Gli uomini del Medioevo levarono cattedrali di pietre e di parole per ospitare un frammento dell’eternità di Dio. Gli uomini del Rinascimento quell’eternità vollero crearla, scoprendosi loro stessi degli dei. Poi venne chi cercò di resistere affidandosi alla Ragione, al Sentimento, alla Volontà, alla Scienza. E ora alla Tecnologia che sogna di mescolare l’uomo e la macchina per sottrarre la materia alle sue fragilità e al suo decadere. E chissà cos’altro impugneremo per la nostra ribellione contro la morte.

Qualche tempo fa ho ricevuto una lettera di una ragazza che, leggendo un libro, aveva suonato il suo «pianoforte su Marte», ma concludeva: «non ho coltivato i germogli che le parole avevano portato. Si sono seccati. L’animo umano è fragile; ci facciamo trasportare dalle emozioni e poi non abbiamo il coraggio di trasformarle in qualcosa di più. Ho una pagina del libro attaccata in camera per ricordare a me stessa la BELLEZZA che ho assaporato. Ma le belle parole, non sostenute dai fatti, rimangono sospese in aria, per poi essere spazzate dal vento della quotidianità. Non so come fare. Non so come far durare ciò che mi risveglia e riempie». Far durare ciò che rende viva la vita, questo è il punto. Perché scivoliamo nell’inerzia? Perché facciamo tacere la voce che indica una destinazione? Perché troppo di rado frequentiamo l’unico catalizzatore di forze presenti, ma disperse o inerti, dentro di noi: la Bellezza. Diciamo di un libro, un incontro, un’esperienza anche dolorosa: mi ha salvato, perché sentirsi salvati è aver trovato l’antidoto efficace al continuo cadere della nostra vita, aprire un tempo affrancato dal tempo, senza però fuggire dalla realtà. Quando il tempo vola, in realtà non ha fatto altro che aprirsi alla vita che non muore, alla vita indistruttibilmente viva. È aver trovato il Graal dell’esistenza.

Il letto da rifare oggi è un pianoforte su Marte, quello da suonare almeno una volta al giorno, per noi e per chi ci sta attorno, come quei pianoforti che a sorpresa qualcuno decide di usare per allietare luoghi caotici e anonimi come stazioni o aeroporti, ridando un nome a ciascuno di quelli che si fermano ad ascoltare. Grazie a quel pianoforte su Marte accetteremo che la vita, prima che un ragionamento, è un nodo vitale di dolore e speranza. Solo così potremo aprire uno spazio interiore di resistenza alle forze disgreganti della morte e non su Marte, ma sulla Terra. Solo così potremo riaprire gli occhi e vedere faccia a faccia chi o cosa ci permette di non morire, e non dopo la vita, ma durante.

domenica 8 aprile 2018

La sinistra di Bertinotti, Amendola e altri

gli facevano notare come il suo spirito proletario stridesse un po’ coi benefits di cui si circondava, Claudio, core de ’sta sinistra dura e pura, rispondeva: «Il comunismo oggi non vuol dire Lenin e Stalin. Vuol dire giustizia sociale, pagare le tasse, vivere moralmente sani, non sprecare, non sfruttare, pagare i contributi, seguire gli insegnamenti di Gesù Cristo». E se a Pasqua al posto del Cristo c’è Salvini, è solo un cambio d’inquadratura.

viene da ridere alla definizione amendoliana  di sinistra.

analizziamo in dettaglio i punti citati:

giustizia sociale: alzi la mano chi vuole l'ingiustizia sociale. 

pagare le tasse: a parte i furbetti, gli Italiani pagano le tasse

vivere moralmente sani: tutti ci tentano, poi i risultati vanno dove vogliono

non sprecare: ci danniamo l'anima per utilizzare al meglio quanto arriva nella busta paga, tutti

seguire gli insegnamenti di Gesù Cristo: siamo un pò nel vago, ma forse il Cristo è meglio lasciarlo da parte e dar la parola su questo terreno minato a chi lo conosce meglio

a sentire el core di Roma,  considerato che i suoi principi(banali), sono un pò la top ten di tutti gli Italiani dovremmo concludere che siamo tutti di sinistra. Peccato che i dem stiano sparendo e la estrema sinistra, quella che Amendola giua di votare, fa fatica  a raggiungere il  minimo sindacale.

Il nostro Amendola si goda i bnefits di cui gode e continui a invitarci a tentar la sorte( questo sì che era nei piani di Lenin e Stalin: tenatr la sorte, ma non con bet365).

Buona giornata agli uomini di sinistra e al core de Roma