martedì 12 gennaio 2021

Cicciano 10/02/2021 Protagonista o marionetta? Oggi è il tuo 18esimo compleanno ed è il momento di formulare qualche aspettativa, esprimere un desiderio. Non che oggi sia diverso da ieri o l’altro ieri, né di domani o dopodomani, ma per legge a partire da oggi sei responsabile in modo diretto di ogni tuo atto: non dovrai chiedere la firma dei genitori per giustificare le assenze, potrai votare, ma potrai anche essere incriminato direttamente: hai compiuto 18 anni. Sei stato incastrato. La legge determina al compimento dei diciotto anni un salto di qualità nella responsabilità del cittadino. Sarà compito tuo dimostrare che qualcosa è veramente cambiato, che meriti fiducia. Io nelle righe seguenti mi limito a manifestare un mio grande desiderio. Cosa voglia per te mi è molto chiaro: voglio che tu sia protagonista della tua vita, che non sia una marionetta. Non vorrei alzarmi troppo in volo ma potrei ben dire che la differenza è tra il Superuomo( di memoria nietzesciana) e gli ominicchi(le marionette) di cui parlava uno scrittore siciliano(Leonardo Sciascia) in un suo famoso libro “ il giorno della civetta.” Probabilmente tra il protagonista e la marionetta esistono molte categorie intermedie: il burocrate, il lacchè….… ma a me interessa confrontare gli estremi della catena di posizioni che l’uomo può occupare. E’ il nostro un tempo difficile per le generazioni future che dovranno domani guidare il nostro universo, dovranno acquisire una mentalità nuova, meno legata ai bisogni temporanei per garantire la sopravvivenza di un pianeta allo stremo. Una nuova generazione che deve far tesoro di esperienze recenti, come l’assalto a Capitol Hill, per acquisire autonomia di pensiero. Abbiamo visto quanto sia facile manovrare le marionette: ad un semplice comando del burattinaio, le marionette si sono mosse. E’ la prova provata del fallimento della Scuola, della buona scuola non della scuola buona. Al comando la marionetta agisce. E il burattinaio non è, in questo caso, ma non lo è mai, il filosofo avveduto che conosce la complessità del sistema , ma il semplice avventuriero che vuole il suo momento di gloria, sfruttando la poca dimestichezza delle masse ad un pensiero creativo ed autonomo. Non siamo in presenza di protagonisti: sia il burattinaio che le marionette appartengono alla medesima categoria: i delusi. E i delusi agiscono emotivamente e distruttivamente. Tu dovrai essere un protagonista. Ma dove guardare per avere esperienza di un protagonista? In un film recente dedicato alla vita di Marie Curie, la celebre chimica, premio Nobel per la scoperta di due elementi radioattivi, Il Radio e il Plutonio, un episodio mostra chiaramente la differenza tra il protagonista e le marionette. Marie Curie, in seguito alla scomparsa del marito Pierre, viene considerata in Francia, dove ha trovato rifugio dopo aver abbandonato la Polonia, una intrusa, Lei che dato tanto lustro alla scienza francese, e invitata da una folla esagitata che urla sotto le sue finestre, ad abbandonare la Francia. Ma Marie non ci sta, non si lascia intimidire e continua la sua ricca avventura di scienziata; ecco una protagonista. Lei ha dei progetti, la sua vita è ricca di pensieri sempre nuovi, di percorsi da intraprendere di idee da verificare, non ha tempo per i perditempo; dall’altra parte abbiamo gli insoddisfatti: incapaci di costruire un progetto sono sempre disponibili a sabotare i progetti degli altri: a inveire contro la lucidità dei protagonisti. Il loro è un odio eterno contro la noia che li soffoca, contro il nuovo che avanza: sono soffocati da una invidia eterna: sono morti ancor prima di morire. Marie è una protagonista: ha dei progetti. Un protagonista indaga la realtà, qualsiasi realtà: sociale, economica, politica, culturale per scoprire attraverso i dettagli i suoi intimi segreti e produrre una conoscenza scientifica che sia appannaggio della comunità. L’obiettivo del protagonista, se è tale, non è mai egoistico. E gli obiettivi dei protagonisti si fondano su un vero sapere, sulla competenza. Ogni anno vengono assegnati i premi Nobel a uomini e donne che nell’ambito della letteratura, dell’economica, della scienza(medicina, biologia, matematica, fisica, chimica) hanno operato da protagonisti, volti sconosciuti ma non per questo meno protagonisti. Il protagonismo non va associato alla conoscenza popolare, i volti popolari di oggi non sono i protagonisti della vita ma solo marionette che presto verranno dimenticate, Inoltre ricorda, un pensiero che mi hai sentito spesso citare, che la vitalità di pensiero risulta molto produttiva attorno ai 30 anni, successivamente si rielabora e si arricchisce quella intuizione e difficilmente si produce qualcosa di nuovo. Godel, nel 1930, quando presentò il suo teorema di incompletezza che azzoppò le ipotesi hilbertiane, di una matematica coerente e completa, aveva appena 23 anni; il Tractatus logico-philosophicus fu scritto da Wittgengstein quando aveva 26 anni; il libro più importante di Emanuele Severino “ La Struttura Originaria” fu scritto nel 1958 quando Severino aveva 29 anni; Einstein formula la teoria della relatività nel 1905, quando aveva solo 26 anni; Keplero aveva da poco superato i 30 anni quando ridisegnò i movimenti nel firmamento(teoria eliocentrica). E’ nella fascia di età tra i 25 e i 35 che si produce di più, che si è ricchi di una inventiva destinata a spegnersi e che bisogna alimentare con un fuoco vivo di concentrazione, sapere e confronto. Ho parlato di geni, ma non vorrei essere frainteso: non bisogna essere geni per appartenere ai protagonisti. Quello che è certo è che per essere uomini del proprio tempo, per essere protagonisti del proprio tempo c’è una sola via: avere dei progetti, avere delle idee e perseguire quelle idee e quei progetti: si chiama ricerca. I broker, permettimi di essere un po' duro, non saranno mai protagonisti: magari diventeranno ricchi e famosi ma mai protagonisti. Ciò che deve stimolare un giovane oggi è l’acquisizione di un sapere fondato, di una competenza certa. Cosa mi auguro per mio nipote? che possa cogliere ogni opportunità per costruire una conoscenza sempre più ampia e consolidata, che possa acquisire competenza e come dice Kantt: non impari solo la filosofia ma impari a filosofare e parafrasando: non impari solo i contenuti ma i metodi per costruire nuovi e duraturi contenuti (ma ricorda: ogni contenuto è falsificabile). Ecco chi è il protagonista. Gli altri, coloro che gestiscono e timbrano documenti sono solo dei semplici burocrati e non saranno mai protagonisti; è solo una percezione confusa che ce li fa apparire come tali. Sii protagonista, preparati ad essere protagonista della tua vita. Sfrutta ogni momento per prepararti a diventare un protagonista. Trova buoni maestri e seguili. E’ l’unica via per arrivare a un protagonismo vero. Lascia che le marionette vivano la loro vita disperata e disperante. Abbeverati al vero sapere e non sarai mai sazio. E le giornate saranno sempre troppo brevi per i tuoi mille pensieri che ti agiteranno, per le mille imprese che vorrai intraprendere. Lascia che la noia appartenga alle marionette, che non intacchi la tua giornata. La tua vita deve essere un viaggio ben organizzato, e un viaggio ben organizzato ha bisogno di una programmazione minuziosa. Non affidarti alla dea bendata e al caso, programma la tua vita. Preparati oggi. Preparati. E buon viaggio. P.S. Avrei voluto ricordare i tanti momenti che abbiamo passato assieme quando piccolino ti portavo sul fiume Adda e davamo da mangiare ai cigni, o quando tiravo fuori la banana dal mio loden e davo da mangiare al mio bananofilo o quando affascinato dai rumori delle marmitte delle moto correvi ad imitarne il suono, ma ho preferito pensare al futuro piuttosto che al passato: solo i vecchi pensano al passato. Noi giovani siamo impegnati a tempo pieno a programmare il futuro. Buon viaggio

domenica 18 ottobre 2020

La chiesa cattolica e l'Italia svanita (di Galli della Loggia)

Le ennesime disavventure, chiamiamole eufemisticamente così, delle finanze vaticane mettono in luce indirettamente un fatto importante: la scomparsa di una certa Italia cattolica di stampo aristocratico e borghese delle cui competenze fino a tempi non troppo lontani la Chiesa in vari modi si è servita, e che ha servito la Chiesa e le sorti del cattolicesimo all’insegna di un forte impegno etico e di un sostanziale disinteresse personale. Aveva, quell’Italia cattolica, le sue roccaforti soprattutto nel Lombardo-Veneto e negli Stati Pontifici (nelle antiche e meno antiche famiglie dei Gallarati Scotti, dei Casati, dei Valmarana, dei Falck, così come in non pochi ambienti borghesi delle professioni e della cultura), e benché la fede legasse tradizionalmente quell’Italia alla Santa Sede, all’indomani dell’Unità — essendo predominante nelle sue file un orientamento cattolico-liberale — essa non mancò di fornire importanti servigi anche al nuovo Stato. La Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, ad esempio, fece ampio ricorso a non pochi dei suoi esponenti per una serie di incarichi importanti e generalmente con ottimi risultati. Vien fatto di pensare a tutto ciò quando si apprende dai giornali di come venivano abitualmente gestiti i cospicui fondi della Santa Sede da parte di prelati di ogni rango. Tutti evidentemente digiunissimi di cose finanziarie (e alcuni senz’altro onesti, come io mi ostino a credere il cardinale Becciu), i quali per anni, come se niente fosse sono stati soliti affidare milioni e milioni a società con sede nei luoghi più sospetti, a personaggi tra i più improbabili, a banchieri di mezza tacca, a intermediari dal più che dubbio profilo, a tizi presentati da altri tizi, e così via. A una genia di figuri, insomma, che qualunque persona appena avvertita avrebbe messo alla porta all’istante guardandosi bene dall’affidargli sia pure un centesimo. Figuri che invece in Vaticano sembra che abbiano ricevuto ogni volta l’incarico di manovrare cifre da capogiro: com’è ovvio facendo regolarmente quello che qualsiasi persona ragionevole si sarebbe aspettata, e cioè che una parte di tali cifre restasse illecitamente nelle loro tasche. Che in alcuni dei mandanti in abito talare ci sia stata all’origine un’intenzione fraudolenta (affidarsi a degli imbroglioni per poter a propria volta imbrogliare e rubare) è più che possibile. Ma l’ingenuità, l’insipienza, e direi quasi la dabbenaggine nella scelta delle persone ai cui servigi rimettersi sembrano essere state così diffuse e costanti nel tempo da sfiorare l’inverosimile. A petto di questa massa di imbroglioni di varia specie aggirantisi nei sacri palazzi come non ricordare, tanto per fare un nome la figura di un uomo come Bernardino Nogara? Ben pochi, credo, sanno chi fosse, ma proprio questo è forse il suo maggior titolo di gloria. Bernardino Nogara — proveniente da una famiglia del Comasco di ben dodici figli, di radicate tradizioni cattoliche — dopo una fortunata carriera nel mondo dell’ industria e della finanza durante la quale ebbe modo anche di collaborare con Giolitti in importanti questioni di politica estera, fu colui al quale nel 1929 Pio XI conferì l’incarico con pieni poteri di riorganizzare le finanze vaticane. Che oltre comprendere l’Obolo di san Pietro proprio in quel 1929 si erano arricchite dell’astronomica cifra conferita ad esse dallo Stato italiano dopo i Patti Lateranensi. Ebbene, Nogara mise ordine, scansò pericoli, investì con oculatezza e lungimiranza, amministrò con la massima onestà, e al termine di venticinque anni di servizio lasciò la Santa Sede in condizioni di floridezza senza pari. Nogara è solo un esempio che i fatti di questi giorni richiamano. Un esempio di quell’Italia cattolica di stampo aristocratico e borghese di cui dicevo all’inizio, la quale a livello di parrocchia come di diocesi e infine in Vaticano per lungo tempo affiancò in molti modi la Chiesa, e su cui la Chiesa sapeva di poter contare invece dei loschi sconosciuti a cui da troppo tempo si è abituata a far ricorso. Un’Italia che oggi appare scomparsa o lo è davvero. In parte perché probabilmente non è (o non si sente) più cattolica o perché i suoi figli hanno conosciuto il processo di secolarizzazione che ha conosciuto tutto il Paese. Ma in parte perché tanto al centro che alla periferia la Chiesa ha ritenuto di fare a meno di lei. Attuando una scelta dietro la quale è facile scorgere l’effetto di due processi concomitanti. Il primo è stato l’atteggiamento diffusosi nella Chiesa dopo il Concilio. Un atteggiamento orientato comunque al rinnovamento in quanto tale, all’uscita dai vecchi schemi, al ripudio di tutte le antiche abitudini. Soprattutto volto ad allontanare da sé ogni sospetto di vicinanza al potere, di prossimità alle classi dominanti invece che agli «ultimi». Prima o poi tutto ciò che sapeva di tradizione e apparisse democraticamente ambiguo è stato così messo da parte. Non meraviglia che in questa atmosfera utilizzare i servigi di un antico nobiluomo o le competenze di un ricco professionista conosciuti per la loro fede preconciliare e la loro posizione sociale eminente abbia finito per sembrare quanto mai sconveniente e inopportuno. E infatti da allora ogni rapporto tra la Chiesa e figure sociali di questo tipo è venuto sostanzialmente meno. Il secondo processo è stata l’internazionalizzazione del papato e insieme della Curia, avvenuto nell’ultimo mezzo secolo dopo l’elezione di Wojtyla: prodotto e accompagnato dalla diffusione nell’opinione pubblica cattolica mondiale e sempre più nello stesso ambiente papale da un tacito ma forte pregiudizio antitaliano. L’effetto combinato di tutto ciò è stato a partire dagli anni 70 la progressiva internazionalizzazione anche della gestione delle finanze vaticane, il cui simbolo può essere considerato il ruolo ultraventennale esercitato da un uomo come il vescovo lituano-americano Paul Marcinkus. Un indirizzo, come si sa, fin dall’inizio all’insegna di legami più che sospetti con ambienti finanziari mondiali dalla grigissima reputazione quando non dediti a vere e proprie attività criminali. Tranne brevi parentesi da trent’anni tutto procede su questa strada, con il puntuale corredo di manigoldi, scandali e ruberie. La mancanza di vere competenze proprie di carattere extrareligioso, e al tempo stesso l’impossibilità di contare sulle competenze di una società civile cattolica ormai inesistente o lontana, condannano non solo la gestione finanziaria della Santa Sede ma più in generale tutti i suoi rapporti con il «secolo» a vivere pericolosamente, sempre sull’orlo della truffa o dell’illegalità o, quando va bene, della più sconfortante goffaggine.

lunedì 2 settembre 2019

Promozione garantita: fallimento certo


Gentile professoressa,
grazie per la sua lunga lettera, così ricca di intelligenza e profondità. Il primo sentimento che ho avuto, leggendola, è stato quello di una sottile invidia per i suoi allievi. Ricordando la mia penosa — e per lo più catastrofica — carriera scolastica, non ho potuto fare a meno di pensare a come avrebbe potuto essere diversa se avessi incontrato sul mio cammino una persona come lei. Nel corso di una vita, avere avuto un professore piuttosto che un altro, un maestro piuttosto che un altro può fare una grande differenza. E la può fare soprattutto per i fragili, per i deboli, per quelli che non hanno alle spalle qualcuno in grado di sostenerli.
Che cos'è l'insegnamento infatti, se non un improvviso «vedersi» tra esseri umani? Il più grande vede il più piccolo e intuisce quale sia la strada da indicargli per permettergli di sviluppare la parte migliore di sé.
Un insegnante che ama il suo lavoro ha un compito molto importante: quello di trasmettere la sua passione. Può decidere di esporre il programma pedissequamente o può, percorrendo vie insolite, riuscire ad accendere di luce lo sguardo di chi lo sta ascoltando, ad aprire una piccola porta nella sua mente, e forse anche nel suo cuore, permettendo a quel ragazzo o a quella ragazza, un giorno, di salvarsi. Insegnare nozioni o suscitare passioni, è questo il grande discrimine. Accontentarsi di far ripetere a pappagallo le pagine dei libri di testo o far capire, invece, che lo studio della letteratura non è una scatola piena di dettagli noiosi ma qualcosa che parla alla profondità della nostra inquietudine e alle domande che ne scaturiscono. Letteratura come natura morta o letteratura come parte irrinunciabile della nostra vita.

«Alzare lo sguardo» (Solferino, pp. 128, euro 11,90) esce il 5 settembre
Essendo cresciuta nel Nordest dove, all'epoca, i legumi mediterranei erano degli assoluti sconosciuti, mi sono interrogata a lungo sulla ragione per cui padron 'Ntoni ci tenesse tanto a un carico di lupini, cioè, per me, di piccoli lupi. Che cosa doveva farsene di quei cuccioli? Voleva introdurli in Sicilia? E per quale ragione? A parte questo enigma, che si è risolto soltanto quando, ormai maggiorenne, mi sono trasferita a vivere a Roma e ho scoperto che i lupini erano dei legumi gialli, della mia preparazione scolastica di letteratura non mi è rimasto praticamente nulla se non l'idea, radicatissima, che si trattasse di qualcosa di antiquato che non avesse nulla a che fare con la mia vita. Per riaccostarmi al Leopardi e nutrirmi della sua grandezza ho dovuto aspettare i trent'anni; per osare riprendere in mano I promessi sposi, e apprezzarli come meritano, ho atteso i quaranta.
Sono convinta che la ragione per cui il nostro Paese viene considerato la Cenerentola europea negli indici di lettura sia da ascrivere soprattutto alla diseducazione letteraria attuata nel percorso scolastico. Quante persone una volta terminate le scuole superiori, magari con ottimi voti, non si sognano più di aprire un libro, così come una buona parte dei laureati, una volta ottenuto l'ambito titolo, vengono colti da perpetua e inguaribile «papirofobia»?
Questa invincibile allergia alla carta stampata, quali che siano i suoi contenuti, non è forse dovuta — oltre che alla tendenza delle famiglie a non leggere e dunque a non stimolare i loro figli a farlo — anche al cronico fallimento della scuola che, in tanti anni di insegnamento, non ha saputo lasciare ai bambini e ai ragazzi, una volta diventati adulti, un solo germe di curiosità?
È la curiosità infatti la molla che spinge ad aprire i libri. Curiosità, voglia di saperne di più. Il discorso non è limitato alla letteratura. Si può essere curiosi di storia, di biologia, di matematica, di geografia, di filosofia. Una persona curiosa ha un grande pregio: non si farà mai ingabbiare dalle spire del fanatismo. La curiosità infatti è il principale antidoto all'indottrinamento.

Susanna Tamaro
Lei regala, così mi scrive, a ognuno dei suoi alunni all'inizio di ogni anno scolastico una copia delle Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke. E la regala anche se i suoi ragazzi non sono studenti di un liceo ma di un istituto tecnico, suscitando ironia e critiche dei colleghi, vittime del solito snobismo provinciale per cui la cultura dovrebbe essere appannaggio solo di chi frequenta il più nobile liceo, mentre le lande desolate degli istituti tecnici dovrebbero servire solo a traghettare i ragazzi al mitico foglio di carta, offrendo una preparazione che già in partenza viene considerata di serie B.
Perché mai, si chiede e mi chiedo, chi frequenta un istituto turistico, un alberghiero, un professionale non dovrebbe essere messo in grado di leggere e apprezzare un poeta, di capire che cosa sia la poesia? Saper percepire la bellezza deve essere forse il privilegio di un'élite?
Tra le molte piaghe della scuola italiana, forse una delle più gravi è proprio quella dell'inossidabile mito del liceo. Si ingannano le famiglie facendo loro credere che esistano scuole di prima e di seconda scelta. Il liceo — scientifico, classico, linguistico — viene considerato automaticamente più nobile, in grado di aprire le porte dell'università.
Nel nostro Paese ci sono migliaia e migliaia di posti di lavoro vacanti per mancanza di persone tecnicamente preparate, a causa della carenza di veri percorsi professionali e formativi, e altrettante migliaia di liceali che camminano verso il nulla con il loro bel pezzo di carta in mano. Né agli uni né agli altri, a meno che non abbiano avuto la fortuna di incontrare un'insegnante entusiasta e coraggiosa come lei, è stata data la possibilità di accedere davvero alla cultura; dove cultura vuol dire curiosità, capacità di appassionarsi, di ragionare, mantenendo sempre la mente in una condizione di apertura.
Ho diversi amici che insegnano, come lei, negli istituti tecnici e i racconti che mi fanno sono per lo più desolanti. Malgrado l'impegno e l'amore che mettono nel loro lavoro, si sentono spesso circondati da un clima di fatale disfattismo. Una mia amica, scoprendo che gli studenti dell'ultimo anno giocavano a carte durante le sue lezioni, è andata a parlare col preside per capire come comportarsi. «Li lasci fare» si è sentita rispondere «tanto sono abituati così. E poi sono in quinta, quest'anno se ne andranno...». La solita tecnica dello scaricabarile: foglio di carta in mano e via. Non mi riguarda più.
Ma i ragazzi-peso, una volta scomparsi dall'orizzonte, dove vanno? Diventano per lo più ragazzi-zavorra. Zavorra buttata a mare. O meglio, ragazzi-risacca: si fanno trasportare dalla corrente perché nessuno ha mai dato loro importanza, e questa assenza di importanza — e dunque di peso — li rende incredibilmente leggeri. È una leggerezza ingannevole, la leggerezza del nulla saper fare, del nulla sperare, del nulla desiderare. Una leggerezza che, in breve, si trasformerà in una inesorabile pesantezza. Pesantezza sociale, pesantezza individuale.
Che cosa faranno, una volta diventati adulti, questi ragazzi da cui nessuno ha preteso niente, che nessuno ha mai davvero visto? A quali povertà li condanna la scuola del non-impegno e della promozione perpetua? La scuola che non ha mai messo davanti a loro gradini, ostacoli, asticelle da superare? Alla povertà economica, probabilmente, a quella sociale anche ma, più di ogni altra cosa, li condanna alla povertà umana, cioè alla totale sfiducia in loro stessi e nella propria capacità di affrontare e risolvere i problemi.
I dieci anni di scuola obbligatoria rimarranno, nella memoria dei più, come un lungo e grigio inverno di cui non aspettavano altro che la fine. Avranno messo crocette per anni, si saranno arrabattati confusamente tra le prove Invalsi, avranno imparato qualche data a memoria, per dimenticarla a interrogazione conclusa e, navigando con i motori al minimo, saranno andati avanti così, di anno in anno.

Certo, non si può ignorare l'irrompere tumultuoso della tecnologia nella vita delle nuove generazioni e nella nostra. Un irrompere che ha creato un mondo parallelo a quello reale, un mondo segnato dalla facilità e dall'immediatezza, dalla superficialità e da una fallace onniscienza. Nei primi anni di questa rivoluzione, mi è capitato di leggere tesine delle scuole medie o delle superiori e di restare ammirata per la quantità di nozioni esibite e per la complessità dello svolgimento. Nella mia ingenuità analogica, mi sperticavo in complimenti con chi le aveva scritte ma il mio stupore ammirato era sempre destinato a essere di breve durata. Parlando, infatti, dell'argomento che avevano esposto, mi rendevo presto conto che quello che c'era scritto non corrispondeva a quello che lo studente davvero aveva appreso. Era iniziata l'era del «copia e incolla» e io non me ne ero accorta.
È vero che la tecnologia porta una grande ricchezza nelle nostre vite ma, perché ricchezza davvero sia, bisogna imparare a usarla. Usarla e non esserne usati. Consentire gli smartphone in classe è pura follia, così come sostituire i libri di testo con l'uso del tablet. In molti Paesi europei, dove l'innamoramento per le tecnologie a scuola è arrivato prima che da noi, si stanno rivalutando la scrittura a mano e lo studio sui libri, anche come antidoto alle gravi dipendenze da schermo e da social che le nuove generazioni sviluppano in modo allarmante. Secondo una ricerca molto dettagliata del Miur basata sui test Pisa del 2015, gli studenti italiani con i migliori punteggi nella lettura digitale sono quelli bravi anche nella lettura cartacea e, viceversa, quelli con difficoltà nella lettura cartacea non capiscono nemmeno i testi digitali. Il nostro ministero, che in controtendenza si è lanciato con sventata allegria nella rincorsa alla modernità, senza approfondire i molti studi sulla negatività di certe scelte, non ha considerato che al limite le due vie — tecnologica e umanistica, diciamo — possono procedere parallele, arricchendosi una con l'altra. Ma così non è stato. Dato che il suo compito, da ormai troppo tempo, è quello di rendere le cose sempre più facili, di non creare ostacoli, di permettere a tutti di raggiungere l'agognato pezzo di carta — perché questa è la più alta e più perversa forma di democrazia — non poteva fare diversamente.
Non creare problemi, questa sembra l'unica preoccupazione della scuola-azienda, della scuola-centro commerciale, con vetrine sempre più sfavillanti per attirare i clienti. «Avremmo dovuto bocciare molti in quella classe, non ammetterli nemmeno alla maturità» mi ha confessato un giorno un'amica «ma non abbiamo potuto farlo. Siamo un piccolo istituto tecnico di provincia. Ogni allievo è prezioso per non chiudere e, se chiudiamo, perdiamo tutti il posto».
È questo il fine della scuola statale?
Rendere?
Ma promuovere gli ignoranti e i negligenti, le persone che si preparano per un mestiere per cui non avranno la minima competenza è davvero un rendimento, o è piuttosto un fallimento? Un rimandare la resa dei conti offrendo una colossale presa in giro dei ragazzi e delle loro famiglie? A quale efficienza mira questo sistema? Direi soltanto a quella delle statistiche. Tot iscritti, tot promossi. La scuola funziona!
Se si risvegliasse don Milani, che cosa direbbe della scuola di oggi? I «Gianni» che all'epoca venivano ripetutamente bocciati ora non incorrono più in quell'onta, in quello stigma sociale. Tutti promossi, ma con una promozione che ha l'effetto di un boomerang. Colpisce e torna indietro lasciando a terra il corpo inerte. La parte importante del suo metodo — il lavorare insieme creando un sapere che nasce dalle domande, dunque maieutico — è stata rapidamente archiviata. Travisato e manipolato, è rimasto soltanto il diktat: non bocciare i Gianni! Senza che nessuno abbia mai alzato la mano per dire che in questo sistema le vittime sono proprio loro, i Gianni, costretti a rimanere tali per sempre, mentre gli odiati «Pierini», i ricchi, i privilegiati, continuano imperterriti per la loro strada. Una strada fatta di sezioni migliori, di possibilità di ripetizioni, di scuole private, di soggiorni all'estero, di famiglie capaci di stimolarli, sottraendoli al giogo omogeneizzante imposto dai media.

Forse a questo punto si stupirà di sentirmi parlare con tanto fervore di scuola e di educazione, in fondo non dovrei occuparmi di letteratura? In realtà, prima di scrivere, per una parte importante della mia vita ho pensato che la mia vocazione fosse proprio l'insegnamento. Ho frequentato l'istituto magistrale — quello che ha formato le maestre che hanno alfabetizzato l'Italia — e, negli anni dei miei studi pedagogici, mi sono infiammata per Pestalozzi e Fröbel, per don Milani e Rousseau, per la Montessori e per tutte le teorie che, a quel tempo, aprivano nuovi orizzonti nel campo educativo.
Alla base della mia passione c'erano due forze che si completavano a vicenda: le grandi sofferenze patite sui banchi e la convinzione che occuparsi dell'ottimale sviluppo delle persone fosse il punto cardine di una società che vuole continuare a crescere nella luce della civiltà. Non avevo — e non ho — alcun dubbio sul fatto che abbandonare l'idea della centralità dell'educazione voglia dire spalancare la porta alle barbarie.