sabato 26 maggio 2012

La primavera tradita

Piazza Tahrir: che tragico spreco di piccole vite eroiche, quanto scialo inutile di germinale sanguigna giovinezza! Una rivoluzione, tanta furia e tanto fuoco, le pietre, le barricate, la battaglie davanti al ministero dell’interno, il Palazzo imprendibile, i morti: in nome della dignità, della esigenza di essere liberi e del rifiuto della corruzione. Quegli occhi neri lucidi stupendi dei ribelli adolescenti, le risate di getto, argentine, insolenti, divine come una folgore fuor di un nuvolone, l’eco dei gemiti e singhiozzi del dolore umano prima che diventi urlo, rivolta disperazione e non resti eguale e sepolto nel cuore di tutti. C’era, è vero, in quel lampeggiare di vite di destini di speranze molto loglio ma , insieme, parecchio buon grano. Era, come sempre, una prova pericolosa di eccessiva felicità. Cosa resta? Alla fine a battersi per la presidenza dell’Egitto, se le prime indicazioni saranno confermate, il candidato (di riserva) dei Fratelli musulmani e un uomo del regime, la faccia del potere militare, il sosia del deposto Mubarak, sacrificato perché ingombrante e impresentabile, il passato che non passa, che non muore. «Far cadere il regime», lo slogan di tutte le rivoluzioni arabe, Internet, non bastava: senza un chiaro programma di quanto sarebbe dovuto venire dopo. Sono un’eco i discorsi che ci scaldavano allora, ancora nel primo anniversario di quel rinascere, tutto razzi e lampi e scatti e colori: i Paesi-gabbia dove vivono 300 milioni di musulmani sembravano spalancarsi per forza interna. Era, dicevano, la nuova «Nahda» l’ennesimo e finale rinascimento. Invece la Città, che arde e sfavilla, domani sarà vuota di forza come un cuore che si schianta, solo con un feroce orgoglio pieno di fiele e di noia. Sì, è difficile oggi esser ottimisti sulla rivoluzione egiziana, sulla primavera araba che un anno ha già fatto invecchiare, il rinnovamento svanisce nel buio, il Paese che nasce da quella stagione fiammeggiante sembra più vecchio del padre, più assuefatto al lato oscuro del Male arabo. Tutte le putrefazioni politiche sono messe in fermento. Nel parlamento eletto a gennaio (e che deve scrivere la nuova costituzione) dominano la frigida Fratellanza musulmana, l’islamismo di legulei e di burocrati. Trionfa la loro astuta gesuiteria che li ha tenuti, prima, lontani dalla piazza, e poi li ha guidati a rubare il Potere agli altri, ai ragazzi che avevano penato e si erano battuti. Alla fine ogni cosa è stata sistemata a modino. L’esercito, i birri di una mafia affaristica travestita dal patriottismo, controlleranno come prima il bottino miliardario. Nel patto, ormai evidente e infame, agli islamisti sono date in appalto la società e il potere. Potenze cariche di avarizia e di ingiustizia, i generali e i tartufi della Santa Politica, gli unici sopravvissuti alle «indipendenze confiscate», come diceva il politico algerino Ferhat Abbas. Certo: ognuno dei due è pronto a romperlo, quel patto, quando un giorno il vantaggio non sarà più reciproco. Era una alleanza inevitabile, coloro che agiscono per dissimularsi finiscono con l’imparare a fiutarsi. Ma per ora funziona, perché serve a schiacciare i detestati, scomodi ragazzi di Tahrir, la società civile, il Mondo nuovo. Ai tetri becchini islamisti, con la loro costola salafita, spetterà il lavoro sudicio e quotidiano di soffocare lentamente, senza far troppo chiasso (l’ipocrisia occidentale non vuol essere turbata nei suoi accomodamenti), quella rivoluzione pregna di altre rivoluzioni, il suo entusiasmo, la sua verginità spirituale, la virtù di sognare. Perché questo fu la Primavera araba, una sobillazione miracolosa di giovani, del quinto elemento del mondo, l’unica classe rivoluzionaria che ci è rimasta. Non sopravviverà a questa potatura atroce. Oggi è di nuovo il momento dei piccoli macchiavelli della moschea, a parole anche loro rivoluzionari, ma non come i ragazzi e le piazze: non per muovere la vita, ma per bloccarla. Il termidoro islamico avanza ovunque. Anche in Tunisia la gioia della primavera si appanna, ecco di nuovo l’aggrapparsi al passato; il doppiopetto e le cravatte esibite dai nuovi dirigenti davanti agli ospiti occidentali, non ingannino. Torna la favola della grandezza salafita o la compiutezza di un islam detentore della verità assoluta, l’uso del passato come identità, un museo di illusioni che interessa solo gli arabi. L’orizzonte si rinchiude. Ed è l’Egitto il tassello decisivo, perché è stata la duplicazione della rivolta nelle piazze del Cairo e di Alessandria che ha dato a un evento limitato la dimensione di un sisma generale. Vinceranno questi politicastri viscidi, con le loro vecchie terapie cincischiate rimesse fuori con una certa aria di pulitezza e di comodità? Ci sono cuori dove certe parole lasciano il bruciore per sempre. Erano liberi e nuovi. Lo spirito di rivolta è giovane, più che giovane è adolescente: sopra ogni mezzo, al di là di ogni mezzo.

giovedì 24 maggio 2012

La chiarezza cristiana

«Non possiamo chiedere al vescovo di denunciare un prete della sua diocesi in quanto ciò contrasta con l’ordinamento, anche se non gli viene impedito di prendere l’iniziativa e di rivolgersi alla magistratura», precisa Crociata. A patto che il delitto sul minore non sia stato rivelato in confessionale. «Il vescovo tratterà i suoi sacerdoti come un padre e un fratello, curandone la formazione permanente e facendo in modo che essi apprezzino e rispettino la castità e il celibato e approfondiscano la conoscenza della dottrina della Chiesa sull’argomento», raccomanda la Cei. Finalmente ritroviamo nel dire della chiesa quella grande chiarezza cristiana, quel dire sì al sì e no al no senza fraintendimenti. Mai posizione di circostanza, mai incertezze, mai illusionismi. Sempre un grande amore, soprattutto per i piccoli. Ci riempie di gioia sapere che l'amata chiesa sa scegliere con cura le sue posizioni con amore e fratellanza sempre sicura di far crescere i piccoli nell'amore che i grandi(i pedofili) hanno per i piccoli indifesi.

mercoledì 16 maggio 2012

Quello che (non) ho

Passate a miglior vita le ideologie, c'è ancora (e, anzi, ancor più…) bisogno di narrazioni. Non sono i grands récits di cui il filosofo francese Jean-François Lyotard stilò, tra i primi, il referto di decesso, ma sempre di racconti si tratta. O meglio, di monologhi intorno a singole parole, come quelli messi in scena anche nella seconda puntata di Quello che (non) ho .

È il ritorno, in grande stile e grossi numeri (con la conseguente boccata d'ossigeno per La7, ultimamente un po' in carenza di audience), di una tv pedagogica, nella quale Roberto Saviano recita il ruolo di maestro e istitutore e gli ascoltatori si stringono intorno a lui, come una classe, per ascoltarlo. Con autentica gratitudine per avere reimmesso nel circuito catodico generalista delle prime serate e degli share importanti una televisione seria e dall'incedere solenne. Integralmente parlata e di contenuti, e all'apparenza decisamente "antitelevisiva" (rispetto al modello di piccolo schermo partorito all'alba degli anni Ottanta), ma in grado di imporre un format che, come diceva, infatti, ieri sera Fabio Fazio nella finestra di lancio all'interno del tg, si presenta, in maniera eminente, come un «reading teatrale». Ecco, allora, che Saviano, il giovane scrittore costretto a vivere sotto scorta per il suo impegno antimafia, diventa, al tempo stesso, recitatore di narrazioni engagé ed emotivamente intense e officiante di un rito laico, che si svolge, in maniera esemplare, sotto le volte di quella maestosa "cattedrale del lavoro" rappresentata dalle torinesi Officine Grandi Riparazioni. E, difatti, non vi è nulla di più assimilabile a una comunità e a una cerimonia non religiosa della scuola, come ben sapevano Francesco De Sanctis e i ministri della Pubblica Istruzione dell'Italia unitaria che la concepirono proprio in questi termini.

Qui sta la forza di Quello che (non) ho : l'offerta di un'esperienza pedagogica, scelta intenzionalmente (e non subita), e la fruizione condivisa di una serie di idee ed emozioni a beneficio di un pubblico composto di giovani, "professoresse democratiche" (come le chiamava Edmondo Berselli) e pezzi nutriti dell'oggi assai variopinto "popolo della sinistra", precisamente i (numerosi) target estromessi, in questi anni, dalla programmazione della televisione generalista. Ovvero altrettante persone nauseate dalla tv trash (quella delle urla, del dolore, della donna ridotta a collage di parti anatomiche), stanche del "pensiero debolissimo" e in cerca di qualità. Esattamente quella che haQuello che (non) ho , insieme alla capacità di produrre, nei suoi telespettatori, identità. Perché gli uomini hanno bisogno di riti, e di pluralismo catodico. E, dunque, libero telecomando in libero Stato, facoltà fondamentale della nostra sovranità televisiva, che trasmissioni come queste ci restituiscono. Attraverso parole, parole, e ancora parole. Perché le parole (come i simboli) sono (davvero) importanti…

 

mercoledì 9 maggio 2012

Senza Speranza

   «Il socialismo non ha mai funzionato nella sua forma estrema, il comunismo. Come dimostrano molti anni di storia europea, non funziona nemmeno nella sua forma più moderata di socialdemocrazia. Se la storia europea ci può insegnare qualcosa, è che la prosperità è intrinsecamente correlata alla libertà economica. Come possiamo allora, nel XXI secolo, dopo decenni e secoli di riflessioni e di esperienze, credere ancora a ricette economiche emerse più da magie incantatorie che dalla scienza? (...) Non abbiamo più alcuna scusa per lasciarci affascinare dall'idea che uno Stato produrrà crescita semplicemente spendendo di più, quando tutte le risorse per questa dispendiosa compiacenza provengono da maggiori tasse su di noi e da maggiori prestiti fatti in nostro nome. La crescita non può essere decretata; è il risultato di decisioni non prevedibili e di azioni di un numero imprecisato di individui tutti capaci di sforzi e di immaginazione. La crescita può esserci soltanto se gli impulsi di un numero imprecisato di individui non sono paralizzati da regolamenti, tasse o dalla dipendenza dallo Stato (...). È tragico che qualcuno possa ancora pensare che una vita umana possa migliorare saccheggiando quella di un altro».