Passate a miglior vita le ideologie, c'è ancora (e, anzi, ancor più…) bisogno di narrazioni. Non sono i grands récits di cui il filosofo francese Jean-François Lyotard stilò, tra i primi, il referto di decesso, ma sempre di racconti si tratta. O meglio, di monologhi intorno a singole parole, come quelli messi in scena anche nella seconda puntata di Quello che (non) ho .
È il ritorno, in grande stile e grossi numeri (con la conseguente boccata d'ossigeno per La7, ultimamente un po' in carenza di audience), di una tv pedagogica, nella quale Roberto Saviano recita il ruolo di maestro e istitutore e gli ascoltatori si stringono intorno a lui, come una classe, per ascoltarlo. Con autentica gratitudine per avere reimmesso nel circuito catodico generalista delle prime serate e degli share importanti una televisione seria e dall'incedere solenne. Integralmente parlata e di contenuti, e all'apparenza decisamente "antitelevisiva" (rispetto al modello di piccolo schermo partorito all'alba degli anni Ottanta), ma in grado di imporre un format che, come diceva, infatti, ieri sera Fabio Fazio nella finestra di lancio all'interno del tg, si presenta, in maniera eminente, come un «reading teatrale». Ecco, allora, che Saviano, il giovane scrittore costretto a vivere sotto scorta per il suo impegno antimafia, diventa, al tempo stesso, recitatore di narrazioni engagé ed emotivamente intense e officiante di un rito laico, che si svolge, in maniera esemplare, sotto le volte di quella maestosa "cattedrale del lavoro" rappresentata dalle torinesi Officine Grandi Riparazioni. E, difatti, non vi è nulla di più assimilabile a una comunità e a una cerimonia non religiosa della scuola, come ben sapevano Francesco De Sanctis e i ministri della Pubblica Istruzione dell'Italia unitaria che la concepirono proprio in questi termini.
Qui sta la forza di Quello che (non) ho : l'offerta di un'esperienza pedagogica, scelta intenzionalmente (e non subita), e la fruizione condivisa di una serie di idee ed emozioni a beneficio di un pubblico composto di giovani, "professoresse democratiche" (come le chiamava Edmondo Berselli) e pezzi nutriti dell'oggi assai variopinto "popolo della sinistra", precisamente i (numerosi) target estromessi, in questi anni, dalla programmazione della televisione generalista. Ovvero altrettante persone nauseate dalla tv trash (quella delle urla, del dolore, della donna ridotta a collage di parti anatomiche), stanche del "pensiero debolissimo" e in cerca di qualità. Esattamente quella che haQuello che (non) ho , insieme alla capacità di produrre, nei suoi telespettatori, identità. Perché gli uomini hanno bisogno di riti, e di pluralismo catodico. E, dunque, libero telecomando in libero Stato, facoltà fondamentale della nostra sovranità televisiva, che trasmissioni come queste ci restituiscono. Attraverso parole, parole, e ancora parole. Perché le parole (come i simboli) sono (davvero) importanti…
mercoledì 16 maggio 2012
Quello che (non) ho
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