domenica 23 settembre 2018

piccoli pensieri

«L’educazione familiare mi ha pesato moltissimo. Era concepita come un continuo allenamento, un lavoro massacrante in vista di un futuro risultato che poteva arrivare o meno, come avviene per gli atleti. L’apprendistato fu durissimo. Questo mirare in alto, oggi non esiste più. L’uomo massa è soddisfattissimo di ciò che è. Per questo inneggia alla volgarità e all’insipienza. Provo una grande tristezza...»


«Si torna indietro nella Storia. A uno stadio anteriore. Siamo sommersi dalle immagini, ci si fotografa anche nei momenti più intimi, privati, perfino — almeno un tempo — imbarazzanti. La scrittura e la lettura, dunque l’apprendimento e lo studio, sembrano non avere più senso. Nel Medioevo si era ricchi di immagini proprio perché erano tutti analfabeti»

sabato 15 settembre 2018

Il maestro a testa alta

<<Perché lo avete ucciso?», chiede il magistrato. «Perché si portava i picciriddi (i bambini) cu iddu (con lui)», risponde il sicario che ha sparato il colpo alla nuca. Si tratta del Cacciatore, questo il suo soprannome a Brancaccio. Aveva sparato a padre Pino Puglisi, 3P, come lo chiamavamo noi a scuola, il 15 settembre 1993, 25 anni fa. Stavo per cominciare il quarto anno e lui, uno dei professori della mia scuola, il Liceo Vittorio Emanuele II di Palermo, non sarebbe più entrato in classe. Capo d'accusa: far giocare e studiare, con l'aiuto volontario dei ragazzi di cui era professore di religione, bambini che altrimenti erano preda della strada e di chi su quella strada comandava. Troppo poco?

3P sapeva infatti mescolare i quadrati della scacchiera di Palermo, facendo muovere chi conosceva solo la città di luce verso quella più tenebrosa, e viceversa. I ragazzi di un rinomato liceo classico aprivano gli occhi su strade nuove, perché l'inferno poteva essere girato l'angolo. A cosa serviva la cultura che ricevevamo se restavamo ciechi su ciò che avevamo accanto? Don Pino sapeva che per far rifiorire il quartiere in cui era nato e cresciuto, bisognava ripartire da bambini e ragazzi, anche se, per stare fermi e in silenzio, gli alibi non mancavano. La sua battaglia era tanto semplice quanto pericolosa: ridare dignità ai giovanissimi attraverso il gioco, lo studio, la catechesi, prospettando loro una vita diversa da quella del «picciotto mafioso». La mafia alleva il suo esercito tenendo la gente nella miseria culturale e assicurando il sufficiente benessere materiale, condizioni che riescono a garantire un consenso indiscusso nei contesti da cui attinge. Don Pino ne inceppava dall'interno il meccanismo, ripetendo a bambini e ragazzi di andare «a testa alta», perché la dignità non è un privilegio concesso da qualcuno, ma dono connaturato al nostro essere qui, voluti dal Padre Nostro e non dal Padrino di Cosa Nostra. Per questi motivi lottò per aprire un centro che chiamò «Padre Nostro», dove i ragazzi potevano stare anziché lasciarsi ghermire dalla strada, e si batté per avere la scuola media nel quartiere. Il giorno del suo omicidio era andato per l'ennesima volta nei sordi uffici del Comune a sollecitare i permessi per la scuola, inaugurata solo 7 anni dopo la sua morte.

Nonostante i molti impegni pastorali non smise mai di insegnare religione. Proprio quell'estate, forse temendo qualcosa, aveva chiesto una diminuzione d'orario, ma il preside che teneva a lui quanto i ragazzi, lo aveva convinto a non farlo. Ho conosciuto il suo volto, sempre sorridente anche se provato, da cui non traspariva la lotta impari che stava combattendo silenziosamente. La sua pace veniva dall'unione con Cristo, di cui offriva lo sguardo ad ogni persona, perché riteneva ogni vita unica e necessaria alla multiforme armonia del mondo, e infatti paragonava le singole vite alle tessere dei meravigliosi mosaici del duomo di Monreale. Per questo decisero di ucciderlo, perché scardinava il sistema mafioso da dentro, non con slogan o bei pensieri, ma lavorando accanto alle persone, calpestando le loro strade e dando loro nutrimento per il corpo e lo spirito, così che percepissero la possibilità di un'altra «strada». Per questo lo fecero fuori, erano gli anni di Riina, al quale i Graviano, capi mandamento del quartiere, erano affiliati. 3P era, a suo modo, dal basso, tanto pericoloso quanto Falcone e Borsellino, uccisi un anno prima. «Si portava i picciriddi cu iddu»: portava i bambini, non a lui, ma con lui verso una vita nuova, più piena, più bella, sicuramente meno facile, ma costruttiva, libera, vera. Padre Puglisi era «pericoloso» perché era un vero maestro, apriva la strada, ti prestava il coraggio che non avevi, come i veri padri. E proprio come i veri padri pagò di persona.

Avevo solo 16 anni. Ho provato a raccontare questa storia di tenebra e luce nel romanzo «Ciò che inferno non è», perché ha determinato il mio sguardo su me stesso e sul mondo. Ho sentito entrare dentro di me una vita molto più ampia e non volevo che quel fatto diventasse, con il tempo, l'ennesima, archeologica, commemorazione di una delle tante ferite della mia città, recuperata per l'occasione nelle soffitte della retorica. In molti sentimmo che quel sangue mite e coraggioso raggiungeva cuore e membra come una trasfusione. E così se il professore di lettere mi aveva fatto vedere «che cosa» sarei voluto diventare, un altro, 3P, mi fece vedere «come»: impegnarsi per ogni vita, anche quando c'è poco da sperare o attorno hai un sistema che ti scoraggia, ostacola, deride. Quel giorno ho capito che dovevo bandire dalla mia vita gli alibi: il pessimismo diventò per me una scusa per starsene comodi e la speranza la principale attività della testa, del cuore e delle mani. Grazie a 3P ho imparato che la vita può essere felice solo quando è impegnata per gli altri, il suo umanesimo era integrale, non solo mentale o verbale: affermare la vita altrui, costi quel che costi, perché raggiunga la vera altezza: «a testa alta, dovete andare a testa alta!». Per questo portava i bambini a guardare il cielo stellato, per trasformare il loro desiderio di vita attraverso la morte, come mostrava la mafia, in desiderio di vita attraverso la vita, come mostrava lui.

A lui mi ispiro per il mio lavoro. L'uomo che sono diventato lo devo alla ferita di quel sedicenne inconsapevole, ingenuo, egoista, che aprì gli occhi su un modo di impegnarsi nella vita che non poteva essere fatto solo di sogni e parole, ma doveva farsi carne. 25 anni dopo voglio ricordare quell'uomo minuto, sembrava che il vento potesse farlo volar via, ma gigantesco nella fede in Dio e quindi nella fede nell'uomo. L'ho constatato incontrando i ragazzi che operano oggi al Centro Padre Nostro, di fronte alla chiesa di San Gaetano. Studenti delle superiori o universitari si impegnano per i bambini come faceva don Pino, come è chiamato a fare ogni maestro, «portarsi i picciriddi cu iddu», non a lui, ma con lui: perché educare è dare a un giovane uomo coraggio verso se stesso e il mondo, ma tale forza educativa si sprigiona solo se io stesso sono impegnato, come posso, a crescere con quell'uomo. Abbiamo bisogno di maestri, il messaggio arriva forte e chiaro da una delle tante lettere sul tema, ricevuta pochi giorni fa: «Mi son sempre sentita sbagliata in classe. Ho avuto paura di occupare un posto nel mio banco e nel mondo, mi sono convinta di non essere abbastanza: abbastanza intelligente, abbastanza creativa, abbastanza bella... Non ho trovato insegnanti innamorati del proprio mestiere e capaci quindi di scovare il tesoro che ogni persona nasconde, ma insoddisfatti della propria condizione e convinti dell'inferiorità delle nuove generazioni. Ho avuto insegnanti che non leggevano una poesia "perché tanto non capireste". Così mi sono ritrovata, da sola, a cercare parole che mi avrebbero salvato. Ho divorato libri, anche il manuale di letteratura. Cercavo chi mi avrebbe abbracciato anche da epoche lontane, chi mi avrebbe dato la mano e accompagnato nei tempi più bui. Ho trovato chi mi facesse conoscere il mondo, gli altri e me stessa. Da sola. Sto studiando per diventare maestra e ho fatto la mia prima esperienza in quarta elementare. È stata una delle cose più belle che mi siano successe. Ho scoperto con i bambini mondi così profondi che non scorderò mai». Essere maestri è aprire strade e aiutare le persone a sentirsi «abbastanza», scoprendo che in realtà lo sono già: «a testa alta, dovete andare a testa alta!». 3P da vero maestro non ha mai accampato alibi (in latino «alibi» vuol dire letteralmente essere «altrove») in un quartiere difficilissimo, né a scuola, ma ha creduto in quei giovani contro ogni speranza. Ha amato lì dov'era, con lui nessuno era «sbagliato».

La più bella definizione di maestro che io conosca si trova nell'incontro tra Dante e Brunetto Latini. Il poeta dice al defunto maestro che nella sua mente «è fitta, e or m’accora,/la cara e buona imagine paterna/di voi quando nel mondo ad ora ad ora/m’insegnavate come l’uom s’etterna». Ricorda con affetto la figura «paterna», maestro è chi dà la vita, uomo o donna che sia, e gli è grato perché «ad ora a ora», che mi piace pensare in termini di quotidiano orario scolastico, gli insegnava «come l'uom s'etterna», parole che indicano l'immortalità dell'anima, ma in senso più ampio, la ricerca radicale di ogni uomo: attingere a una vita che non si rovina, ma sempre si rinnova, all'altezza del desiderio umano. Brunetto si rammarica: «figliuolo mio... s’io non fossi sì per tempo morto... dato t’avrei a l’opera conforto». Egli avrebbe voluto continuare a prestare servizio, come si dice con lampante verità anche in burocratese scolastico, alla vita dell’allievo. Maestro è chi riconosce «l'opera» che l'altro deve fare e la serve, con la sua vita. Così è stato 3P, padre che ha dato la vita perché altri ne avessero una più degna, vera, felice. L'uomo che sono oggi lo devo a ciò che vidi a 16 anni, una lezione che non dimenticherò, ed è la lezione che ha reso la mia vita bellissima, perché solo i maestri ci liberano dalla paura della vita, ci prestano il coraggio di andare a testa alta lì dove siamo, spazzando via gli alibi, e ci fanno essere «abbastanza», anche se pensiamo di non esserlo mai. Grazie, 3P, il letto oggi lo rifai tu per me.

mercoledì 12 settembre 2018

Vivere al passato come se fosse il nostro futuro

La speranza che il passato domini sul futuro diventa sempre più realistica:

Anas al posto di Autostrade, Le partecipazioni statali in prima fila  a gestire gli appalti, la naja per i giovani così diventeraqnno più responsabili e sapranno come utilizzare al meglio il loro tempo libero, una libertà meno libera: troppa libertà esaspera e offende la vita, due giocatori starnieri per squadra così avranno più opprtunità di lavoro i nostri giovani e la nazionale soffrirà di meno

Tutta questa nostalgia del passato può avere talvolta effetti comici; ma va presa sul serio perché è molto moderna. Risponde appieno alla paura di una società che è stata disillusa dalla retorica del futuro, dalla promessa di uno scambio tra sacrifici e nuove opportunità, rivelatasi in Italia vuota e beffarda. È figlia della grande paura della competizione di una fetta del Paese che spera di potersi rifugiare nella protezione di un Leviatano pubblico, così forte da poter fare a meno di tutti, compresi gli altri Stati europei, arroccandosi intorno al suo debito e al suo stellone.

I Cinquestelle sognano questo ritorno al passato come il futuro: l’utopia di un governo “etico” che insegna ai cittadini la strada verso il Benessere Collettivo. I sovranisti lo scelgono invece con crudo realismo, perché concepiscono il futuro come il passato, e cercano nello scontro tra nazioni il riscatto della grande proletaria. Ma tutt’e due sono l’effetto, non la causa, di un malessere nazionale che spinge oggi la maggioranza degli italiani a sperare nel passato. Forse il problema più grande del nostro Paese.

domenica 9 settembre 2018

La filosofia è come una Bibbia laica

La filosofia non è utile o inutile, è imprescindibile. È una seconda pelle appiccicata all’individuo e alla società. Invano l’umanità ha cercato di strapparsela di dosso in favore della religione, della scienza oppure, oggi, delle pratiche tecnologiche: qualsiasi scelta che si compie è una scelta dettata da una ragione, ovvero una scelta filosofica. Per predisporre delle leggi, per commentare le notizie, per determinare la propria vita ci si muove da una conoscenza cumulativa delle cose che è la filosofia. La filosofia, intesa come campo ermeneutico e retorico, è ciò che ci guida — consapevolmente o meno — nelle scelte.

La filosofia non è solo conoscenza della natura (aspetto di competenza delle scienze dal XVII secolo), non è solo studio del modo in cui avviene il ragionamento (logica) o conoscenza delle cose ultime, ovvero metafisica, sulla quale grava il pregiudizio di qualcosa di astruso. È anche storia delle idee e azione di critica e selezione di ciò che scegliamo e facciamo; e proprio lo sviluppo contemporaneo delle tecnologie, l’articolarsi delle problematiche politiche, giuridiche, artistiche e teologiche, invece di «mandare in pensione» la filosofia, ha finito per aumentarne la necessità.

La filosofia è un’esigenza che sgorga dalla vita e dalle sue ineludibili domande; non è una disciplina a se stante. Al punto che l’uomo, come non può fare a meno di respirare, non può fare a meno di fare filosofia. È questo l’orientamento che sottende alla pubblicazione della collana Filosofia. Storia, parole, temi, curata da Nicola Abbagnano (1901-1990), Giovanni Fornero, Paolo Rossi (1923-2012), tre grandi storici del pensiero, proposta dal «Corriere della Sera» con Utet. Quest’opera non è un testo estemporaneo, ma frutto di un lavoro sedimentato negli anni (due dei tre autori sono scomparsi). È un «classico» che ha già conseguito un’autorevolezza che va al di là della contingenza (fu recensita con grande approvazione da Eugenio Garin e Norberto Bobbio). Si tratta dell’insieme di tre «monumenti» della cultura filosofica italiana: la Storia della filosofia e il Dizionario di filosofia di Abbagnano e La filosofia diretta da Paolo Rossi. Sono invece una novità le brevi introduzioni pensate per un largo pubblico. Queste si presentano come una fotografia di insieme: essere chiari è un dovere in una società democratica.

Dalle discussioni sulla globalizzazione a quelle sui nuovi diritti; dalle analisi sul rapporto uomo-Dio nelle società secolarizzate a quelle sulle influenze dei media; dalle riflessioni sull’intelligenza artificiale a quelle sui concetti di democrazia, uguaglianza e pluralismo, ogni scelta sulle realtà contemporanee s’incontra o scontra con problemi filosofici.

Anche se non sembra, gli uomini del nostro tempo si interrogano spontaneamente su questioni di natura filosofica attestando un diffuso «bisogno di filosofia». Eppure, anziché ammettere questo portato, sembra che si voglia esaltare il suo contrario: l’incompetenza. L’incompetenza al potere sembra aver sostituito quell’«immaginazione al potere» di moda negli anni Settanta come sistema di lotta alle storture della società. Mentre in quegli anni si trovavano nelle pagine di filosofi come Marcuse, Adorno, Horkheimer le parole d’ordine per combattere il «Sistema» imperialistico e borghese, oggi la battaglia contro il «Sistema» delle élite e della finanza globalista si combatte attraverso il rifiuto delle competenze e, ingenuamente, il superamento della cultura umanistica.

Questo apparente disprezzo per la cultura e gli esperti (rimando al testo di Tom Nichols La conoscenza e i suoi nemici, edito da Luiss University Press) delle forze cosiddette «populiste» è responsabilità delle vecchie élite che, tradendo gli ideali illuministici — quelli di offrire una crescita collettiva attraverso una buona scuola, libri, meritocrazia, libero esercizio critico, istituzioni aperte — hanno chiuso il sistema culturale, impedendo la crescita dei singoli individui. Da qui il rifugiarsi dei giovani in un autistico universo digitale fintamente libero e nell’apprendimento di pratiche tecniche ad obsolescenza immediata. Ma anche l’arrivo di questi «nuovi barbari» è una «rivoluzione filosofica», forse utile per passare a un rinnovato paradigma nel quale ridare posto a una conoscenza aperta, liberata da un incancrenito ancien régime universitario, giornalistico, editoriale...

Per altro, la rivoluzione di questi «nuovi barbari» avviene sotto l’egida di due parole filosofiche: identità e libertà. La filosofia è rivoluzione permanente ed è liberazione dall’ipocrisia, apertura a un dialettico rapporto tra esperti e cittadini.

La filosofia è come una Bibbia laica. Il filosofare si identifica con l’esistenza degli uomini: come voleva Platone, non si può essere uomini senza essere filosofi. Tanto più che «Ogni uomo vive in una cultura, in un certo tipo o forma di civiltà, e partecipa agli usi, ai costumi, alle credenze che la costituiscono. E usi, costumi, credenze, delineano nel loro insieme un atteggiamento di fronte al mondo che a sua volta obbedisce a una visione complessiva del mondo stesso», scriveva Nicola Abbagnano, padre delle storie della filosofia italiane e coautore dei volumi che presentiamo.

«Per queste caratteristiche e per la sua rinnovata capacità di fungere da disciplina in cui si dibattono i grandi temi che riguardano la nostra vita e il nostro sapere — scrive Giovanni Fornero — la filosofia risulta quindi attuale e per molti aspetti inevitabile». Soprattutto in una realtà planetaria problematica e complessa come la nostra, che pone una serie di sfide intellettuali ed esistenziali di inedita portata. Il celebre detto latino primum vivere, deinde philosophari («prima vivere, poi filosofare») è, non a caso, un detto filosofico e testimonia come la filosofia sappia anche collocarsi un passo indietro quando è necessario. Restando, però, sempre lì, accanto.

Re filosofi o filosofi re?

O i filosofi diventano re nei nostri Stati, oppure quelli che noi chiamiamo re devono impegnarsi seriamente e perseguire la filosofia: ci dev’essere un incontro fra il potere politico e l’intelligenza filosofica, altrimenti i problemi che minacciano gli Stati e la stirpe umana non avranno fine. Più o meno questo affermava Platone, nella Repubblica (473d). Il nesso fra filosofia e politica fu recepito molto bene dal popolo più pragmatico della terra, i Romani. Con la consueta modestia, Cicerone descriveva il suo consolato e il proconsolato d’Asia rivestito da suo fratello come realizzazioni del sogno platonico.

Nicola Abbagnano è l’autore della «Storia della filosofia» e del «Dizionario di filosofia» ricompresi nell’opera pubblicata dal «Corriere» in collaborazione con Utet

Con la conquista della Grecia, a metà del II secolo avanti Cristo, vi fu un afflusso di ostaggi greci in Italia, fra cui retori e filosofi, che furono poi inviati a governare città e province, e usati come diplomatici in virtù della loro capacità di parlare e soprattutto di convincere. Nel 155 a.C. una delegazione ateniese composta dallo stoico Diogene, dal peripatetico Critolao e dallo scettico Carneade si recò a Roma per chiedere il condono di una multa. Catone il Vecchio commentava: «Questi uomini discutono così bene che potrebbero ottenere qualsiasi cosa vogliano». Durante il soggiorno nell’Urbe, i tre tenevano lezioni pubbliche: un giorno Carneade discettò della giustizia naturale come guida della politica negli affari internazionali, e il giorno dopo sostenne, con pari abilità, l’inesistenza della giustizia naturale stessa. Catone allora spinse il Senato a concludere i patti al più presto, cosicché i Greci tornassero ad Atene e i Romani si rimettessero a studiare la loro legge e le loro magistrature.

Soprattutto dal I secolo a.C., i rampolli della nobiltà romana presero ad andare in Grecia a completare gli studi, ma nella classe dirigente rimase ferma la convinzione che la superiorità intellettuale dei sudditi greci, come tutti gli aspetti della cultura ellenica, dovesse essere sottomessa al diritto, alla politica, alla forza militare di Roma.

Lo stoicismo ebbe particolare successo, e di fatto predominò per due secoli, a partire da Augusto. Mentre l’oratoria, frutto della libertà repubblicana, si spegneva, la tranquillitas e la securitas stoiche sembravano l’antidoto migliore alle frustrazioni politiche e ai postumi delle guerre civili. Anche gli epicurei godettero di un discreto pubblico. Nella sontuosa Villa dei Papiri di Ercolano, Calpurnio Pisone, suocero di Cesare, s’intratteneva con Filodemo di Gadara, caposcuola epicureo in Campania, seguito anche da Virgilio e Orazio. Chi mal tollerava le coercizioni della politica del I secolo a.C. poteva trovare nell’atarassia e nel piacere epicureo una via di fuga.

Nel periodo imperiale i filosofi si trovarono a un bivio: contestare il potere monarchico o diventare maestri e consiglieri dei prìncipi? La filosofia poteva aiutare il sovrano a porre la domanda più importante: che differenza c’è fra un re e un tiranno? Com’è prevedibile, il rapporto fu burrascoso — basti pensare a quello fra Nerone e Seneca, conclusosi con il suicidio del maestro. Spesso i filosofi furono visti come pericolosi fomentatori di ribellione e furono periodicamente cacciati da Roma, con misure tanto crudeli quanto inutili.

Nel frattempo la filosofia si integrò progressivamente nella vita romana, raggiungendo un pubblico assai vasto. Il Trimalcione di Petronio, che si vantava di non aver mai ascoltato un filosofo, parla di concetti stoici, come l’uguaglianza di tutti gli uomini compresi gli schiavi. Più avanti, Luciano descrive una ragazza che, fra un pasto e un’acconciatura, ascolta il filosofo di casa discettare sulla castità, argomento evidentemente concesso alle donne.

Quando l’imperatore Marco Aurelio nel 177 d.C. propose al Senato di stabilire un tetto per i vertiginosi prezzi dei gladiatori, rinunciando alle tasse che lo Stato traeva da questa compravendita, fu elogiato per la coerenza con il suo orientamento stoico. Ma si trattava di un’eccezione; più spesso, come sostenne la studiosa Miriam Griffin, i monarchi romani trovarono nella filosofia greca non tanto direttive o soluzioni precise, ma un lessico, un vocabolario morale per soppesare alternative e giustificare decisioni politiche, in una società dove la religione tradizionale era poco metafisica, e ancor meno etica.

Perché filosofare?

«L’eredità lasciata dalla Grecia alla filosofia occidentale è la filosofia occidentale». Molti anni fa lo storico Moses Finley chiese ad alcuni eminenti colleghi di riflettere su quello che la nostra civiltà ha ereditato dal mondo antico. La lista è lunga: dalla democrazia al teatro, molte delle istituzioni e tradizioni che regolano le nostre vite sono nate proprio in Grecia, qualche millennio fa. Vale anche per la filosofia, naturalmente. Con una particolarità, però, che evidenziava Bernard Williams, uno dei più importanti pensatori di questi ultimi anni, nella frase appena citata. Non si tratta soltanto di ricordare che la filosofia si è formata in Grecia per poi svilupparsi altrove. In filosofia non ha senso parlare di progressi o evoluzioni. L’eredità della filosofia greca è la filosofia, semplicemente: siamo sempre lì. Il problema è capire che cosa sia la filosofia.

Una delle prime occorrenze del termine si trova in uno storico, Erodoto, quando parla di Solone, un poeta, e dei viaggi che aveva compiuto alla scoperta del mondo mediterraneo. Per questo Erodoto lo chiama philosophos. Per Pericle, il grande politico ateniese, philosophoi erano addirittura tutti gli Ateniesi, sempre pronti ad andare a teatro e sempre curiosi di ogni novità. Per Eraclito, invece, era un insulto: philosophoi sono quelli che si perdono dietro al vano desiderio di erudizione e non capiscono le poche cose che contano. È curioso: uno dei primi filosofi rifiuta con sdegno la parola, che invece altri sono ben contenti di usare. Per fare un po’ di ordine, bisognerà aspettare Platone.

Che cosa significa philosophia? La risposta è semplice: un desiderio, un amore (philo-) per il sapere e la conoscenza (sophia). Sembra banale: siamo animali razionali, è evidente che l’uso del cervello, la conoscenza e il sapere, siano importanti per la nostra vita. Diventa meno banale quando ci rendiamo conto che conosciamo molto meno di quello che pensiamo. Philosophia è il desiderio di sapere. Ma il desiderio è sempre di quello che non si ha. E infatti su ciò che davvero conta non sappiamo anzi quasi nulla: chi siamo? Da dove veniamo e dove andiamo? Che cos’è la giustizia: esiste o è una semplice convenzione? E Dio o l’amore?

Non si tratta di problemi astratti o polverosi, come spiega Socrate a Trasimaco. Se non sappiamo cosa è bene e cosa è male, è difficile pensare di poter vivere felicemente. Ancora peggio: se crediamo di sapere e invece non sappiamo, se crediamo che sia bene qualcosa che è male, l’infelicità è assicurata. Non resta dunque che riflettere e ragionare, liberandoci delle convinzioni infondate, cercando ciò che davvero importa. L’ambizione della filosofia è imparare, e insegnare, a pensare bene per vivere bene.

Non è un compito facile e a volte sembra che si giri a vuoto con discussioni inconcludenti. Non stupisce allora che fin dai tempi di Platone l’obiezione sia sempre la stessa: filosofare non serve a nulla. Da un certo punto di vista è così: ed è la grandezza della filosofia. La filosofia non serve a nulla, perché non è un sapere servile, perché non si piega alla realtà, accettandola come viene presentata: la mette in discussione pensando a nuove soluzioni e alternative, ricordandoci che le cose potrebbero andare diversamente da come vanno, e magari pure meglio. Senza però, e questo è il punto più importante, voler imporre nulla a nessuno.

Era la lezione di Socrate, il filosofo per eccellenza per tutti (o quasi: Epicuro lo considerava un insopportabile trombone). Interrogava le persone che incontrava, mettendone alla prova il sapere (spesso più apparente che reale), cercando di liberarle dai pregiudizi. Ma non si pretendeva in possesso di alcuna verità: sapeva di non sapere. Criticava senza offrire risposte definite. Aiutava a mettere a fuoco i problemi e le domande; invitava a pensare, riflettere, ragionare. Ognuno poi, ciascuno singolarmente preso e ogni generazione nel suo insieme, avrebbe dovuto trovare la propria risposta. È la sfida più bella. Sarebbe un peccato non accettarla.

Per farlo bisogna evitare un errore decisivo. Tutti siamo naturalmente filosofi, perché i problemi della filosofia sono i problemi di tutti. Ma dobbiamo anche imparare a filosofare, vale a dire a ragionare, che è meno facile di quanto si creda. Per ragionare bene bisogna prima comprendere di che cosa si discute, quali sono le vere questioni, e come possono essere affrontate. A questo servono manuali, dizionari e storie, quando sono fatti bene. E per questo vale la pena, ancora oggi, di dedicarsi a Eraclito e Parmenide, Platone e Aristotele, Epicuro e gli Stoici, con le loro idee originali, a volte strampalate ma sempre appassionanti.

Tanto, piaccia o non piaccia, della filosofia non si può fare a meno, spiegava Aristotele: «Chi pensa che sia necessaria la filosofia, farà filosofia; e chi pensa che non sia necessaria, dovrà comunque filosofare per dimostrare che non si deve filosofare: dunque si deve filosofare in ogni caso, o andarsene di qui dando l’addio alla vita, perché tutte le altre cose sono solo chiacchere e vaniloqui». Se lo dice lui…

filosofia e religione si incontrarono. La rivoluzione culturale di Cristo

Intorno alla metà del II secolo dopo Cristo, nella città greca di Corinto, un rabbino ebraico si imbatté casualmente in un cristiano ed ebbe con lui una lunga discussione sull’interpretazione delle profezie messianiche contenute nella Bibbia. Il loro dialogo venne poi messo in forma scritta dall’interlocutore cristiano, Giustino, ed è giunto sino a noi con il titolo di Dialogo con l’ebreo Trifone. Nelle battute iniziali, però, quest’ultimo identifica Giustino come un filosofo, giacché indossava un mantello con cappuccio, il pallium, caratteristico dei maestri di filosofia. Lungi dall’esserne imbarazzato, Giustino ricostruisce il suo percorso intellettuale che lo aveva visto vagare da una scuola filosofica all’altra (platonica, stoica, aristotelica…) rimanendone sempre insoddisfatto, sinché non si era imbattuto in un maestro che lo aveva introdotto alla lettura della Bibbia e alla «filosofia» cristiana, presentata come l’unica vera che permette di raggiungere con certezza le verità ultime su Dio, il mondo e l’uomo.

Un paio di decenni più tardi, Melitone, vescovo della città di Sardi in Asia Minore, scrivendo direttamente all’imperatore Marco Aurelio, noto amico dei filosofi ma non altrettanto dei cristiani, segnalerà la coincidenza cronologica tra la fondazione dell’impero da parte di Augusto e la nascita della «nostra filosofia», quella dei cristiani, volendo così sottolineare il comune destino che legava entrambi. L’idea che il cristianesimo fosse una «filosofia» rimase costante nel pensiero cristiano di tutti i primi secoli, generando pensatori di spicco quali Origene e Agostino. Si tratta di una novità importante rispetto al mondo antico, che ha cambiato profondamente il significato e il ruolo stesso della religione e della filosofia.

Fino alla comparsa del cristianesimo, la religione costituiva anzitutto un’attività pubblica, un «fare» che si concretizzava in riti e sacrifici, cui assistere e partecipare; nessuno vi collegava un «credere», al massimo ci si rifaceva al mito tradizionale come ad uno sfondo narrativo. Il discorso su Dio era invece proprio della filosofia, anzi di una parte specifica di essa, ovvero quella che si occupava dei principi fondamentali della realtà (in greco le archai), che ad esempio la tradizione platonica identificava nelle idee, nel numero, nella materia, oltreché appunto nel divino. Le diverse filosofie, poi, potevano ispirare una specifica etica, che si traduceva in un concreto stile di vita: la vita ritirata e al riparo dagli affanni degli epicurei, il rigoroso impegno civile degli stoici e così via.

Affacciandosi nel mondo greco e romano dopo la sua genesi nell’ebraismo, il cristianesimo legò invece in unità tutti questi ambiti: la pratica cultuale (anzitutto il battesimo e la celebrazione eucaristica) si associò a un sistema di conoscenze e di credenze relative a Dio e alla sua intrinseca realtà (a partire dalla persona di Cristo, Dio incarnato, nel suo rapporto con il Dio creatore del mondo, il Padre), dal cui insieme scaturiva un’etica esigente che a sua volta si alimentava alla liturgia e alla lettura della Bibbia. Se prima la filosofia rappresentava un interesse limitato alle ristrette élite che possedevano gli strumenti materiali e intellettuali per poterla coltivare, ora essa si universalizza e si allarga a tutti gli strati sociali, attraverso la mediazione degli intellettuali e dei predicatori cristiani, che si impegnano a ridefinire gli orizzonti della speculazione tradizionale a partire dalla Bibbia e dalla sua interpretazione.

In questo modo, il cristianesimo riuscì a intercettare e a plasmare nella direzione voluta fenomeni sociali e culturali abbozzati o già in atto. Presentandosi nel mondo romano come una «filosofia», il cristianesimo si inserì efficacemente, da un lato, nella crescente vita intellettuale delle città dell’impero, specie nel periodo di pace e prosperità del II secolo, e dall’altro poté superare le perplessità suscitate dal fatto che a differenza delle religioni tradizionali e dello steso ebraismo non celebrava sacrifici o altri riti paragonabili (l’idea della celebrazione eucaristica come «sacrificio» si affermerà solo nel IV secolo).

A sua volta, il cristianesimo rafforzò, fino a egemonizzarla, la tendenza della filosofia di epoca imperiale a concentrarsi sul divino quale tema metafisico centrale: con i pensatori cristiani, il discorso su Dio cessa di essere una parte, per quanto importante, della riflessione sulle archai, per acquisire piena autonomia e collocarsi al culmine dell’intero sistema delle conoscenze, cui tutte le altre discipline risultano finalizzate. La filosofia inizia così il cammino che la condurrà a essere ancilla theologiae, «serva della teologia» nel sistema medioevale delle arti liberali, scolasticamente organizzate nell’insegnamento del trivio e del quadrivio.

Nella società cristiana medievale, però, sia la teologia, sia la filosofia torneranno ad essere dominio di una ristretta élite, in qualche misura rinnegando l’iniziale presentazione del cristianesimo quale «vera» filosofia e canale universale di accesso alla verità su Dio e sull’uomo.

Il bel paese è diventato invivibile

È bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese. La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra. Ho parlato di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico. Inizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere.

Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa — i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni — ; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica. Nel dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni» sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari» chiamandola per l’appunto signora.

Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Un compito — questo mi sembra oggi molto importante — svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto pensavano di doverlo essere. Ma proprio perciò esse assolvevano un compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto, sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere realmente libero, — fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità — e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata.

Come invece sono andate le cose si sa. L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra — per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno. È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’autoriconoscimento collettivo. Ci siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando.