lunedì 30 dicembre 2013

trilogia di Kiéslowski

L'apparizione di un mistero, affascinante, coinvolgente: questa era stata la sensazione provata dal pubblico europeo fin dalla prima rivelazione del talento del polacco Krzyisztof Kiéslowski con "Il Decalogo", nel 1989. Tra il 1992 e il 1994 escono tre film di Kiéslowski e dello sceneggiatore Krzyisztof Piesiewicz dedicati ai tre colori della bandiera francese e ai tre principi della Rivoluzione del 1789: libertà, uguaglianza, fraternità. Il "Film Rosso", l'ultimo, rappresenta quindi la summa dell'intero progetto artistico e, purtroppo, fatalmente, dell'intera opera del regista. Questi infatti è morto appena due anni dopo. 

La trama del "Film Rosso" sembra, a parole, apparentemente semplice. Una modella in cerca di se stessa, un giovane giudice imprigionato in una relazione sentimentale poco soddisfacente incrociano le proprie esistenze secondo una serie di infiniti capricci del caso, finché il caso stesso non muta in destino e i due, scampati all'affondamento del traghetto sulla Manica sul quale viaggiavano separatamente, si incontrano e si innamorano. Chi si aspettava una elucubrazione su concetti filosofici si trova di fronte, nella trilogia, come già nel caso del "Decalogo", a storie che seguono le vicende di personaggi comuni, immersi nella quotidianità dell'Europa post guerra fredda. La stessa rappresentatività dei casi scelti sembra essere messa in dubbio da Kiéslowski quando il regista, nel finale del "Film rosso", ci rivela che i personaggi dei tre film corrispondono a sei superstiti del naufragio del traghetto sulla Manica. Forse sarebbero state ugualmente significative altre vicende e l'atto arbitrario di restringere il campo (simile a quello secondo cui nel "Decalogo"ci si occupava degli inquilini di uno stesso palazzo popolare di Varsavia) non può negare la verità che ogni uomo nasconde una storia degna d'essere raccontata. 

Il fascino di questa vicenda sta nel senso di mistero di cui, ancora una volta, Kiéslowski riesce a caricare la propria opera, facendo presagire anche allo spettatore più distratto che il film presenti diversi piani di lettura. Uno, piuttosto evidente, è suggerito dal terzo personaggio della vicenda, il giudice in pensione interpretato da Jean-Louis Trintignant, ed è di natura etica. Kiéslowski si rifiuta, come nel "Decalogo", di interpretare l'argomento secondo una facile chiave politica (pensate a quanto sarebbe stato facile segnalare le violazioni dei Comandamenti o dei principi democratici da parte della classe dirigente), ma si propone invece problematiche di natura morale. In questo caso il giudice, incontrato per caso dalla giovane Valentine (che ha investito il suo cane con l'auto) e sorpreso da lei nell'attività di intercettare le conversazioni telefoniche dei vicini, pone subito lo spettatore di fronte a un dilemma molto amaro. L'intrusione voyeuristica nelle vite degli altri è certo riprovevole (e la reazione di Valentine è di profondo sdegno), ma non lo è anche il ritegno della ragazza nell'avvisare i vicini stessi? Peggio ancora: l'uomo, profondamente amareggiato dalla vanità della sua passata professione ("il solo pensare che si possa decidere cosa è vero e cosa non lo è oggi mi sembra un atto di presunzione"), dall'inutile tentativo di stabilire i confini del bene e del male in un mondo che gli si rivela sempre più opaco, sembra sfruttare le intercettazioni come una costante conferma della propria disaffezione nei confronti della gente, investendo anche la giovane con la forza della propria filosofia negativa. Da un punto di vista etico si propone quindi un interrogativo durissimo sulla stessa possibilità non solo di esercitare la giustizia ma anche di commettere un semplice atto di bene nei confronti del prossimo, che non sia vanificato dalla complessità delle cose. Di fronte allo sgomento di questa manifestazione di esperienza delusa si pone lo sdegno della donna, la sua convinzione che "la gente non è cattiva" e che la vita sia di fatto un campo aperto alle infinite possibilità dell'azione umana. Un dilemma che è anche un confronto tra due atteggiamenti verso la vita, quello di un uomo maturo e quello di un giovane. Questo livello di lettura non fa però che sfiorare un'angoscia che pervade il film e che caratterizzava tutto il film "Blu": l'ossessione dei dialoghi telefonici (spesso deludenti e vacui) tra i personaggi, e peggio ancora delle intercettazioni, il ripetersi dei raccordi di suono e dei rumori diegetici come inquietanti elementi narrativi rimanda all'incubo ben più vasto della solitudine, della separazione dagli altri che è l'unico elemento ad accomunare veramente le tre figure principali. Questa era la problematica"libertà" che Kiéslowski aveva analizzato nel primo film della trilogia, confrontandosi per la prima volta con una società occidentale dove sembrava emergere sempre di più l'impossibilità del contatto col prossimo, l'isolamento accentuato dai mezzi tecnologici (basti pensare all'onnipresenza, in quel film, della televisione), il solipsismo. Allo stesso modo l'"uguaglianza" si trasformava, nel "Film Bianco"della Polonia post comunista, in una situazione dove "tutto può essere comprato", l'uomo è dominato dalle cose e trasformato anch'egli in oggetto . Kiéslowski non risparmia all'Europa della trilogia critiche meno feroci di quelle riservate al regime polacco in opere come "Destino cieco" e "Senza fine" negli anni Ottanta, solo in relazione alla forte negatività dei primi due film il "Rosso" può essere considerato una luce di speranza. In "Film Blu" l'apertura agli altri della protagonista avveniva con un estremo atto di generosità, qui invece la dolcezza e l'innocenza del personaggio interpretato da Irene Jacob sono un elemento presente fin da subito, in grado di far da contraltare rispetto al dubbio doloroso del personaggio maturo. Il giudice, di fronte all'accusa della ragazza ("per lei si può solo provare pietà"), si auto-denuncia, spezzando così il muro della non interazione con il prossimo. Il rapporto tra i due si intensifica, lui la attrae a sé, ed ognuno dei due sembra trovare qualcosa di necessario, mancante o perduto. Il tema del voyeurismoci rimanda quindi ad un ulteriore livello di lettura, quello suggerito dal confronto con un'altra opera di Kiéslowski, "Non desiderare la donna d'altri"(titolo italiano della versione estesa, per il cinema, di "Decalogo 6 - Non commettere atti impuri"). In quel film un ragazzo si innamorava di una donna spiandola con un cannocchiale. Costretto a rivelarsi, sembrava quasi essere distrutto nella sua illusione romantica dal cinismo della donna, la quale però, nel finale, andava a trovarlo a casa e , guardando dal cannocchiale verso la propria finestra, vedeva l'immaginaria sequenza di un possibile futuro insieme. L'uscita dall'isolamento per Kiéslowski non vuol solo significare un problema etico, ma una questione d'amore, inteso come condivisione della propria vita con gli altri. Dalla condivisione nasce la rivelazione di se stessi: il giudice confessa a Valentine che la sua amarezza nasce in realtà da un tradimento amoroso subito in gioventù, la ragazza sembra prendere coscienza di sé e del suo ruolo nel mondo, risolvendosi a tornare da Ginevra (dove il film è ambientato) in Inghilterra, per aiutare il fratello tossicodipendente. Il motivo voyeuristico muta in sguardo appassionato, d'amore: i raccordi di sguardo (che riguardano anche una foto immensa in cui Valentine è ritratta su sfondo rosso per una pubblicità) sono quelli che collegano la ragazza al giovane giudice nel gioco infinito di intrecci a vuoto che i loro due destini subiscono. Il personaggio del ragazzo, Auguste, andando incontro alla scoperta del tradimento da parte della fidanzata, si rivela una figura parallela a quella del vecchio giudice: un alter ego, o un'altra possibilità della stessa storia. Quando Valentine chiede al giudice che cosa possa fare lei per aiutare veramente il fratello, questi le risponde "può fare una cosa. Esserci": è possibile quindi, in questo film, esserci per gli altri, predisporsi a condividere parte delle nostre vite con essi. Più di questo non è dato: nel caso di Auguste l'amore troverà il modo di mutarsi da possibilità in destino, con l'incontro tra lui e Valentine sul traghetto. Nel caso del giudice l'amore sentimentale non si è mutato in atto ("Sì, smisi di credere. O forse semplicemente non incontrai...non incontrai lei?"dice alla giovane), e il meccanismo consolatorio funziona solo in apparenza. Per lui è venuto però, attraverso l'incontro tardivo con l'"innocente" Valentine, il richiamo a un amore più vasto e duraturo di quello sentimentale: la fraternità col prossimo. L'ultimo livello dell'interpretazione riguarda Kiéslowski stesso: se la dimensione dell'amore è lo sguardo, allora il primo a condividere le vite di tutti questi personaggi è proprio il regista - voyeur che ne segue le esistenze passo passo, con partecipazione commossa, facendo del cinema stesso un atto d'amore e fraternità. Il mistero del destino che ci unisce e ci divide, della rete infinita di legami che uniscono ogni destino agli altri, è resa dal regista attraverso i mezzi del cinema: il montaggio, la luce, il colore (basti seguire la rete di rimandi del colore rosso), a creare un senso di infiniti deja vu, di corrispondenze quasi subliminali. E' necessaria infatti una fitta rete di rimandi visivi per rendere quel senso di fatalità che è l'anima del film: si noti il ritorno puntuale di una serie di immagini di cose e luoghi come l'auto rossa di Auguste, la strada che porta alla casa del giudice, il manifesto che ritrae Valentine. Allo stesso modo, per trasmettere l'idea di due esistenze (quella di Valentine e quella di Auguste) che si svolgono quasi in parallelo, vicine ma senza piani di tangenza, è necessario un uso mirato del piano sequenza, per cui le vicende del ragazzo si svolgono spesso in secondo piano rispetto alla presenza della protagonista nella stessa immagine, oppure attraverso il filtro di una finestra. Ampi movimenti di macchina, sempre all'interno del piano sequenza, sottolineano invece il rapporto di attrazione e repulsione tra la ragazza e il giudice nei confronti più drammatici che si svolgono all'interno della casa di lui. L'idea del doppio è resa anche dal ripetersi della vicenda del giudice - amante tradito, raccontata a parole nel caso di Trintignant e invece vissuta dallo spettatore insieme ad Auguste grazie ad un altro lungo movimento della macchina montata sulla gru Technocrane. Ma duplici sono anche i rimandi interni all'opera di Kiéslowski, dai più evidenti come l'uso della stessa attrice di "La doppia vita di Veronica"(Irene Jacob) alle cose più marginali, come la vecchina che cerca di gettare la bottiglia di vetro, già presente, non aiutata da nessuno, in"Non desiderare la donna d'altri", e qui soccorsa da Valentine. Tutto l'intreccio del "Film Rosso" si svolge attraverso la figura del giudice: la decisione di Valentine di salvare il cane e riportarglielo innesca infatti una catena di conseguenze decisive. La fidanzata di Auguste conosce l'uomo con cui lo tradirà proprio al processo per le intercettazioni seguito all'auto-denuncia di Trintignant, la decisione di prendere il traghetto (su cui conoscerà Auguste) viene suggerita alla ragazza sempre dal vecchio giudice, come se questi presentisse l'occasione di veder realizzato finalmente, attraverso i due giovani, il suo amore mancato. La figura del giudice è quasi demiurgica, simile a quella, analoga, del marionettista ne "La doppia vita di Veronica", tanto che la ragazza gli si rivolge chiedendo "Ma chi è lei veramente? Come fa a sapere tutte queste cose?": è una sorta di regista interno al film. 

Ma Kiéslowski non è un demiurgo che instaura l'ordine nell'universo dei suoi personaggi, anzi: lui si abbandona, come loro, al mistero stesso dell'esistenza, rappresentandolo nel modo più naturale, attraverso una rete di "segni, segnali/ ben poco importa se oscuri". Queste parole sono tratte da una poesia, "Amore a prima vista" di Wislawa Szymborska, che viene letta per caso da Kiéslowski dopo l'uscita del film e che è da lui commentata così: "E' una poesia che parla esattamente di "Film Rosso". Ed è la prova che due persone che non si conoscono, non hanno nulla a che fare l'una con l'altra...sentono come importante nello stesso tempo una stessa cosa, pensano che la stessa cosa possa costituire l'oggetto di una poesia o di un film. Come questo succeda, non lo so."Complementare al motivo esistenziale di Kiéslowski è quello etico dello sceneggiatore e sodale Piesiewicz: "La fraternità è quel terzo elemento a cui ci avviciniamo in fondo con ottimismo, che diamo come possibilità, forse un po' idealisticamente, ma che cosa si può fare oggi, se non farsi carico di un sentimento come questo e portarlo avanti?". Chissà cosa direbbe Kiéslowski del 2009. Poco dopo l'uscita del "Film Rosso" si è invece ritirato a vita privata, dichiarando di non aver altro da dire come regista. Come in uno scherzo tragico del destino in uno dei suoi film, subito dopo un primo attacco di cuore lo ha costretto a una degenza casalinga, poi un secondo l'ha portato via, il 13 marzo del 1996. Se tutto quel che si può fare è "esserci" si può dire che Kiéslowski c'è stato, che i suoi film ci sono ancora. Nessuno che li abbia amati veramente può accettare fatalisticamente di non vederne più uno nuovo o credere sul serio che egli avesse concluso, come diceva, la sua opera. Il significato profondo di questa si può racchiudere nelle frasi di San Paolo che egli fa cantare nel "Concerto per l'Europa Unita" sul finale del "Film Blu":"E quando avessi il dono della profezia/ e conoscessi tutti i misteri/ avessi tutta la fede/ per trasportare le montagne/ se non ho amore/ non sono nulla". 

 

martedì 22 ottobre 2013

il metodo si Sugata Mitra

I suoi modi d'insegnamento rivoluzionari conquistano i ragazzini. «Prima seguivo rigidamente i programmi ministeriali, ma gli alunni si annoiavano - racconta -. Navigando su internet ho scoperto il metodo di Sugata Mitra». Secondo il teorizzatore del «minimally invasive education» (educazione minimamente invasiva), i bambini possono imparare in maniera autodidatta, specie con l'aiuto delle tecnologie informatiche. Così Sergio Juárez rompe il protocollo e improvvisa, ignorando il metodo Montessori e le teorie di Piaget. Potere alla creatività, cancellata la «gogna» della lavagna e più lavoro di gruppo: imparare divertendosi è il nuovo imperativo. Anche il caos e il rumore diventano costruttivi, abbattendo la rigida disciplina insegnata tra i banchi messicani. Ma l'assenza del Web a scuola resta un ostacolo. Il maestro diventa un tramite: annota le più disparate curiosità degli studenti e consulta Google da casa. Il giorno successivo torna in aula con la risposta. 

 

Non mi lascio distrarre

«Non sono su Facebook, non sono Linkedin, non sono su nulla. La cosa non mi interessa, non mi lascio distrarre». 

 

mercoledì 16 ottobre 2013

Le Regole

Mancano genitori che si prendano la responsabilità di crescerli. I bambini soffrono perché non si danno loro delle chiare regole o dei limiti. Nessuno insegna loro la differenza tra un comportamento giusto e uno sbagliato"."Se non torneremo a riconoscere l'importanza di famiglie stabili, continueremo a usare lo stato per raccogliere i cocci". 

 

Televisione e Cultura

«La televisione è fatta per provocare e per vendere, non per discutere o scoprire la verità. Non interagisce con il pubblico e soprattutto non insegna niente, e quando lo fa va contro natura perché è il più grande Postalmarket del mondo. Con la Tv non si ragiona perché è rappresentazione. Lo dimostrano i programmi di cucina: non si riesce a capire una ricetta, è lo spettacolo che domina. Un apprendimento che vada oltre l'uovo sodo è impossibile. Lo stesso accade nei talk show». 

 

domenica 6 ottobre 2013

Una nuova Destra

È impossibile dire in queste ore che cosa nascerà dalla vasta dissidenza che si è manifestata nel Pdl contro la direzione berlusconiana. In particolare è difficile dire se da tale dissidenza nascerà quella Destra «europea», «costituzionale», «moderata», «liberale» - in grado di rappresentare una reale alternativa alla Sinistra - che da molte parti si auspica. Vedremo. Ciò che per il momento possiamo fare è chiederci per quale ragione, però, essa finora non è mai nata, e perché invece la sola Destra competitiva che in Italia ha visto la luce è stata quella di Berlusconi.

Al cuore del problema c'è una questione di credibilità rispetto al proprio elettorato di riferimento, la cui principale caratteristica è rappresentata ovviamente dall'ostilità verso la Sinistra (ho scritto ovviamente perché la stessa cosa vale per l'altra parte. Anche l'elettorato di sinistra, infatti, è mosso principalmente dall'ostilità verso la Destra: lo si è visto bene nella rivolta dentro il Pd contro Renzi, giudicato da molti dei suoi troppo incerto su questo fronte). Come si capisce, tale credibilità non può che essere data dalla leadership . Affinché esista una Destra alternativa e competitiva, cioè, è necessario che vi siano dei capi i quali non lascino dubbi sulla propria volontà di contrapporsi alla Sinistra, di essere una cosa assolutamente diversa. Che lo sappiano fare con le parole, con i gesti e con i fatti, con la propria vicenda individuale, vorrei dire perfino con la propria persona. Precisamente e innanzi tutto da questo punto di vista Berlusconi - chi ne può dubitare? - è stato assolutamente imbattibile. Ogni cosa in lui ha testimoniato di una radicale estraneità all'universo antropologico della Sinistra: dalla sua attività ai suoi interessi economico-aziendali, ai suoi modi, al suo linguaggio. Senza contare un ulteriore elemento di portata decisiva: la sua estraneità - biografica e ideologica - alla politica in quanto tale (al «teatrino della politica», nel linguaggio berlusconiano).

Un'estraneità fatta apposta per solleticare il sentimento di diffidenza verso la dimensione della politica e il suo carattere invasivo che in ogni Paese del mondo, ma soprattutto in Italia, è un marchio caratterizzante di qualunque elettorato di destra.
Da ciò che ora ho detto ci si può fare un'idea di quanto sia complicato in Italia rappresentare l'elettorato di destra in modo che allo stesso risulti davvero credibile e che susciti un reale sentimento di identificazione: bisogna sì fare politica, ma dando a vedere che i propri valori e il senso della propria vita stanno altrove (fu questo, a suo tempo, un indubbio elemento distintivo e di forza dei politici cattolici nei confronti del «moderatismo» nazionale).

Questa «antipoliticità» di fondo richiesta a ogni leadership di destra che voglia risultare credibile di fronte al proprio elettorato copre però ben altri ambiti, e implica da parte di quella leadership , in Italia, una cosa ancora più difficile. Vale a dire la capacità di sottrarsi all'egemonia che sul senso comune accreditato e sul discorso pubblico ufficiale esercita (arrivo a pensare quasi senza neppure accorgersene) la Sinistra: una capacità, anche questa, che Berlusconi ha avuto come pochi ma che non è per nulla facile avere.

In Italia infatti - per ragioni storiche che risalgono al fascismo e al fatto che la sua catastrofe ha voluto dire la delegittimazione di tutto quanto recasse un'impronta «di destra» - in Italia, dicevo, da decenni le istituzioni, i grandi corpi dello Stato, gli alti funzionari, le «autorità», i grandi giornali, la cultura riconosciuta, tutto quanto, lasciato libero di esprimersi, parla in maniera naturale un linguaggio «di sinistra». Con gli stilemi, i luoghi comuni, i principi che in un modo o in un altro rimandano, oggi almeno, all'universo politico di questa: l'«Europa», la «Costituzione», il «sindacato», i «diritti», la «pace», la «laicità», il «multiculturalismo», la «legalità», e via di seguito. Non da ultimo in ragione della straordinaria capacità della Sinistra stessa di fare propri e di inglobare anche valori che in realtà hanno origine e storia lontane dalle sue.

Quale sia il monopolio di fatto di cui gode tale universo politico-culturale e quindi la sua naturale forza di attrazione si è visto con Gianfranco Fini. Il quale, provenendo dal mondo neofascista (dico neofascista!) e volendo dar vita pure lui a una Destra «moderna» ed «europea», si è però ridotto in breve a scimmiottare in tutto e per tutto il discorso della Sinistra. Per effetto, tra l'altro, di un ulteriore condizionamento che una leadership di destra desiderosa di qualificarsi come «diversa» deve mettere in conto. Il fatto cioè che questa sua diversità - qualora sia schierata polemicamente contro altri settori della Destra (come è stato per l'appunto nel caso di Fini) - diviene tuttavia subito oggetto delle più diverse e continue forme di approvazione, adulazione e compiacimento, da parte della Sinistra, la quale ha l'ovvio interesse di strumentalizzarla. In tal modo però snaturandola e privandola di ogni vigore politico.
Mantenere dunque un tratto non immediatamente politico; essere capaci di rappresentare sempre una posizione realmente anche se non pregiudizialmente alternativa; avere il coraggio, l'intelligenza e la capacità di costruire e opporre un proprio discorso pubblico a quello della Sinistra, di resistere alla sua captatio benevolentiae non trasformandosi però in una Destra «trogloditica» e/o sovversiveggiante: per la leadership di una Destra «moderna» ed «europea» la navigazione è costellata di questi scogli: se Alfano e i suoi avranno il coraggio di mettersi in mare, sanno quello che li aspetta.

 

venerdì 4 ottobre 2013

L'inutile cultura

Ma quando si afferma che la cultura deve servire, si privilegia l'utilità nei confronti della cultura. Che, invece, è dubbio, effrazione, sprezzatura, quel rarissimo dono per cui essa non ostenta mai segni di riconoscimento, ma resta nascosta, creata quasi per gioco. 

venerdì 20 settembre 2013

Dialogo di un uomo stanco di vivere con la sua anima [Ba]

Dialogo di un uomo stanco di vivere con la sua anima [Ba]
[...]
«A chi parlare oggi?
I fratelli sono cattivi,
e gli amici di oggi non sanno voler bene!
A chi parlare oggi?
I cuori sono avidi
e ognuno cerca di impadronirsi dei beni del suo vicino!
L'uomo pacifico è nel travaglio
e il forte schiaccia tutti!
A chi parlare oggi?
È il trionfo del male
e il bene è calpestato dovunque!»
[...]
«La morte è davanti ai miei occhi oggi
come la guarigione per il malato,
come l'uscita dalla sofferenza.
[...]
La morte è davanti ai miei occhi oggi
come una schiarita nel cielo,
come la comprensione di un enigma.
La morte è davanti ai miei occhi oggi
come il desiderio di un uomo di rivedere la sua casa,
dopo lunghi anni di prigionia.»
[...]
Allora Ba (la mia anima) aprì per me la sua bocca
e rispose a quel che avevo detto.
«Se tu ricordi,
il seppellimento è un'angoscia del cuore,
è un portar lacrime rendendo misero l'uomo.
È un portar via l'uomo dalla sua casa
e gettarlo sulla costa del deserto (dov'è la necropoli):
non ne esci alla luce per vedere il sole!
Quelli che hanno costruito (tombe) in pietra di granito,
quelli che hanno edificato piramidi [...]
belle per la loro opera [...],
quando (sono morti) e divenuti come dei
hanno visto le loro stele distrutte:
sono come la sfinita (gente comune morta) sulla riva,
senza un [erede] sulla terra.
Inzuppa l'acqua del fiume le loro estremità,
li brucia similmente il sole.
Parlano loro i pesci a fior d'acqua.
Ascoltami dunque
– ed è bene per tutti ascoltare!:
segui il giorno felice,
dimentica l'amarezza e il dolore!»
[Papiro Berlin 3024 / Egitto, XXIII/XXI sec. a.C.]

 

mercoledì 11 settembre 2013

Lettera di Francesco

PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.

La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth".

Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.

Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio.

La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità.

Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.

Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.

Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.

Così Gesù predica "come uno che ha autorità", guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell'Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: "Chi è costui che...?", e che riguarda l'identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un'autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l'incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.

Ed è proprio allora - come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco - che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l'uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch'egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l'ha rifiutato, ma per attestare che l'amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.

La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell'amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell'incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva "caro cardo salutis", la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l'incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell'amore e nella fedeltà all'Abbà, testimonia l'incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell'Enciclica.

Sempre nell'editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l'originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull'incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L'originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell'amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell'unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l'esclusione.

Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l'amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutto l'uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.

Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.

Vengo così alle tre domande che mi pone nell'articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l'atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.

In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all'inizio di questo mio dire.

Nell'ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell'uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio - questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! - non è un'idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell'uomo. Dio è realtà con la "R" maiuscola. Gesù ce lo rivela - e vive il rapporto con Lui - come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell'uomo sulla terra - e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno - , l'uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l'universo creato con lui. La Scrittura parla di "cieli nuovi e terra nuova" e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà "tutto in tutti".

Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all'invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall'Abbà "a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19).

Con fraterna vicinanza
Francesco

 

martedì 10 settembre 2013

Quirico e la rivoluzione siriana

domenico quirico

La notte era dolce come il vino: l'8 aprile ad al Qusayr, Siria, per raccontare un altro capitolo della guerra siriana, dove la Primavera della rivoluzione sembrava poter durare per sempre e capovolgere il mondo. E invece sono stati 152 giorni di prigionia, piccole camere buie dove combattere contro il tempo e la paura e le umiliazioni, la fame, la mancanza di pietà, due false esecuzioni, due evasioni fallite, il silenzio; di Dio, della famiglia, degli altri, della vita. Ostaggio in Siria, tradito dalla rivoluzione che non è più ed è diventata fanatismo e lavoro di briganti. L'ostaggio piange e qui tutti ridono del suo dolore, considerato come prova di debolezza. La Siria è il Paese del Male; dove il Male trionfa, lavora, inturgidisce come gli acini dell'uva sotto il sole d'Oriente. E dispiega tutti i suoi stati; l'avidità, l'odio, il fanatismo, l'assenza di ogni misericordia, dove persino i bambini e i vecchi gioiscono ad essere cattivi. I miei sequestratori pregavano il loro Dio stando accanto a me, il loro prigioniero dolente, soddisfatti, senza rimorsi e attenti al rito: cosa dicevano al loro Dio?



Il racconto integrale



Siamo entrati in Siria il 6 aprile con il consenso e sotto la protezione dell'Armata siriana libera, come tutte le volte precedenti. Ho cercato di raggiungere Damasco e di verificare di persona le notizie sulla battaglia decisiva di questa guerra civile, come faccio sempre. Ma ci hanno detto che avremmo dovuto aspettare alcuni giorni prima di poter raggiungere la capitale siriana e così abbiamo accettato la proposta di andare in una città che si chiama Al Qusayr, vicina al confine libanese, che in quei giorni era assediata da Hezbollah, fedele alleato del regime di Assad.



Siamo arrivati ad Al Qusayr con un convoglio di rifornimenti della stessa Armata siriana libera, un lungo viaggio nella notte a fari spenti passando sulle montagne perché il regime controllava la strada. Siamo stati bombardati da un Mig vicino a un Ticunin, un mulino dell'epoca bizantina. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche sgretolati. Lì si è combattuta la battaglia fra Ramses II e gli Ittiti. Lì la storia è ovunque, nelle colline, nelle pietre. La città era già devastata e distrutta dai bombardamenti dell'aviazione e così la sera successiva abbiamo deciso di tornare dal luogo in cui eravamo partiti per sapere se era possibile intraprendere il viaggio verso Damasco. fidati. Invece probabilmente sono stati loro a tradirci e a venderci. All'uscita della città siamo stati affrontati da due pick-up con a bordo uomini con il viso coperto. Ci hanno fatto salire sui loro mezzi, poi ci hanno portato in una casa e ci hanno picchiato sostenendo di essere uomini della polizia di regime. Nei giorni successivi invece abbiamo scoperto che non era vero, perché erano dei ferventi islamisti che pregavano cinque volte al giorno il loro Dio in modo flautato e dotto. Poi, il venerdì hanno ascoltato la predica di un predicatore che sosteneva la jihad contro Assad. Ma la prova decisiva l'abbiamo avuta quando siamo stati bombardati dall'aviazione: era chiaro che quelli che ci tenevano in ostaggio erano ribelli.



L'emiro Abu Omar

L'ideatore e capo del gruppo che ci teneva prigionieri era un sedicente emiro che si chiama, anzi, si fa chiamare, Abu Omar, un soprannome. Ha formato la sua brigata reclutando gente della zona, più banditi che islamisti o rivoluzionari. Questo Abu Omar copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite, e collabora con il gruppo che successivamente ci ha preso in carico, Al Faruk. Al Faruk è una brigata molto nota della rivoluzione siriana, fa parte del Consiglio nazionale siriano, e i suoi rappresentanti incontrano i governi europei. È stato creata da un generale ribelle che ha arruolato combattenti fra la gente più povera di Homs, fra i più dimenticati dalla mafia di regime. L'Occidente si fida di loro ma ho imparato a mie spese che si tratta anche di un gruppo che rappresenta un fenomeno nuovo e allarmante della rivoluzione: l'emergere di gruppi banditeschi di tipo somalo, che approfittano della vernice islamista e del contesto della rivoluzione per controllare parte del territorio, per taglieggiare la popolazione, fare sequestri e riempirsi le saccocce di denaro.



La prima prigione

Inizialmente ci hanno tenuto in una casa di campagna alla periferia della città di Al Qusayr. Siamo rimasti lì per una ventina di giorni. Poi è accaduto il primo fatto terribile di quella che io chiamo la matrioska di questa storia, un evento all'interno di un altro evento: Hezbollah ha attaccato le posizioni dei ribelli e l'edificio in cui eravamo prigionieri è diventato la prima linea. È stato bombardato e attaccato. A quel punto ci hanno portato in un'altra casa, all'interno della città. Ma era come se il destino si accanisse contro di noi e continuamente ci ponesse nuovi terribili scenari, come se ci ricacciasse sempre indietro, sempre più lontano dalla prospettiva di essere liberati. Alla fine anche questa casa è stata attaccata e per una settimana siamo stati affidati ad una brigata di Jabat Al Nusra, l'Al Qaeda siriana. È stato l'unico momento in cui siamo stati trattati come esseri umani, per certi aspetti persino con simpatia: ad esempio ci hanno dato da mangiare le stesse cose che mangiavano loro. I qaedisti in guerra fanno una vita molto ascetica e sono dei guerrieri radicali, islamisti fanatici che si propongono di costruire uno stato islamico in Siria e poi in tutto il Medio Oriente, ma nei confronti dei loro nemici - perché noi, cristiani, occidentali, siamo loro nemici - hanno un senso di onore e di rispetto. Al Nusra è nell'elenco delle organizzazioni terroristiche degli americani ma sono gli unici che ci hanno rispettato. Poi siamo tornati nelle mani di Abu Omar.



La fuga da Al Qusayr

Al Qusayr era sotto assedio e diventava ogni giorno sempre più piccola, veniva demolita mattone su mattone. All'inizio di giugno l'assedio stava per finire con la vittoria degli Hezbollah. Intorno al 9 del mese tutte le varie fazioni della ribellione (fra cui anche la «katiba» di Abu Omar), hanno deciso di sfondare le linee nemiche insieme alla popolazione per provare a fuggire in un altro luogo della Siria. Incredibilmente ce l'hanno, ce l'abbiamo, fatta. È stata un'epopea straordinaria e terribile, con uomini, donne, bambini, handicappati e vecchi che hanno marciato a piedi per dodici ore, per due notti consecutive, attraverso la campagna. Erano 5-6 mila persone. Durante la marcia sui ciottoli questa folla faceva un rumore sordo, come se a spostarsi fosse un unico corpo. Quando i razzi lanciati dai soldati del regime per permettere all'artiglieria e alle mitragliatrici di colpirli illuminavano la scena, la campagna diventava abbagliante e tutte queste migliaia di persone si gettavano a terra improvvisamente creando un silenzio incredibile. Subito dopo, quando i razzi, che scendono lentissimi, si spegnevano per terra, tutta la folla si rialzava e riprendeva il cammino lasciando dietro di sé la catena dei morti.



Pesche acerbe

Alla fine della prima notte l'esercito è riuscito a bloccare l'avanzata e tutte queste persone si sono disperse nei frutteti e nei campi, senz'acqua e senza cibo, aspettando un'altra notte per tentare di proseguire. Non c'era nulla da mangiare. C'erano solo le pesche degli alberi, che essendo giugno erano ancora lontane dall'essere mature. Ci siamo nutriti schiacciandole e mangiando la parte più interna e il nocciolo, che erano abbastanza molli. C'erano anche alcuni vecchi personaggi omerici che si avviavano da soli verso le linee dell'esercito di Bashar e venivano falciati dalle mitragliatrici. Ma la cosa più straordinaria è stata che all'imbrunire, quando è scesa la sera, tutto questo popolo si è fermato e ha pregato. E gli uomini di Abu Omar hanno incrociato due kalashnikov davanti alle fila dei combattenti per intonare una preghiera della guerra. Il canto modulato si è levato sui campi sui boschi per chiedere a Dio di vincere la guerra, di uccidere i loro nemici. Dopodiché questa gente si è avviata verso il nemico, ha sfondato le linee e incredibilmente è avanzata oltre i soldati.



Verso Homs

Siamo scesi verso Homs dall'altopiano. Io credo di aver pensato di sognare, che non fosse una scena reale. Nella notte stavamo camminando verso questa grande città, la città nella quale è iniziata la rivoluzione. Una parte della città era già stata distrutta dai bombardamenti ed era vuota, l'altra parte invece era ancora abitata e i combattimenti continuavano. Per uno strano e incredibile effetto ottico l'immensa distesa di queste case bianche si proiettava al contrario verso il cielo: una parte, quella distrutta, aveva la fissità e il silenzio di un cimitero, di una tomba, l'altra invece era tutta luce, scoppi, razzi e rumori. Siamo scesi verso la pianura di Homs. Camminavamo in mezzo a due colonne di fuoco circondati da ombre: la gente correva tenendosi bassa perché le mitragliatrici tiravano ad altezza uomo, inciampavamo sui morti, finché alla fine non siamo arrivati in una piccola città di cemento, una delle tante piccole orribili città della Siria, mal costruite, approssimative.



Come Ulisse

Dopo quella notte ci hanno riportato nella città in cui era iniziato il nostro viaggio, come in una sorta di Odissea. Ulisse va verso Itaca, vede la sua casa, la sua isola là in fondo, ma il Dio feroce, implacabile, il destino, si accanisce contro di lui e una tempesta lo ricaccia indietro e quella è la sua condanna. A noi è successa la stessa cosa. Tornati a Reabruc, la città da cui eravamo partiti, ci hanno venduto al gruppo di Al Faruk. Il vortice è ripreso perché dopo due giorni ci hanno detto che ci avrebbero portato verso nord, verso il confine con la Turchia, e che ci avrebbero liberato. Abbiamo trascorso due notti in viaggio su questi pick-up sulle strade di montagna, con gli autisti che ogni tanto guardavano con il cannocchiale a infrarossi se i militari preparassero agguati sulla strada. Dopo la seconda notte di viaggio al freddo dentro il cassone del pick-up, ricoperti di polvere, siamo arrivati nella zona di Idlib, dove ci hanno tenuto per altre tre o quattro settimane in una base militare. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche sgretolati come quello degli Ittiti... Il capo dei sequestratori si faceva chiamare Abu Omar. Copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite Noi lo chiamavamo l'infame.



La telefonata

Dopo il primo giorno di marcia questo Abu Omar era seduto come un pascià sotto un albero circondato dalla sua piccola corte di guerriglieri. Mi ha chiamato perché voleva che mi sedessi accanto a lui, voleva fingere di essere nostro amico per ingannare un po' anche la gente che era lì intorno e che si chiedeva chi fossero questi due occidentali malvestiti e distrutti dopo due mesi di prigionia. Gli ho chiesto il telefono per chiamare casa, dicendo che i miei probabilmente pensavano che io fossi morto e che stava distruggendo la mia vita, la mia famiglia. Lui rideva. E mi mostrava il suo telefonino mentendo e dicendo che non c'era campo, che non si poteva telefonare. Non era vero. In quel momento un soldato dell'Esercito siriano libero, ferito alle gambe, ha tirato fuori dalla tasca dei suoi pantaloni un telefonino e me l'ha dato davanti a lui. È stato l'unico gesto di pietà umana che ho ricevuto nei 152 giorni. Nessuno ha avuto verso di me una manifestazione di quella che noi chiamiamo pietà, misericordia, compassione. Persino i vecchi e i bambini hanno cercato di farci del male. Lo dico forse in termini un po' troppo etici, ma veramente in Siria io ho incontrato il paese del Male. Sono riuscito a chiamare a casa solamente per 20 secondi, dopo quell'urlo disperato che ho sentito dall'altra parte, la linea è caduta.



La prigionia

Ci tenevano come animali, costretti in piccole stanze con le finestre chiuse nonostante il terribile caldo, gettati su dei pagliericci, ci davano da mangiare i resti dei loro pasti. Nella mia vita, nel mondo occidentale, non ho mai provato cos'è l'umiliazione quotidiana nelle cose semplici come il non poter andare alla toilette, il dover chiedere tutto e sentirsi sempre dire no. Credo che c'era una soddisfazione evidente in loro nel vedere l'occidentale ricco ridotto come un mendicante, come un povero.



I tentativi di fuga

La prima volta, il nostro custode probabilmente quella sera si era addormentato, siamo usciti dalla casa e ci siamo diretti verso delle luci,pensavamo fosse AlQusayr. Dopo duecento metri ci hanno ricatturati. La seconda volta invece, eravamo in un'altra località, nell'ultimo periodo della nostra detenzione. Abbiamo approfittato della distrazione di questi quattro ragazzi, che la sera spesso non badavano alle loro cose, ai loro giubbotti con i caricatori, ai kalashnikov, abbandonati vicino alla nostra stanza. Abbiamo preso due granate, pensando di utilizzarle per aprirci la strada. Le ho nascoste sotto un sofà distrutto. Pensavamo di sorprenderli, prender loro un telefonino, telefonare a casa, in Italia, per farci guidare in questa fuga. Purtroppo, o per fortuna, perché credo che un simile tentativo mi avrebbe creato enormi problemi morali, la cosa non è andata in porto. Ma una sera non hanno chiuso con la catena la porta della casa, siamo usciti, dopo aver preso i due kalashnikov, siamo fuggiti verso il confine di Bab al Hawa. Conoscevo quella zona, perché ci ero stato a gennaio.



Ridotto a merce Ci siamo nascosti in una specie di rudere nella campagna. Abbiamo cercato di attraversare il confine di notte, ma abbiamo scoperto che c'erano i campi minati. Siamo arrivati fino al filo spinato e siamo dovuti tornare indietro. Abbiamo fermato un'auto col kalashnikov, abbiamo chiesto al guidatore di portarci in un villaggiolì vicino. Ma c'era un posto di blocco.Ci hanno sparato, fermato e riportato verso la casa dove ci tenevano e ci hanno consegnato ai carcerieri per punirci. Ci hanno chiuso in una specie di sgabuzzino con le mani legate dietro la schiena, quasi incaprettati e ci hanno tenuti così per tre giorni. Il nostro valore era quello di una mercanzia. Non si può distruggere la mercanzia, se no si rischia di non ottenere più il suo prezzo. E ti senti veramente come un sacco di grano, un oggetto che vale in quanto vendibile. Ti possono prendere a calci ma non ti possono ammazzare perché se ti guastano troppo, o definitivamente, non ti possono più vendere. È l'orribile legge dell'ostaggio.



Le cose semplici della vita

Una volta ho parlato con Georges Malbrunot, giornalista del «Figaro» che è stato forse uno dei più celebri ostaggi, molti anni fa, durante la guerra Iraq-Iran. Credo che sia stato ostaggio quattro mesi, in condizioni forse addirittura peggiori delle mie, in una grotta. E raccontava questa depauperizzazione di tutto ciò che uno è, che sono le scarpe, i vestiti... Io sono stato cinque mesi senza scarpe, camminando a piedi nudi. Per cinque mesi il mio ritmo di vita è diventato il sole che spunta e il sole che tramonta. E poi l'impossibilità di fare tutte le cose che costituiscono la vita: camminare, muoversi, incontrare altre persone, scrivere leggere, guardare il paesaggio, sognare di fare delle cose che poi magari non fai, che sono il tuo modo di vivere. Io per cinque mesi ho vegetato, nel senso stretto della parola, cinque mesi in cui mi è stata succhiata la vita ed è stata sostituita con qualche cosa di artificiale, che è essere un oggetto e lottare contro il tempo. Ho imparato il carattere straordinario di alcune cose semplici, come un bicchiere d'acqua fresca. E poi vedere il sole, perché le finestrelle erano piccole e spesso c'era l'oscurità totale. Camminare, parlare con qualcuno che non fosse sempre questo mio compagno di sventura. E meno male che c'era, perché altrimenti sarei impazzito.



I carcerieri Erano di un gruppo che si professa islamista ma in realtà è formato da giovani sbandati che sono entrati nella rivoluzione perché la rivoluzione oramai è di questi gruppi che sono a metà tra il banditismo e il fanatismo. Seguono chi gli promette un futuro, gli dà le armi, la forza, gli versa il denaro per comprarsi i telefonini, computer, vestiti. Le Adidas sono estremamente diffuse in Siria, tutti hanno magliette Adidas, scarpe Adidas, sembra una specie di sponsorizzazione. Questi ragazzi vivono una vita di maschi, senza femmine, comunitaria in cui non fanno nulla e passano la giornata sdraiati sui materassi a bere mate. Credevo fosse una cosa sudamericana invece è estremamente diffuso in alcune zone della Siria. E fumano Marlboro originali americane che fanno arrivare dalla Turchia. Io sembravo più islamista di molti di loro perché non fumo e non bevo. E guardavano la televisione ma l'informazione era l'ultima cosa che gli interessava. Solo filmetti vagamente osé della televisione del Qatar o vecchi film egiziani sentimentali degli anni 50 in bianco e nero o gare di lotta, il wrestling americano oppure una terribile forma di lotta praticata nei paesi arabi in cui tutto è permesso...



Le finte esecuzioni

Per due volte hanno finto di mettermi al muro. Eravamo dalle parti di Al Qusayr. Uno si è avvicinato con la pistola e mi ha fatto vedere che la pistola era carica poi mi ha detto di mettere la testa contro al muro, mi ha avvicinato la pistola alla tempia. Lunghi momenti in cui ti vergogni... io mi ricordo la finta esecuzione di Dostoevskij... ti viene una rabbia perla paura che hai, senti che l'uomo che è vicino a te respira, trasuda il piacere di avere nelle sue mani un altro uomo e sentire che tu hai paura, e ti viene la rabbia perché tu hai paura. È un po' come quando i bambini, che sono spesso terribilmente crudeli, strappano la coda alla lucertola o le zampe alle formiche. La stessa ferocia terribile.



Le trattative Per ridere di noi i nostri carcerieri ogni tanto ci dicevano «due o tre giorni, una settimana, e poi via liberi in Italia» per vedere poi la nostra disperazione... perché aggiungevano una parola... Inshallah... che è il loro modo di mentire senza avere il senso di mentire, inshallah, è successo... Dicevano continuamente «bukrah» che vuole dire domani... poi l'indomani non partiva nessuno. Un gioco veramente crudele, ma negli ultimi tempi quando ci dicevano così noi a nostra volta rispondevamo: «inshallah...» per far capire che avevamo capito. Alla fine, domenica, ho sentito che sarebbe stata la volta buona. Forse per bruciare le piste, abbiamo praticamente attraversato tutto il paese, fin quasi a Deir Azor, nel grande deserto siriano. Ci siamo fermati in una città di cui non saprei dire il nome e poi siamo tornati indietro rifacendo la stessa strada. Una sorta di depistaggio. E poi siamo stati liberati. E questa volta non era Inshallah. Ci hanno fatto scendere dalle macchine dall'altra parte del confine, dicendo di camminare. Confesso di aver pensato che ci avrebbero sparato nella schiena, era buio, era notte, domenica dopo il tramonto. Ho pensato che se avessi sentito il rumore del caricatore mi sarei buttato per terra. Ero sicuro che mi avrebbero eliminato, avevamo visto le loro facce, sapevamo i loro nomi. E invece nessuno ha caricato il kalashnikov. E poi ho sentito voci italiane. Inshallah, questa volta era la volta buona.



I libri

Io viaggio sempre con i libri, piuttosto rinuncio a tre ricambi di magliette. Questa volta ne avevo quattro. Due libri di un autore che sciaguratamente oggi è stato dimenticato, Erich Maria Remarque, due opere forse un po' minori «Tempo di vivere, tempo di morire» e «La via del ritorno» che è la storia del ritorno di alcuni reduci tedeschi alla fine della prima guerra mondiale. Un po' il simbolo anche della mia via del ritorno che non riuscivo a trovare. Norman Mailer, «Il nudo e il morto» e poi «Delitto e castigo» di Dostoevskij. Li ho letti e riletti. Posso raccontare tutti i personaggi, recitarli all'indietro. Li ho portati dietro di me con fatica perché pesavano, ho marciato con loro per due notti e per due giorni durante la ritirata di Al Qusayr. Me li hanno sequestrati l'ultimo giorno. I libri ti parlano. Ma per un certo periodo non mi hanno parlato più, scorrevano le parole, le storie i personaggi... Se farò altri viaggi del genere mi porterò sempre la «Recherche» di Proust, il «Don Chisciotte», libri lunghi, molto lunghi... aiuta.



La fede

In tutta questa esperienza c'è molto Dio. Pierre Piccinin è un credente. Io sono un credente. La mia è una fede molto semplice, la fede delle preghiere di quando ero bambino, dei preti che quando andavo a trovare mia nonna in campagna incrociavo mentre raggiungevano in bicicletta delle piccole parrocchie con gli scarponi da operaio e la borsa attaccata alla canna della bici, e portavano estreme unzioni, benedivano le case, con la fede dei preti di Bernanos, semplice ma profonda. La mia fede è darsi, io non credo che Dio sia un supermercato, non vai al discount a chiedere la grazia, il perdono, il favore. Questa fede mi ha aiutato a resistere.È la storia di due cristiani nel mondo di Maometto e del confronto di due diverse fedi: la mia fede semplice, che è darsi, è amore, e la loro fede che è rito. Avevo anche un mio bloc notes e ogni giorno segnavo ciò che succedeva.L'avevo quasi finito, mancavano due pagine. L'ultimo giorno me l'hanno preso. Mi è servito soprattutto a tenere il conteggio dei mesi, dei giorni,perché se uno perde il senso del tempo affonda in un pozzo da cui non esce più.

 

lunedì 9 settembre 2013

un colpo di spugna

C'è qualcosa di misterioso nell'ossessione di aprire una crisi. Far cadere il governo e andare alle elezioni (ammesso che al voto si vada) non cambierà di un millimetro la situazione giudiziaria di Berlusconi. Il 15 ottobre la condanna diventerà operativa con la scelta tra arresti domiciliari e affidamento ai servizi sociali. Poco dopo arriverà la Corte d'appello che ricalcolerà gli anni di interdizione dai pubblici uffici. Non c'è nessuno, in uno Stato di diritto, che possa ragionevolmente pensare che tutto ciò si possa cancellare con un colpo di spugna prima dell'esecuzione della sentenza e senza che l'ex premier ne prenda atto.

 

rapporto malato

 È accusato di lesioni gravissime, stalking e tentato omicidio. «È il mandante dell'aggressione» dice il pubblico ministero Monica Garulli che ha fatto arrestare anche i due albanesi esecutori materiali dell'agguato. Uno ha tirato l'acido, l'altro ha fatto da palo.

Quella dell'amore fra Luca e Lucia è la storia di un rapporto malato,

lunedì 26 agosto 2013

Una pausa di felicità

 «Sono convinta che a volte il deserto sia necessario. A volte è quello di cui l'anima e il corpo hanno bisogno. Una pausa. Per sognare, anziché fare».

Seduta sull'infinta distesa iridescente del Salar de Uyuni, il deserto di sale boliviano, mi tornano in mente le parole di Sophie Fontanel, balzata all'onore delle cronache letterarie per il libro L'arte di dormire da sola, in cui narra la sua scelta di castità.

«Nei dodici anni trascorsi a letto da sola ho imparato moltissimo — scrive —. A volte per provare piacere mi bastava osservare il collo di un uomo. Ma la società non riconosce questo genere di felicità. È troppo individuale».

E troppo destabilizzante, aggiungiamo noi che di single parliamo da tempo.

Mi rendo conto, rileggendo quanto abbiamo scritto finora in«Supplemento singolo», che spesso nel descriverci abbiamo assunto un tono rivendicativo, altre volte assertivo, alcune volte, forse troppo poche, sereno. Che succede?

C'è che la solitudine può essere vissuta più o meno bene, ma il nostro stato d'animo in questa condizione non dipende ancora del tutto da noi perché ancora troppi sono i condizionamenti esterni. E quelle regole che siamo indotti a seguire per essere considerati «normali» sono ancora una gabbia opprimente.

C'è che la felicità individuale non è contemplata nella tavolozza dei sentimenti socialmente accettabili, anzi viene vissuta come una sfida, un atto di alterigia, come lo sberleffo che fece precipitare Lucifero all'Inferno. Quando non viene derisa, perché considerata un'amara consolazione di chi non ha niente di meglio per sé.

Eppure da soli davanti a questo deserto accecante, avvertiamo una sensazione che non può che essere felicità, e pienezza, perché questo siamo: un tutt'uno con la terra che ci ha partoriti. E stare qui in silenzio davanti al nulla è arrivare vicinissimi alla sensazione di essere parte di un tutto che non ha bisogno regole, che non richiede null'altro che la nostra intima disponibilità per essere percepito. E goduto.

Tra tutte le gamme di sentimenti che si possono provare stando soli, riscopriamo la felicità. Senza farcene scudo, però, per tenere gli altri fuori. Sophie racconta di essere tornata all'amore quando ha incontrato un uomo che non ha avuto paura dei suoi lunghi anni di deserto, perché guardandola ha avuto la netta sensazione che non ci fosse posto più coltivato e luminoso di quel suo animo solitario.

mercoledì 21 agosto 2013

Confusione totale

La grazia, la commutazione della pena, la richiesta che il Senato non voti la decadenza di Berlusconi, l'attacco alla legge-Severino (con possibile ricorso alla Corte Costituzionale), la richiesta di un nuovo intervento del Quirinale, l'arma finale della crisi di governo con la minaccia di puntare alle elezioni... Nessuno, in verità, ha ancora capito quale sia davvero la carta sulla quale il Cavaliere e il Pdl intendono scommettere

 

domenica 4 agosto 2013

Le narrazioni diverse

Berlusconi ribadisce la sua innocenza e racconta per l'ennesima volta la «sua» storia, che è anche quella del «suo» popolo. Una narrazione che non cambia da 20 anni. Una narrazione che è anche identità. E senza racconto condiviso, non c'è identità. E senza identità non c'è nemmeno il partito.


Irritarsi o chiedere al Pdl di rinnegare Berlusconi non ha molto senso. Sarebbe come si fosse chiesto a un militante del Pci degli Anni 50 di rinnegare il marxismo-leninismo e la funzione guida del Pcus. 


C'è da chiedersi semmai come facciano narrazioni così diverse della stessa storia, quella fondativa per il Pdl del leader vittima delle sinistre e quella altrettanto ovvia per il Pd dell'evasore fiscale conclamato, a stare insieme, nella stessa maggioranza di Governo, oltre all'esigenza di realizzare obiettivi davvero minimali. O come si possa pensare di mettere in piedi una riforma della giustizia, nel momento esatto in cui Berlusconi è tornato in guerra contro il regime. È questo quello che stupisce.  

 

Gli scambisti

l'unica via stretta per arrivare al provvedimento di clemenza è un'uscita di scena, con tanto di dimissioni dal Senato. Il contrario dell'agibilità politica.

 

le sentenze vanno rispettate

Chi chiede rispetto per otto milioni di elettori si ricordi che il rispetto lo si deve anche agli altri 50 milioni di italiani che vivono questo Paese. E che tutti, a partire proprio dagli elettori di destra e dall'opinione pubblica moderata, non meritano tutto questo. Meritano che ci si occupi dei loro bisogni, dei negozi che chiudono, delle aziende che soffocano, delle tasse troppo alte e non che ci si infili in una nuova guerra che darà il colpo di grazia alla nostra economia. 

Il percorso è uno solo: le sentenze vanno rispettate, così le forme della democrazia, e non si può 

immaginare di ricattare contemporaneamente il Presidente della Repubblica, il governo e gli italiani. 

 

Il vuoto perfetto

Dopo otto di governo inefficace, quattro anni di scandali sessuali, una dozzina di processi, sette prescrizioni e una condanna, sembrano aver perso la pazienza. «Cala il sipario sul buffone di Roma», è il titolo spietato del Financial Times .

 Qualcuno, nel partito, trovi il coraggio di spiegare al padre-padrone che non può trascinare con sé tutta l'Italia. I nostri amici nel mondo non capirebbero; e i nostri avversari non aspettano altro


Ma invece della verità, la politica sembra apprestarsi oggi a dare all'Italia al massimo le elezioni. Siamo davvero ansiosi di sapere che cosa mai ci prometteranno nell'occasione i duellanti di sempre. Sì, vogliamo proprio sentirlo il Pdl promettere per la decima volta la riforma di questo e di quello, dopo che non è stato capace per anni di farne nessuna. Sì, siamo davvero ansiosi di ascoltare finalmente dal Pd - visto che a smacchiare il giaguaro ci ha pensato qualcun altro - quali mirabolanti progetti ha per il Paese, soprattutto dove troverà i soldi per finanziarli e magari anche se intende chiamare a parteciparvi, chessò, il senatore Crimi (M5S) o l'onorevole Migliore (Sel). Ascolteremo, dunque. Comunque parteciperemo. Ancora una volta voteremo. Ma possiamo dirlo? Di questo vuoto, di questo nulla riempito solo di parole, non ne possiamo davvero più.

 

Perdere di lucidità(PdL)

Dopo otto di governo inefficace, quattro anni di scandali sessuali, una dozzina di processi, sette prescrizioni e una condanna, sembrano aver perso la pazienza. «Cala il sipario sul buffone di Roma», è il titolo spietato del Financial Times .

 Qualcuno, nel partito, trovi il coraggio di spiegare al padre-padrone che non può trascinare con sé tutta l'Italia. I nostri amici nel mondo non capirebbero; e i nostri avversari non aspettano altro.

 

mercoledì 10 luglio 2013

Coscienza intorpidita

Né le lotte interne tra «falchi» e «colombe» nel partito di Berlusconi, nè le dispute nel Pd tra l'attuale dirigenza e le scalpitanti truppe di Renzi, ma neanche le conseguenze sul precario accordo di larghe intese sul quale si regge il ministero Letta possono confondere al tal punto le idee sullo stravolgimento di alcune regole basilari della nostra Repubblica, il cui rispetto non costituisce un ipocrita formalismo, ma l'indispensabile condizione per cui la lotta politica non degeneri in uno scontro civile. Le dosi omeopatiche di cloroformio sulla sensibilità democratica immesse nella vita pubblica italiana in questi anni stanno arrivando a compromettere la coscienza della nazione in modo assai allarmante e la sentenza su Berlusconi del 30 luglio rischia di svelare, in un drammatico finale d'atto, i guasti che troppe compiacenze, troppi compromessi, troppe sottovalutazioni hanno prodotto nella società italiana. 

 

 

nessuno possiede nessuno

Uun messaggio semplice e rivoluzionario: nessuno possiede nessuno.  

 

L'amore ti dà diritto di amare, non quello di vantare diritti sulla persona amata. Anche a te, come a tutti, capiterà di essere respinto, abbandonato, tradito. Anche tu ti troverai a camminare in qualche oscura notte dell'anima, quando la perdita dell'amore toglie il sonno, il senno e il senso di ogni prospettiva, trasformando la passione in ossessione. Lì si vedrà chi sei veramente. Potrai rifiutare la sconfitta e tormentare colei che ti respinge, e allora ti sarai rivelato un debole e, nei casi estremi, un farabutto. Oppure potrai farti forza e sublimare il tuo sentimento in rispetto, lasciandola andare in pace. Per un po' starai peggio, ma appena riemergerai dalla sofferenza sarai diventato la persona di cui abbiamo bisogno. Un uomo vero.  

 

venerdì 28 giugno 2013

Come annullare il degrado

Il Cavaliere ha bisogno del «suo» partito per restare un soggetto politico e in tal modo, grazie al proprio ruolo pubblico, oscurare e annullare le condotte della sua figura privata.

 

Degrado

Il caso Ruby e quello che è successo attorno alle serate ad Arcore di Silvio Berlusconi è stato un caso di «dismisura, abuso di potere, degrado, tre parole che ho letto sui giornali e che condivido». Lo ha detto Lele Mora.

 

martedì 25 giugno 2013

Fine di un impero

Un'Italia compiacente e intimidita si chiede che cosa succederà adesso, dopo la sentenza sul caso Ruby del Tribunale di Milano che condanna in primo grado Silvio Berlusconi a sette anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nessuno si pone la vera domanda: cos'è successo prima, per arrivare ad una sentenza di questo genere? Cos'è accaduto davvero negli ultimi vent'anni in questo sciagurato Paese, nell'ombra di un potere smisurato e fuori da ogni controllo, che concepiva se stesso come onnipotente ed eterno? E com'è potuto accadere, tutto ciò, in mezzo all'Europa e agli anni Duemila?

La condanna sanziona infatti due reati molto gravi - concussione e prostituzione minorile - sulla base del codice penale, dopo un processo di due anni e due mesi, con più di 50 pubbliche udienze. L'accusa ha dunque avuto ragione, vedendo un comportamento criminale nel tentativo di Silvio Berlusconi di sottrarre una minorenne accusata di furto al controllo della Questura, imponendo ai funzionari la sua autorità di presidente del Consiglio, addirittura con l'invenzione di uno scandalo internazionale, perché Ruby era "la nipote di Mubarak". 

La difesa sostiene che non ci sono vittime per i reati ipotizzati, non ci sono prove e c'è al contrario la criminalizzazione di uno stile di vita e di comportamenti privati (le cosiddette "cene eleganti"), distorti da una visione voyeuristica e moralista che li ha abusivamente trasformati in crimine, fino alla sanzione di un Tribunale prevenuto, anche perché composto da tre donne.

Io credo in realtà che ci sia un metro di giudizio che viene prima della condanna e non ha nulla a che fare con il moralismo. Si basa su due elementi che Giuseppe D'Avanzo quando rivelò questo scandalo richiamò più volte - da solo e ostinatamente - sulle pagine di "Repubblica". Sono la dismisura e l'abuso di potere. Di questo si tratta, e cioè di due categorie politiche, pubbliche, e impongono un giudizio politico per un leader politico che nel periodo in cui è scoppiato il caso Ruby aveva anche una responsabilità istituzionale di primissimo piano, come capo del governo italiano. "La questione - scriveva D'Avanzo - non ha nulla a che fare con il giudizio morale, bensì con la responsabilità politica. Questo progressivo disvelamento del disordine in cui si muove il premier e della sua fragilità privata ripropone la debolezza del Cavaliere, tema che interpella la credibilità delle istituzioni", perché tutto ciò "rende vulnerabile la sua funzione pubblica, così come le sue ossessioni personali possono sottoporlo a pressioni incontrollabili".

La dismisura dunque come cifra dell'eccesso di comando, grado supremo della sovranità carismatica, con il voto che cancella ogni macchia e supera ogni limite, rendendo inutile ogni domanda, qualsiasi dubbio, qualunque dovere di rendiconto. E l'abuso di potere come forma politica di quella sovranità sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia perenne. Perché nel sistema berlusconiano, dice D'Avanzo, "il potere statale protegge se stesso e i suoi interessi economici, senza scrupoli e apertamente. Con l'intervento a favore di Ruby quel potere che sempre privatizza la funzione pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo pubblica finanche la sfera privatissima dell'Eletto. In un altro Paese appena rispettoso del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Nell'infelice Italia invece l'abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento automatico, una coazione meccanica".

Questo è ciò che ci interessa. Il disvelamento clamoroso di comportamenti privati di un uomo politico che imbarazzano le istituzioni e addirittura le espongono al ricatto, e spingono quel leader ad alzare la posta dell'abuso, imprigionandosi ogni volta di più in una rete di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari vergognosi, pagamenti affannosi: fino al momento in cui si avvera la profezia di Veronica Lario sul "ciarpame senza pudore" delle "vergini offerte al Drago", si costruisce un castello di menzogne sui rapporti con la minorenne Noemi, si soffoca nel taglieggiamento incrociato dei profittatori e mezzani Lavitola e Tarantini, e infine si inciampa nel codice penale sul caso Ruby, perché qualcosa di inconfessabile spinge il premier a strappare quella ragazza dalla Questura, affidandola ad una vedette del bunga-bunga spacciata per "consigliere ministeriale", per scaricarla subito dopo da una prostituta brasiliana.

Si capisce che questo processo milanese, costruito sull'inchiesta di Ilda Boccassini, sia stato vissuto da Berlusconi come la madre di tutte le accuse. L'ex premier nei due anni del dibattimento ha potuto giocare tutte le carte della sua difesa, compreso lo straordinario peso mediatico di un leader politico che ha invocato "legittimi impedimenti" ogni volta che ha potuto spostando ad hoc persino le sedute del Consiglio dei ministri, e ha addirittura imbastito due serate di gran teatro televisivo (una prima della requisitoria, l'altra prima della sentenza) sulle reti di sua proprietà con una sceneggiatura che sembrava anch'essa di sua proprietà, per parlare direttamente alla pubblica opinione sanzionando in anticipo la propria innocenza.

Questo "concerto" aveva da qualche mese una musica di fondo: la "pacificazione", che è il concetto in cui l'egemonia culturale berlusconiana tenta di trasformare la ragione sociale del governo Letta, nato dall'emergenza e dalla necessità, e dunque senza radice e cultura ideologica, com'è naturale per un esecutivo che tiene insieme per un breve periodo gli opposti, cioè destra e sinistra. Questa necessità, e questa urgenza, per il Pdl e per i suoi cantori sono diventate invece qualcosa di diverso, quella "pacificazione" che dovrebbe chiudere i conti con il passato, sacralizzare Berlusconi come punto di riferimento istituzionale del nuovo quadro politico e del nuovo clima, farlo senatore a vita o vertice di un'improvvisata Costituente, in modo da garantirgli un salvacondotto definitivo.

Praticamente, è la proposta di prendere atto che lo scontro tra la legalità delle norme e delle regole e la legittimità berlusconiana derivata dal voto popolare sta sfibrando il sistema senza un esito possibile. Dunque il sistema costituzionalizzi l'anomalia berlusconiana (reati, conflitti d'interesse, leggi ad personam, strapotere economico e mediatico) e la introietti: ne risulterà sfigurato ma infine pacificato - appunto - perché nel nuovo ordine tutto troverà una sua deforme coerenza.

L'egemonia culturale crea senso comune, che in Italia si spaccia per buon senso. E dunque la destra pensava che il "clima" avrebbe prima addomesticato la Consulta, chiamata alla pronuncia definitiva sul legittimo impedimento che avrebbe ucciso il processo Mediaset, dove l'ex premier è già stato condannato a quattro anni. Poi l'"atmosfera" avrebbe dovuto contagiare il Tribunale di Milano, già avvertito fisicamente del cambio di clima dalla manifestazione dei parlamentari Pdl sul suo piazzale e nei corridoi. Infine la "pacificazione" dovrebbe salire le scale della Cassazione, per il giudizio Mediaset, sfiorare il Colle che ieri Brunetta chiamava in causa dopo aver definito la sentenza "atto eversivo", bussare alla porta di Enrico Letta (che ha già detto di no) e soprattutto del Parlamento, visti i tanti vagoni fantasma che aspettano nell'ombra delle stazioni morte il treno del decreto svuota-carceri, pronti ad assaltarlo con il loro carico di misure salva-premier, dalle norme sull'interdizione dai pubblici uffici fino all'amnistia, generosamente suggerita dai montiani. Il disegno berlusconiano prevede colpi di mano e maggioranze estemporanee, col concorso magari di quei parlamentari cannibali del Pd che nel voto segreto hanno già dimostrato di essere buoni a nulla e capaci di tutto. 

Da ieri tutto questo è più difficile. La Consulta ha fatto il suo dovere, ricevendo in cambio accuse vergognose. E il Tribunale di Milano ha portato fino in fondo il processo - che è il risultato più importante - assicurando giustizia e uguaglianza del trattamento dei cittadini davanti alla legge nonostante le intimidazioni preventive. Nella sentenza c'è un giudizio di condanna durissimo, per due reati molto gravi, soprattutto per un uomo di Stato che ha rappresentato le istituzioni. Non solo: il Tribunale ha trasmesso gli atti che riguardano 32 testimoni alla Procura, perché valuti se hanno reso falsa testimonianza in dibattimento. Sono ragazze "olgettine", a libro paga del Cavaliere, amici suoi e stretti collaboratori, funzionari della Questura come Giorgia Iafrate. Con questa decisione, il Tribunale sembra convinto di aver individuato una vera e propria rete di organizzazione della falsa testimonianza di gruppo. Sarà la Procura a valutare se è così e chi è l'organizzatore, mentre è già chiaro che il beneficiario è Berlusconi. L'influenza economica, l'abuso di potere potrebbero arrivare fin qui.

Restano le conseguenze politiche. La più netta, la più chiara, sarebbe il ritiro di Berlusconi dalla politica, come accadrebbe dovunque. Ma in Italia non accadrà. La politica è il vero scudo del Cavaliere. E il governo, con la sua maggioranza di contraddizione, è l'ultimo tavolo dove cercherà di trattare, assicurando qualsiasi cosa (la durata dell'esecutivo fino alla fine della legislatura, la personale rinuncia a candidarsi alla Premiership) in cambio di un aiuto sottobanco. Altrimenti, salterà il banco, e dopo la breve parentesi da statista, il Cavaliere tornerà in piazza, incendiandola. Perché il populismo ha questa concezione dello Stato: o lo si comanda o lo si combatte, nient'altro.

 

domenica 23 giugno 2013

esempi dal magistero

Papa Francesco ha segnato la fine dei primi cento giorni di ministero con un gesto che suona come un rintocco solenne, severo. Che Francesco non amasse la fatale mondanità di eventi come quello disertato ieri era cosa facile a capirsi, anche prima di posizionare la sua poltrona bianca: queste cose celebrano momenti, ma anche relazioni, e su questo la mite intransigenza di Bergoglio è stata proverbiale da sempre. Che Francesco abbia da prepararsi o difendersi da ciò che accompagnerà l'annuncio delle prime decisioni di governo è ragionevole: il Papa ha in cantiere le prime nomine importanti nella curia e nella chiesa - ed ha anche in serbo i primi «amoveatur» (alcuni senza il rituale «promoveatur») - e le tiene in serbo non come uno che attenda di trovare consenso, ma come uno che vuole solo comunicare a tutti che lui non ha fretta: perché sa tutto di tutti. 

Che ci sia qualcosa di molto personale che ha avuto la precedenza, è possibile. Ma è altrettanto evidente che lasciando vuota la sua sedia in un evento che celebrava la fede e qualche vanità, peraltro non insolita fra i grandi personaggi della curia, il Papa ha fatto un gesto di cui comprendeva la durezza.
Quel gesto d'altronde, è stato coerentissimo con lo stile che ha connotato questi primi cento giorni, come sempre illuminanti e predittivi di un intero sviluppo pontificale. Infatti se si dovesse dire cosa è centrale in questi giorni si dovrebbe proprio parlare dello stile-Francesco (nel senso che dà al termine stile il grande teologo gesuita, Christoph Theobald). Lo stile-Francesco è stato fatto d'un uso preciso del tempo, dello spazio e del governo.
Francesco prende il tempo in un modo inusuale per un pontefice: per prepararsi a predicare e per predicare. Semina predicazione anziché produrre magistero: da cento giorni. Come mostrò Congar il «magistero ordinario» (distinto dagli atti di governo e dalla «lectio divina») è stato l'arma della lotta contro la modernità. I due pontificati precedenti avevano concordemente ritenuto che quella fosse ancora la questione e che lo spazio pubblico fosse il terreno su cui battersi, con un magistero almeno «definitivo». Francesco ha abbandonato tutto ciò: non s'è applicato a fare un corso di teologia a puntate e s'è ben guardato dal farsi dettare gli Angelus dall'agenda dei parlamenti, pur senza dimenticare di guardare a tragedie come quella siriana e a vicende pericolose come quelle dei vescovi ortodossi rapiti. Ha dato l'esempio di come un vescovo si dedica alla costruzione dell'edificio interiore e della apertura spirituale, piuttosto che al monitoraggio della legislazione e della comunicazione politica.

Predica, Francesco, come uno che ha in mente un tempo nel quale il governo si assottiglia e lascia posto ad una omiletica (l'arte e lo studio della predicazione) nella quale sembra che spuntino da una immaginaria lista i temi che voleva toccare: povertà, perdono, concilio, Ior, collegialità, confessione, santità, peccato, ascesi, battesimo, comunione, eccetera. «Il papa si ripete» dice chi gli vuole bene: senza accorgersi che il papa lo sa e usa il tempo per ripetersi, quasi volesse ipnotizzare la nevrosi dei record e dei virtuosismi. E quando predica dà l'impressione che la sua parola non voglia chiudere una discussione sui nodi della vita cristiana, ma intenda aprire un tempo di dialogo fraterno al quale la chiesa non è preparata.

Lo stile di Francesco ha un uso peculiare dello spazio. Ha privato della quotidianità «L'Appartamento». L'edificio in cui tutto era simbolo di un potere è ora una centrale dismessa, nel quale egli entra rimanendone incontaminato e privando la corte di usi e protocolli che non erano la tradizione, ma solo anticaglie. Entra invece nello spazio più difficile: quello dei povericristi che affollano le sue udienze, e anziché occuparlo come un sovrano talmente potente da chinarsi perfino sui poveracci, svanisce nel loro abbraccio. Che i gentiluomini fossero destinati a sparire da questo doppio spazio era cosa nota fin dalla vigilia della liturgia del 18 marzo: e diventa norma quando già è stata messa fuorigioco dalle cose.

Lo stile di Francesco è anche uno stile di governo e di non-governo. Per cento giorni Francesco ha tenuto la chiesa impegnata nella prima parte di un lungo corso di esercizi spirituali. Francesco ha dedicato questo primo tempo del suo ministero a mostrare di avere la calma di chi non deve legger nessun dossier segreto per sapere i segreti di Pulcinella della Roma ecclesiastica e di chi sa di aver innanzi un pontificato breve, ma non per questo condannato alla precipitazione. Ha annunciato ad un organo che costituisce la prima (prima) espressione di collegialità «ad gubernandam ecclesiam» senza nemmeno fare una bolla. Non ha fatto grandi nomine, ma prepara il ricambio in Segreteria di Stato ed in alcuni dicasteri chiave, nel quadro di una riforma della curia che verrà: senza nevrosi e senza paura di dare segni forti, come dimostra la sedia vuota di ieri.

In cento giorni Francesco ha imposto questo stile: e ha avuto una risposta affettuosa, ma anche facile come quella dei tassisti che «a me 'sto papa me piace»; di certo quello stile consola tanti, che vorrebbero avere un parroco così; nutre tanti preti e vescovi, un po' per faciloneria un po' per santa emulazione. Ma è uno stile esigente: e quel che s'è visto in questi primi cento giorni, fino al rintocco di una sedia vuota, dice che il papa lo sa e non arretra.