lunedì 26 dicembre 2011

Nella prigione del regime ho sentito la presenza di Dio

Yulia Timoshenko



Si dice che non esistono atei nelle trincee. Dopo il mio processo-spettacolo, e quattro mesi e mezzo in cella, ho scoperto che gli atei non esistono nemmeno in prigione.

Quando, nonostante un dolore insopportabile, venite interrogati per decine di ore, senza intervallo, e quando l'intero sistema coercitivo di un regime autoritario cerca di screditarti e annientarti una volta per tutte, la preghiera resta l'unica conversazione rassicurante, intima e confidenziale che uno può avere. Scopri che Dio è il tuo unico amico, e l'unica famiglia che ti rimane. Non ti permettono nemmeno la visita di un prete di fiducia, e non resta nessun altro a cui confidare paure e speranze.

In questa stagione dedicata all'amore e alla famiglia, la solitudine di una cella di prigione è quasi insopportabile. Il grigio, mortificante silenzio della notte (con i secondini che ogni tanti ti sbirciano, come voyeur, attraverso lo spioncino), le improvvise urla dei detenuti, grida di disperazione e rabbia, il distante clangore delle serrature: tutto questo rende impossibile dormire, o trasforma il sonno in un tormento di inquietudine. Ma la cosa strana è che i vostri sensi non vengono storditi da questo mondo morto e terribile. Al contrario, ne vengono riaccesi. La mente si libera dai problemi quotidiani per rivolgersi ai valori inestimabili e al tuo rapporto con essi: la libertà di spirito, il regalo veramente a sorpresa di questo Natale. Nell'oscurità della cella ricevo forza e speranza dal fatto che Dio, in qualche modo, è vicino a me. Dove dovrebbe essere Cristo, se non con quelli che soffrono e sono vittima di persecuzioni?

Ho letto di recente le meravigliose «Lettere dalla prigione» di Dietrich Bonhoeffer, nelle quali invocava un Cristo in grado di offrire carità al mondo che in quel momento veniva martirizzato. Scritto in una cella stretta, umida e putrida, è un libro ricco di fede, aperto all'opportunità e, sì, alla speranza, perfino nell'ora più oscura di una vita umana. Un passaggio in particolare continua a tornarmi in mente mentre osservo il calvario dell'Ucraina. Mentre aspetta di venire giustiziato da nazisti, Bonhoeffer scrive che in prigione «l'assenza di Dio dal mondo non viene occultata, ma al contrario svelata, esposta in una luce nuova».

In questo Natale traggo conforto dalla consapevolezza che l'assenza di Dio, l'inumanità e la criminalità del regime che oggi governa a Kiev, vengono esibite al mondo in piena luce. Le sue finzioni democratiche sono state smascherate come cinico teatrino politico, il suo dichiarato desiderio di un futuro europeo svelato come una bugia, e la rapacità dei suoi cleptocrati viene messa a nudo. Il disprezzo del regime per la Costituzione e il governo della legge è ormai innegabile, e questa certezza mi dà forza.

Ma, quello che è più importante, le sofferenze degli ucraini sono sempre più conosciute nel mondo, non siamo più da soli nel nostro calvario. E per alleviarlo si sono uniti in tanti in Europa e nel mondo. L'oppressione quotidiana, i media imbavagliati, l'estorsione di tangenti agli imprenditori, sono tutti fenomeni di uno Stato mafioso al confine con l'Europa. I nostri amici europei non possono più negare l'arrogante viltà del regime con il quale sono costretti a trattare. E sono felice che questo Natale posso credere che l'Europa democratica non tollererà questo stato delle cose. Gli ucraini si sentiranno più forti quando sapranno che non sono più soli nella loro lotta.

Non mi spaccio per esperta di fedi religiose e valori spirituali. Sono soltanto una credente che non accetta l'idea che la nostra esistenza sia la conseguenza di uno strano incidente cosmico. Io credo che siamo parte di un disegno misterioso e complesso, di un atto la cui fonte, direzione e obiettivo, per quanto difficili da cogliere certe volte, hanno un senso, anche quando uno sta dietro le sbarre di una prigione. C'è solo fede nell'idea che le nostre vite valgono qualcosa, e che le nostre decisioni devono venire giudicate dal loro contenuto morale, che noi, in Ucraina e altrove, riusciremo a trovare una via d'uscita dall'infelicità, dall'afflizione e dalla disperazione che ci consumano da due anni. E' in nostro potere riprenderci e rafforzare le nostre libertà e le nostre società, non grazie a sforzi individuali, ma unendoci con persone che la pensano come noi, in tutto il mondo. So che ci riusciremo.

Questo Natale chiedo alla mia famiglia e ai miei amici, dovunque siano, di non preoccuparsi per me. Come disse Anna Akhmatova, la grande poetessa e cronista del terrore di Stalin, «Sono viva in questa tomba». In effetti, so di essere più viva di quelli che mi hanno chiusa qui.

Il Natale è simbolo della possibilità di un nuovo inizio per tutte le donne e tutti gli uomini. Le ultime parole di Bonhoeffer furono: «Questo per me... è l'inizio della vita».

 

Camillo Prampolini: predica di Natale del 24 dicembre 1897

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Quando i contadini e i giornalieri uscirono dalla chiesa, videro sulla strada un uomo che, salito su un tavolo e circondato da alcuni del villaggio, cominciò a parlare Si avvicinarono.
Era il giorno di Natale, e quell'uomo diceva: Siete voi cristiani?
Lavoratori! Ancora una volta voi avete festeggiata nelle vostre case e nella vostra chiesa la nascita di Gesù Cristo. Ma interrogate la vostra coscienza: siete ben sicuri di meritare il nome di cristiani? siete ben sicuri di seguire i principii santi predicati da Cristo e pei quali egli morì?
Badate! Voi vi dite cristiani, perché recitate le preghiere che vi insegnarono i vostri parenti; perché andate alla messa e alla benedizione; perché infine vi confessate, vi comunicate e osservate tutte le altre pratiche del culto cattolico.
Ma credete voi che questo basti per chiamarsi cristiani?
Voi non potete crederlo, o amici lavoratori. Non potete crederlo, perché diversamente - se si dovesse ammettere che il cristianesimo consista nelle sole pratiche del culto cattolico - si dovrebbe arrivare alla strana, assurda, ridicola conclusione che i primi e più devoti seguaci di Cristo e lo stesso Cristo in persona non furono cristiani!

I primi cristiani - Come furono perseguitati 

Voi sapete, infatti, che quasi duemila anni or sono, quando Cristo cominciò a predicare la sua fede, non c'erano né curati, né parroci, né vescovi, né cardinali, né papi e neppure "chiese" nel senso che voi date a questa parola. Gesù - il figlio del povero falegname di Nazaret - andava per le vie e per le piazze a spiegare le sue dottrine.
Voi sapete che egli era quasi solo contro tutti; che lo seguivano soltanto degli umili popolani: dei pescatori, degli artigiani, delle povere donne e dei ragazzi; che i ricchi e i sacerdoti del suo paese, i farisei e gli scribi lo derisero dapprima come un matto e poi, quando videro che le sue idee si facevano strada, lo fecero arrestare come un perturbatore dell'ordine, come nemico della società e della religione: e - stoltamente iniqui, credendo di seppellire con lui il suo pensiero - lo trassero a morte, condannandolo al crudele e infamante supplizio della croce.
Voi sapete che per trecento anni i suoi seguaci continuarono ad essere vittime delle più feroci persecuzioni. Considerati quali malfattori; odiati nei primi tempi anche dal popolo, che in generale era ancora troppo ignorante, superstizioso ed incivile per comprendere il loro ideale; lapidati, gettati in pasto alle fiere, uccisi a migliaia, essi dovevano nascondere la loro fede quasi fosse un delitto: e per trovarsi insieme qualche ora tra fratelli, lontani dai nemici, a parlare delle loro dolci speranze, dovevano cercar rifugio sotto terra, nel silenzio solenne delle catacombe. Voi sapete che finalmente, dopo tre secoli di lotta, al tempo dell'imperatore Costantino - quando il loro numero fu cresciuto al punto che ormai quasi tutto il popolo era con loro, e i potenti si accorsero che le persecuzioni erano inutili - le persecuzioni cessarono.
E allora anche i ricchi, anche i re e gli imperatori e tutti vollero dirsi cristiani. E Cristo fu adorato come Dio.

Gesù Cristo e le preghiere

Sorsero appunto allora le prime "chiese", apparvero allora i primi preti, i quali poi andarono via via moltiplicandosi e introdussero l'uso della messa, della benedizione, della confessione e di tutte le altre cerimonie cattoliche, quali sono adesso.
Ma Gesù e i suoi primi e grandi discepoli non praticarono nessuno di questi usi. Anzi (sta scritto nel Vangelo) Gesù chiamava ipocriti quei tali che al suo tempo "amavano di fare orazione, stando ritti in piè" - com'egli diceva - "nelle sinagoghe e ne'canti delle piazze, per essere veduti dagli uomini". E insegnava che la sola cerimonia religiosa, la sola preghiera da farsi era il Pater noster, che ognuno doveva recitare solidariamente nella propria stanza.
Ora: vorrete voi dire, amici miei, che Gesù Cristo non era cristiano? Vorrete voi dire che non erano cristiani quei generosi popolani, padri vostri, che con lui, sfidando le persecuzioni e il martirio, furono i veri fondatori del cristianesimo?
Voi non direte certamente una simile assurdità.

Il "regno di Dio"

Ma allora perché furono cristiani quegli uomini, che pur non andavano a messa e non conobbero preti né chiese?
In che consiste dunque veramente la dottrina di Cristo? Quali erano i principii che egli predicava e che suscitarono tanto rumore e tanta guerra intorno a lui e a'suoi seguaci?
Eccoli qui, o lavoratori, i principii essenziali del cristianesimo, i principii che bisogna seguire se si vuole davvero essere cristiani. Gesù era profondamente convinto che gli uomini fossero tutti figli di uno stesso padre celeste: Dio; e Dio egli lo concepiva come un essere infinitamente giusto e buono.
Ora, come mai - egli si domandava - come mai esistono nel mondo tante ingiustizie? Come mai gli uomini sono divisi in ricchi e poveri, in padroni e schiavi? Come mai vi sono gli Epuloni viventi nel lusso e i Lazzari tormentati dalla più crudele miseria? È possibile che Dio - il padre infinitamente giusto e buono - voglia queste inique disuguaglianze tra i figli suoi?
No - egli pensava - evidentemente queste disuguaglianze derivano solo dall'ignoranza e dalla malvagità degli uomini. Dio non può volerle.
Certamente, Dio le condanna. Certamente, Dio vuole che gli uomini vivano come fratelli - distribuendosi in pace e giustizia la ricchezza comune - e non già vivano come lupi in lotta l'uno contro l'altro, godendo gli uni della miseria degli altri.
Dunque - diceva Gesù ai suoi compagni - noi dobbiamo far guerra a questo doloroso e brutto regno dell'ingiustizia in cui siamo nati; noi dobbiamo volere, fortemente volere il regno della giustizia, dell'uguaglianza, della fratellanza umana, perché questo è il regno che Dio vuole fra gli uomini; noi dobbiamo persuadere i nostri fratelli che esso è possibile e non è un sogno.
Dobbiamo trasfondere in loro la nostra fede, e il "regno di Dio" si avvererà....
Questo, o lavoratori, questo era il pensiero, e questa fu la predicazione di Cristo.
Un odio profondo per tutte le ingiustizie, per tutte le iniquità, un desiderio ardente di uguaglianza, di fratellanza, di pace e di benessere fra gli uomini; un bisogno irresistibile di lottare, di combattere per realizzare questo desiderio - ecco l'anima, l'essenza, la parte vera, santa ed immortale del cristianesimo....
Siete cristiani?
Ed ora ditemi: siete voi cristiani? lo sentite voi questo benefico odio pel male? lo sentite voi questo divino desiderio del bene? Voi che cosa fate per combattere il male? che cosa fate per realizzare il bene?
Perché - badate, amici miei! - voi potete anche andare in chiesa ogni giorno; voi potete ogni giorno confessarvi e comunicarvi; voi potete recitare quante preghiere volete; ma se assistete indifferenti alle miserie e alle ingiustizie che vi circondano, se nulla fate perché esse debbano scomparire, voi non avete nulla di comune con Cristo e i suoi seguaci, voi non avete capito nulla delle loro dottrine, voi non avete il diritto di chiamarvi cristiani...
Ebbene, in questo giorno di Natale, mentre voi festeggiate la nascita dei Nazareno, io che appartengo al partito socialista, sono qui a dirvi: siate cristiani, o lavoratori, ma siatelo nel vero ed alto senso della parola!

Cristo non fu ascoltato

Il "regno di Dio" voluto da Gesù, non fu ancora attuato, Passati i pericoli dei primi anni del cristianesimo, molti vollero dirsi cristiani, ma quasi nessuno si ricordò de'principii di Cristo. Ed ora - voi lo vedete - le disuguaglianze e le miserie che egli ha combattuto sono più vive che mai. Il mondo è devastato e insanguinato dal sistema capitalista, che è il sistema dello sfruttamento, della speculazione, della concorrenza, della guerra.
E appunto perciò io dico a voi uomini e donne: siate cristiani - cioè combattete questo iniquo e barbaro sistema economico, frutto dell'egoismo individuale, che colpisce principalmente voi e i vostri fratelli di lavoro e che dissemina sulla terra lutti e rovine.
È venuto il tempo in cui il sogno di Cristo può essere finalmente realizzato. Basta che i lavoratori lo vogliano.
Lavoratori, organizzatevi!
Se i lavoratori dei campi e delle città si daranno la mano; se avranno fede nella giustizia; se comprenderanno che gli uomini sono uguali e che per conseguenza nessuno ha diritto di dirsi padrone di un altro e di vivere a spese altrui, ma tutti hanno l'obbligo di prendere parte al lavoro necessario alla via di tutti; se per vivere umanamente - cioè per diventare liberi, per non aver padroni e godere insieme l'intero frutto delle loro fatiche - i lavoratori, invece di vivere isolati e di farsi concorrenza, metteranno in pratica il precetto di Cristo: Amatevi gli uni cogli altri siccome fratelli, e formeranno dovunque le loro organizzazioni; allora, davanti alla loro crescente e sempre più capace organizzazione, le ingiustizie sociali scompariranno come si dileguano le tenebre dinanzi al sole che nasce. E sorgerà così il mondo buono e lieto della solidarietà umana agognato da Cristo, il "regno di Dio".
Lavorate a farlo sorgere, o lavoratori! Se non per voi, fatelo per i vostri figli; i quali - poiché li generaste - hanno bene il diritto che voi vi adoperiate in ogni modo, affinché non siano essi pure costretti a vivere la vita misera e serva che da secoli voi vivete. Unitevi, organizzatevi! per voi, per le vostre donne, pei vostri bambini; per la difesa dei vostri più indiscutibili diritti; per la redenzione doverosa della vostra classe!
Per voi e per tutti, o lavoratori, abbiate fede nel bene, sappiate volerlo, - sorgete, lottate perché la giustizia sia!
"Beati coloro."
Solo in questo modo voi potrete dirvi veramente seguaci di Cristo e raggiungerete la meta ch'egli intravvide e per la quale egli e mille martiri generosamente si sacrificarono. Lo disse Gesù istesso nel suo famoso "Discorso della Montagna". "Beati coloro che sono affamati e assetati di giustizia, perciocché saranno saziati"!
"Beati coloro che son vituperati e perseguitati per cagion di giustizia!" Prendete a guida della vostra vita queste parole, o amici lavoratori, e voi sarete.... socialisti.
Sì, voi sarete con noi, voi lotterete tutti al nostro fianco, perché noi socialisti siamo oggi i soli e veri continuatori della grande rivoluzione sociale iniziata da Cristo.
Siamo noi "gli assetati di giustizia". Siamo noi che, in nome dell'uguaglianza umana leviamo alta un'altra volta la bandiera dei poveri, dei diseredati, dei piccoli, degli umili, degli oppressi, degli avviliti, dei calpestati! Siamo noi che - innalzando un inno al lavoro produttore d'ogni ricchezza - annunziamo ai ricchi padroni del mondo il trionfo immancabile e il regno dei lavoratori; noi che ci sforziamo ad affrettare questo regno; noi i "vituperati e perseguitati per cagion di giustizia".

Camillo Prampolini



sabato 10 dicembre 2011

Un ideale altro e alto: il sacrificio

Riscoprire il significato fecondo del sacrificio richiede un discernimento su azioni e comportamenti che da tempo abbiamo rinunciato a esercitare, assumendo senza alcuna criticità quello che il consumo, il mercato e la propaganda ci presentavano come stile di vita «normale». Così non sappiamo più distinguere tra necessario e superfluo, né riusciamo a mettere ordine nel nostro universo mentale e comportamentale tra bisogni, desideri, voglie, sogni e capricci. Si è come smarrita ogni scala di priorità: tutto pare sullo stesso piano, perché tutto attiene in positivo o in negativo al suo impatto sulle nostre sensazioni immediate. Noi abbiamo smarrito il senso della communitas tra contemporanei come di quella che ci lega con responsabilità alle generazioni future: vogliamo leggere, definire, vivere e consumare il nostro orizzonte limitandolo a un «io» narcisistico e prepotente o a un «noi» ristretto e fissato dal nostro vantaggio e non dalla realtà della polis.

Credo che questo smarrimento culturale ed etico abbia profondamente a che fare con l'affievolirsi del «senso» attribuibile ai «sacrifici»: se non ci sono principi condivisi, se non c'è un fine superiore alla momentanea soddisfazione personale, se non si percepisce alcun legame tra generazioni né responsabilità verso il futuro della collettività, sarà ben difficile rinunciare spontaneamente a qualcosa o aderire con convinzione a una rinuncia imposta dalle circostanze avverse. Se manca un orizzonte condiviso, se ogni atteggiamento è eticamente indifferente, se pretendiamo come diritto tutto ciò che è tecnicamente o economicamente possibile, allora ci troveremo impotenti di fronte a ogni avversità, le subiremo come catastrofi ineluttabili e cercheremo di sottrarci ad esse senza gli altri o addirittura contro di loro. Il sacrificio amputato della solidarietà, la rinuncia svuotata della speranza, il prezzo da pagare dissociato dal valore del bene da acquisire diventano insopportabili: nella communitas, infatti, il sacrificio è il debito che io liberamente assumo verso l'altro, altrimenti la communitas stessa cessa di esistere.

Solo un ideale altro e alto, la speranza di contribuire a un mondo migliore di quello che abbiamo conosciuto, la preoccupazione per il benessere di chi verrà dopo di noi, la solidarietà con chi, vicino o lontano da noi, non può accedere a beni essenziali che noi non ci rendiamo nemmeno più conto di possedere può spingerci non solo ad accettare i sacrifici ma ad affrontarli con consapevolezza e convinzione: quanti tra coloro che ci hanno preceduto avrebbero affrontato le difficoltà della vita se non avessero sperato di offrirci una condizione migliore? Perché il risultato del sacrificio non è il poterne fare finalmente a meno, bensì l'affermare con la propria vita quotidiana che un altro mondo è possibile, che l'uomo non è nemico dell'uomo e che vi sono principi di equità, di giustizia, di pace, di solidarietà che vale la pena vivere a qualunque prezzo: in fondo, il valore di ogni nostro desiderio è il prezzo che siamo disposti a pagare per raggiungerlo.

 

domenica 4 dicembre 2011

Il cammino

ALESSANDRO AVENIA

Tu come hai fatto a capire che quella è la strada per te, il modo in cui giocarti la tua intera vita?».
Così mi ha scritto una ragazza di 16 anni, dopo aver finito di leggere «Cose che nessuno sa», mentre stavo scrivendo questo articolo.

Si può morire restando vivi. Si muore in molti modi e il più diffuso è quello della solitudine causata dall'assenza di possibilità di raccontare la propria storia, unica e irripetibile, a qualcuno. Amiamo e vogliamo essere amati perché ci sia almeno un interlocutore a cui poterla raccontare questa nostra benedetta vita così grande e fragile. Alcuni giovani muoiono da vivi, per assenza di racconto. Il mondo che dovrebbe ascoltare le loro vite, quello degli adulti, giudica la loro tela assurda, prima ancora che tratti e colori di quella storia si siano potuti dispiegare.
Si muore giovani, e non perché cari agli dei, ma perché disprezzati da loro. Non per una guerra cruenta, ma per mancanza di sguardo: una vocazione, una unicità, per essere ha bisogno di essere percepita.

La gioia di vivere - mi hanno insegnato i miei genitori e maestri - non dipende dal successo, ma dal fatto di occupare il proprio posto nel mondo, nella fedeltà a quello che siamo chiamati a essere e fare, sulla base dei nostri talenti e dei nostri limiti, la conoscenza dei quali ha il suo spazio privilegiato nell'infanzia, nell'adolescenza e nella prima giovinezza. Ciascuno di noi è la propria vocazione, la propria chiamata, il proprio compito. Sul tempio di Apollo a Delfi c'era scritto «Conosci te stesso». Da lì prese le mosse il pensiero occidentale ed è lì che bisogna guardare per questa crisi che è prima ancora che economica, una crisi di senso e di identità.

Eraclito disse che il carattere dell'uomo è il suo destino. Platone immaginò nel mito di Er che un «dàimon» ci affiancasse, perché il destino di ciascuno si compisse. Tutti sappiamo che qualcosa ci chiama a percorrere un certo cammino. Magari non si tratta di un annuncio eclatante, ma di piccole spinte (un libro, un film, un incontro, un fatto...) verso una strada, mentre eravamo persi in una selva di vie possibili. Ognuno di noi è irripetibile e la libertà, diceva Hannah Arendt, è «esserci per un nuovo inizio»: a ciascuno di noi è affidato il proprio sé come inizio, compito e compimento. Solo questo genera gioia di vivere: armatura forte di fronte ai fallimenti, spada che consente di non rifugiarsi, impauriti dalla vita, in autismi virtuali ed emotivi (dipendenze di ogni tipo).

Quando un adolescente cerca di spiegare la propria strada, senza rendersene conto porta la mano al cuore, come se intuisse il mistero di sé. È uno dei momenti del mio mestiere di insegnante che amo di più: quando si «accorano», si attorcigliano attorno al proprio cuore per ascoltarlo e spesso accade quando sono ascoltati. Sarà proprio la scoperta di questa unicità, percepita, preservata, ricordata, difesa da chi ci ama a dare senso al quotidiano vivere, anzi proprio a quel ripetitivo copione darà brillantezza e novità. Questo vale in ogni epoca e in ogni congiuntura storica, anche e soprattutto le crisi, durante le quali si è costretti ad andare all'essenziale. Questo ai giovani non può e non deve essere tolto: la bellezza che alberga nell'unicità di ciascuno ha bisogno di ricevere uno spazio, un riconoscimento, per non morire. Questo spazio è la famiglia, questo spazio è la scuola.

I ragazzi chiedono ogni giorno questo riconoscimento. Hanno nostalgia di uno sguardo che riconosca la loro unicità, che non giudichi e inscatoli la loro vita prima ancora di averla accettata nel suo straordinario, scomposto, contraddittorio emergere, che è già segno di ricerca. Questo mi chiedono ogni giorno: «Aiutami ad essere me stesso». I giovani di oggi hanno questa fame, io lo vedo, ma questa fame di sé, questa fame di destino, questa fame di futuro è stordita dalla sazietà del benessere. Se non ho fame di futuro il mio presente sparisce. E ha un sogno solo chi si ferma a considerare i mezzi che ha per attuarlo. Ma se invece di conoscermi sonnecchio per riuscire a digerire l'eccesso di portate di cui vengo ingozzato, sarà tardivo e brusco il risveglio: chi sono io e che ci faccio qui?

Se so chi sono e che ci faccio qui è perché a 16 anni ho trovato chi mi aiutasse a unire i pezzi ancora sconnessi del puzzle della mia vita e a percepirmi come compito da realizzare. A 16 anni ho deciso di diventare insegnante perché avevo un insegnante che amava non solo ciò che insegnava, ma amava la mia vita con la sua irripetibilità. A 16 anni ho deciso che volevo dedicare la vita ai ragazzi perché il professore di religione della mia scuola, padre Puglisi, si lasciò ammazzare per provare a cambiare le cose.

A 16 anni i miei genitori mi hanno messo alla prova, e io che li mandavo a quel paese come ogni adolescente, in realtà toccavo la reale consistenza dei miei sogni. Questi mentori mi hanno insegnato che non è il successo il criterio per essere sé stessi, ma che essere se stessi è il successo. Molti ragazzi rimangono paralizzati all'idea che non riusciranno a realizzare i loro sogni e questo è il veleno di una società che lavora per produrre, comprare e consumare, anziché lavorare per costruire un tempo buono e ampio per appartenersi e appartenere attraverso relazioni e amicizie vere.

Se il criterio di giudizio dell'agire è il successo, si rimane prigionieri di un destino crudele, che può schiacciare prima ancora di mettersi in movimento. Invece ciò che rende felici è realizzare la propria vocazione, indipendentemente dal riconoscimento «della folla». Si può avere successo come madre, come insegnante, come panettiere. Basta essere pienamente ciò a cui si è chiamati.

È la crisi ad aver rubato ai giovani il futuro? No. La crisi farà venire più fame, costringerà a non accontentarsi del benessere per essere felici. Il futuro ai giovani lo rubano gli adulti che non li guardano, gli adulti che occupano i posti di potere e se ne fregano del bene comune, gli adulti che fanno diga per l'ingresso di nuove leve negli ambienti di lavoro, gli adulti che non sono disposti a mettersi al servizio della generazione successiva passando il testimone. Come tanti Crono se ne stanno seduti a digerire i figli che loro stessi hanno messo al mondo.

I sistemi educativi dovrebbero riconsiderare le loro priorità. Cominciamo a credere nella unicità delle vite che ci sono affidate, serviamole togliendo qualcosa al nostro egoismo. La cena con i figli è più importante di una pratica di lavoro sbrigata la sera tardi, una moglie stanca dopo una giornata infernale è più importante di una partita di calcio in tv, un alunno è più del suo 4 o del suo 8...

Dalla famiglia e dalla scuola si può ripartire: non si richiedono riforme strutturali, ma riforme del cuore e della testa. In famiglia e a scuola ho imparato a occuparmi degli altri e a non pensare di essere il centro del mondo. In famiglia e a scuola ho scoperto la mia vocazione.
Lo aveva già scritto in pochi versi Dante quando il suo maestro, Brunetto Latini, gli disse: «Se tu segui tua stella/ non puoi fallire a glorïoso porto/ se ben m'accorsi ne la vita bella/ e s'io non fossi sì per tempo morto/ veggendo il cielo a te così benigno/ dato t'avrei a l'opera conforto».
 

 

Boundaryless Youth

IRENE TINAGLI
«Buona fortuna figliolo!», così si salutavano un tempo i giovani che decidevano di fare le valigie e andarsene in cerca di opportunità lontano da casa.

Oggi invece è a quelli che restano che bisogna augurare buona fortuna, perché per chi resta inchiodato nel proprio Comune di residenza le prospettive sono sempre più ristrette. Non è tanto la mobilità geografica, di per sé, a far la differenza, ma la possibilità di accedere ad opportunità diverse e qualificanti, di maturare esperienze più variegate. Perché oggi è finita l'era delle carriere «verticali», le storie degli impiegati che da semplici fattorini finiscono la loro carriera come dirigenti o presidenti di quella stessa azienda. Oggi è l'era delle «boundaryless careers», le carriere senza confini, come scrisse qualche anno fa la professoressa Denise Rousseau, esperta di organizzazioni e lavoro.

Sono le carriere che sconfinano, che travalicano settori tradizionali, che rompono le gerarchie aziendali dalle linee verticali per muoversi lateralmente da un'organizzazione all'altra accumulando in pochi anni esperienze che vecchi top manager non sono riusciti ad accumulare in una vita. E sono carriere che sempre più travalicano anche confini geografici.

L'esplosione di mercati emergenti come la Cina, l'India o il Brasile, per esempio, non dà solo lavoro alla manodopera di quei Paesi, ma sta aprendo molte opportunità anche a progetti di altissimo livello nei settori dell'ingegneria, dell'economia, dell'architettura, dell'informatica, della comunicazione.

Certo, per chi cresce in città come New York o Londra, esposto a mille opportunità diverse, è possibile costruire percorsi interessanti e gratificanti anche senza spostarsi geograficamente. Ma per i milioni di giovani cresciuti nella provincia italiana, difficilmente queste opportunità si materializzano sotto casa, e la capacità e la volontà di rincorrere opportunità altrove diventa fondamentale. Eppure, nonostante le difficoltà crescenti di chi si muove in contesti più locali e tradizionali, i sondaggi ci dicono che sono ancora relativamente pochi i giovani italiani che sono disposti a muoversi, soprattutto al centro e al Nord Italia. A bloccarli non sono soltanto gli affetti familiari, ma la scarsità di informazioni, la mancanza di una guida, l'incertezza e la lunghezza dei percorsi.

A pesare in queste scelte vi è anche l'influenza di mèntori e genitori ancorati ad altre epoche, abituati a considerare una laurea sotto casa uguale a quella presa a Duke, Eton o Carnegie Mellon (anche perché la maggior parte dei nostri genitori, diciamo la verità, non ha idea di cosa sia Duke o Carnegie Mellon), a temere lunghe lontananze e difficoltosi rientri. Una cosa è vera: nonostante chi vada all'estero sia spesso tacciato di cercare scorciatoie, di solito accade l'esatto opposto. I percorsi e le esperienze fuori confine sono spesso lunghi e faticosi.

Lo sanno bene anche tutti i giovani ricercatori che negli anni passati hanno scelto la strada del dottorato negli Stati Uniti. Anche se oggi qualcosa è cambiato, fino a tempi molto recenti la differenza è stata netta: un dottorato in Italia durava tre anni, non aveva esami, e dava subito la possibilità di mettere un piede nella porta dell'accademia italiana.

Un PhD americano invece durava in media 5-6 anni, ti massacrava di corsi ed esami, e ti faceva perdere contatti per un eventuale rientro in patria. Tant'è che in certi casi erano gli stessi professori italiani che sconsigliavano ai propri studenti di partire. Ma di fronte a scelte che possono cambiare radicalmente la nostra formazione e il nostro futuro sono altre le considerazioni da fare. L'unico criterio da seguire deve essere la qualità e la rispondenza ai propri bisogni, necessità e attitudini. Se l'opportunità che si presenta «sotto casa» risponde a queste caratteristiche, sarebbe sciocco andarsene. Ma quando così non è, è sciocco restare.

Ed è questo il mantra che dovrebbe accompagnare ogni giovane nelle proprie scelte di studio, di lavoro e di crescita personale: la scelta della qualità, oggi più che mai. Perché anche se ci lamentiamo spesso dello scarso riconoscimento dei «meriti», tuttavia col tempo la qualità viene sempre fuori ed è la miglior assicurazione contro crisi e globalizzazione, perché è l'unica carta spendibile in ogni parte del mondo.

Non è facile entrare in quest'ottica; molti genitori incitano ancora i giovani a scegliere le strade che sembrano più brevi, più rapide, che danno un «titolo» sicuro, che sono o appaiono più comode. Ma sono quasi sempre scelte sbagliate. Perché c'è sempre qualcosa che si sacrifica sull'altare della comodità e della scorciatoia. E questo qualcosa è quell'approfondimento, quel sacrificio che ci consente di imparare e capire non solo il settore in cui lavoriamo, ma qualcosa riguardo a noi stessi, a ciò che sappiamo fare meglio, e che ci aiuta a forgiare e indirizzare meglio il nostro percorso futuro.

Il talento non è innato, e non ci viene rivelato come un'apparizione. Lo si scopre così, col tempo, le esperienze, il confronto con gli altri, i progetti e le sfide sulle quali ci misuriamo. Sono queste esperienze che ci aiutano a scoprire cosa veramente amiamo, cosa ci distingue dagli altri nel complesso e competitivo mercato del lavoro. E su queste consapevolezze è più semplice non solo costruire carriere gratificanti, che ci aiutano a trovare un lavoro che ci piace, ma anche dispiegare tutto il nostro potenziale umano e personale.

Certo, percorsi del genere implicano anche molti errori, ripensamenti e sconfitte. Ma l'epoca delle carriere fulminanti degli Anni 80 è finita almeno quanto l'era dei lavori fissi degli Anni 70. E per quanto possa spaventare, questa era di «carriere senza confini» è anche ricca di opportunità, basta non perdersi nella ricerca di scorciatoie, ma investire in se stessi e non aver paura di guardare fuori.

 

venerdì 2 dicembre 2011

Per I Gonzi

C'è chi pensa che questi slogan non solo non servono a niente, ma non incantano più neppure i gonzi. 

 

La dignità

Per quel che resta della dignità il rinvio è a data da destinarsi.

 

giovedì 1 dicembre 2011

La delusione

Ma la rigenerazione di un mondo è risultata un compito leggermente superiore a quanto questi ragazzi avevano previsto, per cui non basta qualche blog e un po' di bric-à-brac rivoluzionario. Hanno sciupato e esaurito la loro energia, dilapidato la loro iliade. Un ragazzo, disperato, sdraiato su un tappeto sudicio nel disfatto accampamento di Tahrir, ieri ripeteva: «Avremmo bisogno di un nuovo Nasser, ma dove lo troviamo?».

 

martedì 22 novembre 2011

Società aperta

Da sempre chiusura e protezionismo, tanto nelle società quanto in economia, portano isolamento e regressione.

L'apertura non solo porta al proprio interno nuove energie, nuove idee e più dinamismo, ma proietta all'esterno l'immagine di una comunità forte, attrattiva, che non teme il confronto e le influenze esterne, ma che le integra e si alimenta di esse.

E' stata questa, per esempio, la grandissima forza degli Stati Uniti nei due secoli passati.

Un Paese che ha accolto milioni di immigrati, spesso senza che nemmeno conoscessero la lingua inglese.

E questo contributo ha reso gli Stati Uniti non solo un'economia più forte, ma un riferimento per milioni di persone nel resto del mondo.

E oggi, anche se molti dei vecchi immigrati parlano ancora i loro dialetti di origine, l'inglese è diventato la lingua passepartout di tutto il mondo. Una sorta di divertente contrappasso, non avvenuto per caso.

 

domenica 20 novembre 2011

you only care about 'i’

la sinistra, che ha sempre teorizzato e praticato il governo della politica sui comportamenti dell'economia, ha visto la politica assoggettarsi all'imperio dei mercati, proprio i più inafferrabili, quelli finanziari.


«Non sottovaluto gli effetti della crisi, ma bisogna ammettere che quando si è imposta la teoria neoliberista, alcuni di noi hanno cominciato a cercare di amministrare il capitalismo invece di amministrare il socialismo»


non si comprende bene il paradosso per cui una crisi provocata dalla libertà sfrenata e senza regole della speculazione finanziaria trovi l'opinione pubblica europea così diffidente verso le tradizionali ricette della sinistra,

 il controllo dello Stato sui mercati, 

lo stimolo del deficit pubblico per rianimare l'economia,

 un più esteso welfare.


 Insomma, c'è un altra ricetta oltre

 al rigorismo della Merkel, 

alla prudenze della Bce, 

agli imperativi del Fondo monetario internazionale?


Lord Sacks, who represents Britain's 300,000 Jews, singled out Jobs for blame 

likening his iPad tablets to the tablets of stone bearing the Ten Commandments given by God to Moses.


He said advertising only made

 shoppers aware of what they did not have – 


rather than feeling grateful for what they did – 


and  warned a culture where people only worried about themselves could not last long.



'The consumer society was laid down

 by the late Steve Jobs coming down the mountain with two tablets, iPad one and iPad two,


and the result is that we now have


 a culture of iPod, iPhone, iTune, i, i, i. 


'When you're an individualist, egocentric culture and

 you only care about 'i',


 you don't do terribly well.'



The Chief Rabbi added:

 'Therefore the answer to the consumer society is 


the world of faith, which the Jews call the world of Shabbat,


 where you can't shop and you can't spend and 


you spend your time with things that matter, with family.



 

martedì 15 novembre 2011

Obbedienza e soggetivismo etico

«Il ciclo berlusconiano è finito come soggettivismo etico ed è finito come cavalcata dell'umore popolare. Ma se c'è il fallimento delle élite, al posto di Berlusconi, potrebbe spuntare un altro leader capace di instaurare col popolo il medesimo rapporto, un leader che avrebbe nell'orgoglio nazionale e popolare i suoi riferimenti, che condurrebbe gli italiani a reagire all'eterodirezione e a contestare il sistema in quanto tale. Questo è il nuovo scenario che vedo davanti a noi».


Che cosa intende per ciclo del soggettivismo etico?


«Intendo la libertà intesa come libertà di essere se stessi. Non è una tendenza recente. Secondo me diventa predominante nei primi Anni Sessanta con don Milani e l'obiezione di coscienza, quando si diffonde il primato del soggetto e della coscienza. L'obbedienza non è più una virtù, dice don Milani. Poi c'è Marco Pannella con le sue battaglie referendarie: questa moglie non mi garba più, la cambio; non mi sento madre, abortisco. Poi anche l'azienda è mia e me la organizzo io. E il lavoro è mio e me lo organizzo io. Le vacanze sono mie. Il tempo è mio. Finché negli Anni Settanta finisce il mito della confessione perché anche il peccato è mio».

 

domenica 13 novembre 2011

La moralità per il Sudan

al-Shabaab  si giustifica con la sua ideologia che combina una cruda distorsione dell'Islam con uno stile da khmer rossi cambogiani che abbraccia un'autarchia radicale basata sull'agraria e un disprezzo sanguinario per chi ha un'educazione formale.


I musulmani dovrebbero chiamare tutte le eminenze della loro religione in ogni Paese ad esprimere un parere sulla moralità di questo gruppo, antislamici criminali di guerra.

 

mercoledì 9 novembre 2011

La Nemesi in agguato

Diciassette anni dopo la «discesa in campo»,

così spesso letta come la difesa della posizione economica conquistata,

una rapida uscita di campo per difendere lo stesso patrimonio.



La nemesi del conflitto d'interessi, si potrebbe dire.

 

Torn and Stripped


Chi ha provato la confusione della nebbia, del vento e dell'angoscia in alta montagna può vagamente immaginare la ragione di certe scelte estreme, di certi abbandoni.

 Quando un alpinista viene inghiottito dalla bufera entra in una realtà separata, fatta di bisogni e reazioni elementari o di sentimenti inesprimibili. 

Il freddo e la debilitazione dell'organismo allontanano gradualmente le persone dalla vita e si entra piano in un mondo a parte. 

I pensieri si dissociano dal corpo,

 il tempo perde il suo valore e 

 la paura svanisce in un limbo senza dolore, 

 bianco come la neve.


Così raccontano i sopravvissuti.

 

La qualità umana

Non è un freddo tecnocrate, è un italiano appassionato.


È portatore di idee, non di interessi.

 

lunedì 31 ottobre 2011

Anacoluti e metafore

Siamo qui per parlare del futuro e lui non è il futuro


Non si ferma il vento con le mani.


l'anacoluto più famoso e terribile di Vasco e dell'intera musica italiana:

«Siamo solo noi. Quelli che poi muoiono presto. Quelli che però è lo stesso».


«Non chiederti che cosa il tuo Paese può fare per te, 

chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo Paese»

 

martedì 25 ottobre 2011

Le interpretazioni veritiere

Contrariamente a quanto si crede, Nietzsche è il migliore teorizzatore del legame tra Dio, l'esistenza e la verità. Negare Dio equivale a dire che si nega la verità. Nella visione nietzscheana, gli uomini si limitano a conoscere i propri stati d'animo soggettivi. Ma se ci basiamo sull'identificazione tra il mondo e la sua rappresentazione, le rappresentazioni non coincideranno mai. Un esempio: poniamo che io abbia mal di testa, lei potrebbe dirmi che non è vero, perché il mal di testa lo sento solo io. Ma come ho scritto in un mio libro, se vogliamo essere reali dobbiamo rimanere attaccati all'esistenza di Dio, che è il garante dello spazio della verità, entro il quale il soggetto può recuperare la propria identità oltre l'autocoscienza istantanea.


Il Superuomo ha accantonato la verità, a esistere sono solamente le interpretazioni del mondo. Ma l'Übermensch è pura fantasia.


Gli uomini hanno dimostrato di non volere il Superuomo, bensì l'Ultimo uomo, quello che crede che la felicità sia divertimento, una vita piena di comodità, in cui si consumano le droghe. Ma io dico che ogni sostituto di Dio abbassa l'uomo. È la definizione di Dio l'essere insostituibile.


 In realtà, la verità è una sola e non si basa sulla reciprocità. Parlavo prima del mio ipotetico dolore, non condiviso da lei. L'uomo è capace di verità perché senza di essa, intesa oggettivamente, non si riesce a rendere ragione dell'esperienza. Al fondamento di questa garanzia c'è Dio.

 

domenica 23 ottobre 2011

The worst business in the world

Imagine an industry where seventy percent of your products lose money. You knit ten different types of wool socks. Seven don't sell enough to cover the cost of the wool, while the other three are so popular they're capable of keeping the whole enterprise afloat. This is the basic math of book publishing, a business model that's evolved over the course of the last couple centuries and has alternately baffled, unnerved, and outraged the long list of hugely intelligent people who have given their lives to it. The "worst business in the world," Doubleday's cofounder Walter Hines Page called it, and even in flush times, the refrain is usually the same. It's hard to think of another industry so perpetually prone to grumbling and self-hatred. As early as 1896, Publisher's Weekly wondered whether the book business was "A Doomed Calling"—a question that, by the late nineteenth century, had already become a cliché.

Recently, the doomsaying has reached a fever pitch over the threat posed by e-books. Publishers fear that companies like Amazon will erode their margins by setting unreasonably low prices for digital books. Even more frightening is the possibility that the handful of bestselling authors who keep the industry solvent will start self-publishing through digital platforms, leaving publishers out in the cold. The apocalypse of American book publishing, after a hundred or so years of false alarms, seems finally to have arrived.

But there is another scenario. This is the possibility that book publishing, despite its many antiquated practices and inefficiencies, is more adaptive than its critics give it credit for; and that the current convulsions, far from being unprecedented, are only the most recent phase in a centuries-long story of radical reinvention. The production and distribution of books have changed dramatically over the last twenty decades, and whenever they do, the publishing landscape endures another of those wrenching spasms that periodically clobber anyone adventurous enough to build a business on such quaky ground.

After the Civil War, American publishing endured a similar upheaval. New technology made paper and printing much cheaper. Railroads, canals, and steamboats improved distribution. Rising literacy rates stoked demand. The result was a reading revolution, as millions of new readers—educated in public schools and libraries, many of them immigrants or former slaves—began buying books for the first time. In 1853, fewer than eight hundred new books appeared in the United States; by 1880, the number had almost tripled. By the close of the century, The Bookman, a New York magazine, was publishing a monthly list of "best sellers." 

Traditional publishers reacted cautiously. They had historically been small, family-owned enterprises, usually linked to a printing or bookselling shop. The company that became Harper & Brothers started in 1817 as a one-room printer's office; by the late 1840s, it was the largest publisher in the United States. Even as modest firms scaled into bigger corporations, they often retained family ownership, and the industry as a whole prided itself on a genteel sensibility starkly at odds with the era's aggressive entrepreneurialism. The great publishers of the late nineteenth century couldn't be further removed from cutthroat contemporaries like Andrew Carnegie and J. P. Morgan. They seemed less like businessmen than "business men of letters," in the words of one historian: members of an elite gentlemen's club tasked with elevating the country's culture and enriching the mind of the American reader.

They cared deeply about the idea of publishing as a public service. The books they sold were supposed to be ennobling works of art. What dismayed them about America's rapidly expanding readership—those newly literate masses hungry for the printed word in all its bound and broadsheet varieties—was that the newcomers didn't always appreciate the finer things. Popular taste ran more to entertainment than enrichment. Cheap, sensational books flooded the market, especially those precursors of pulp fiction known as "dime novels," which readers devoured in great quantities.

What really upset the traditionalists, however, was the industrywide menace known as "subscription" publishing. Back then, like today, publishers wholesaled to retailers (bookstores), which in turn sold to customers. Subscription houses cut out the middleman—in today's jargon, "disintermediated"—by sending agents door-to-door with samples of upcoming titles. Customers would pay to have the book delivered when it appeared. The model was almost as old as bookselling itself—Napoleon Bonaparte and George Washington both worked as subscription agents for a time—but it returned with a vengeance after the Civil War. An army of subscription men canvassed the country, knocking on doors, hawking everything from encyclopedias to cookbooks, Bibles to self-help manuals—often tricked out with fancy binding and gaudy illustrations to justify steep prices. They lied, overcharged, hustled their wares as if their lives depended on it. "They tried to kill a book agent in Omaha last week," joked the New Orleans Picayune in 1873. "He was robbed, thrown into the river, knocked off the cars, tossed from a high bridge into the river again, and in two hours was around with Cassell's Illustrated Bible, trying to get a subscription from the head of the attacking party."

Their persistence paid off. From 1870 until 1900, subscription agents accounted for more than two thirds of the country's book sales. Predictably, the traditional publishers cried bloody murder. These upstarts didn't play by the rules. They were ungentlemanly: rather than putting books on a shelf and waiting for them to sell, they pushed the product directly to the consumer. Worse, one of the most popular authors in the country became a poster boy for the subscription model: Mark Twain. He published his first major book,The Innocents Abroad, in 1869 through a subscription house, and its success made him an obscene amount of money by contemporary standards. Within the first eighteen months, the book sold 82,524 copies. Twain's take was $16,504—or about $217,762 in today's dollars. "Anything but subscription publication is printing for private circulation," Twain crowed to his friend William Dean Howells.

Traditional publishers took the hint. Beginning in the 1870s, they built their own subscription departments. They gradually embraced promotion, advertising, and other strategies for making their products stand out in a saturated media marketplace. They accommodated themselves to the new realities of mass America. The industry that emerged from the turmoil of the late nineteenth century was a hybrid: a composite of continuities and innovations, archaic in certain respects and modern in others, like a new house grafted onto old foundations.

The industry that comes out of the current crisis seems likely to take the same form. E-books are to publishers today what subscription houses were to publishers then: ingenious, earth-shattering ideas beloved by ordinary readers. Both make distribution more efficient by putting content into the hands of millions of Americans who don't live near bookstores. The fact that someone living in Keokuk, Iowa can download a new novel in less than a minute is indisputably a good thing. But it also entails certain consequences that will be hard to reconcile with publishing in its present state. The inevitable restructuring will, like many previous ones, be painful; but afterwards, the industry will still exist, and among the many timeworn traditions preserved in its next incarnation will be an obsessive need to predict its imminent demise.

 

Really, NYT??

Monday's New York Times front page article on Amazon's "writing publishers out of the deal" has been much commented-on. But I think it calls for some rage. As someone who really cares about this industry, the simplistic and narrow focus is infuriating; and the message it conveys to people outside the business is misleading at best and damaging at worst. I would have expected more insight and at least some analysis from 'the newspaper paper of record.'

 Yes, there is something sexy about the "David vs. Goliath" point of view in the piece: Authors no longer need big publishers to give them sales figures; and they don't need reviewers to get the word out; and they don't need book tours in order to have personal communication with their readers. In fact, the Times seems to echo certain writers in asking: do they need publishers for anything? Indeed, if there's any doubt, the Times shows its colors by having the article end with the dramatic quote from an author whose only credential so far was a sale of 600 copies of a book she published herself: "They had their chance!" Right-o, the article is saying: That'll show Random House and HarperCollins and Penguin Group et al, not to mention William Morris Endeavor, ICM, Writers House and smaller agencies like mine. What heartless beast could not root for the success of scrappy Ms.Saville vs. the lazy overstuffed behemoths of 'legacy' publishing who seem to do nothing but turn down worthy writers?

 And bravo Amazon! They have finally given the power back to all those unpublished authors out there whose voices deserve to be heard. If this Times piece is a David and Goliath story, Authors are David, the publishers are Goliath and Amazon is the slingshot—right?

 Amazon's Russ Grandinetti points out that 'the only really necessary people in the publishing process now are the writer and the reader.' That's true. But is it really meaningful in the way the Times seems to interpret it? The only really necessary people in the filmmaking process are the viewer and the filmmaker, but does that lead to a general belief that home movies posted on YouTube can and should take the place of films likeMoneyball and The Social Network and The King's Speech?

 There is enormous value to writers—and to readers—in the professional job that publishers do: the selection, editorial development, packaging, distribution, publicity and marketing of books. Those are the things that turn manuscripts into the prize winners and bestsellers that we all hear about and want to read. In its new publishing venture Amazon may well prove itself to be just as adept at these things as the current crop of publishers, and they will no doubt bring some new and innovative methods into the process. But that's not even raised as an issue worth noting in this piece.

 And yes, it is sexy to think of Amazon as the great democratizer, and the Times uses that for effect. But of course Amazon could swat any publisher out of existence with a flick of its mighty wrist. If there is a Goliath, it ain't the publishers. You'd think the Times would address that.

 Publishing folk remember that over a year ago Amazon punitively stopped selling all books, print or electronic, from Macmillan Publishing when Macmillanwas the first to change its selling terms to stop Amazon from pricing e-books below cost. Amazon was choosing to lose $2-5 per copy on the most popular books it sold, which gave it a virtual monopoly on e-book sales. No other book retailer could have afforded to lose so much money on e-books, so Amazon was on its way to becoming the only player in the game. Until Macmillan did a little David vs. Goliath act of its own—and Amazon blinked.

 The point is: Amazon is so big it can afford to take losses on certain segments of its business as long as the overall business is healthy. They are brilliant strategists. They were very smartly willing to take a loss on some e-book sales to offer great prices and cement their place with consumers as the only e-book store worth visiting. Sadly for the publishing industry, no other retailer of books has such deep pockets and can afford to do what they do. Everyone else needs positive income from the books they sell to stay in business. And the same is true of publishers.

 Far be it from me to question a brilliant and successful company who wants to publish authors in these lean days: but this is a complex equation. Do we need to be worried that if Amazon woos away the top few authors from each of Random, Harper, Penguin, Macmillan, Hachette and Simon, that those companies will become insolvent and Amazon Publishing will be the only game in town? Do we need to worry that they will underprice books as a way to gain more customers for their Home and Garden and Electronic stores? If they do so, what effect will those lower prices have on authors' ability to earn a living? To what level—if at all—will other retailers support Amazon published titles? As this race to a segmented one-stop publishing model continues, should we be concerned that we will never again see the likes of a big first novel driven by industry-wide 'buzz' like The Help, or The Night Circus or, for that matter, Harry Potter and the Sorcerer's Stone, published with true national fanfare across all retailers? We don't know. Those are some of the interesting questions that the Times should have explored.

 Ultimately, the industry has been moribund for over a decade and could certainly use some shaking up, and this is one way it's going to happen. Amazon is making a big investment in books and writers, and that's exciting. They are putting together an interesting team, and I'm eager to work with them and see what they can do. But it's not white-hat/black-hat. There is something much more interesting and complex going on than the one-dimensional article in the Times would indicate. It's unfortunate that people outside our industry got such an incomplete and misleading view of things.

 

sabato 15 ottobre 2011

Piccoli gesti

Anche sulle rotaie di un tram si misura il percorso di una crescita civile. Anche un biglietto timbrato può dare testimonianza di un'etica condivisa.

 

giovedì 6 ottobre 2011

Così è se vi pare

Così si torna in via Roma con la sensazione che niente è come sembra, che le categorie dell'umano e del disumano siano soltanto punti di vista.

 

lunedì 3 ottobre 2011

Atene cala la scure sugli statali

ogni sterlina risparmiata sulla spesa pubblica non è altro che un'occupazione cancellata.

  In termini ancora più espliciti:

 «Una politica di tagli e sacrifici non è altro che una campagna per l'intensificazione della disoccupazione».

 

La nuova qualità della vita

 L'intelligenza non è qualcosa che si eredita o una risorsa da accumulare, ma piuttosto un'esperienza comune distribuita tra le persone


La Terza rivoluzione cambia il nostro senso della relazione e la responsabilità verso gli altri esseri umani.

Condividere le energie rinnovabili della Terra crea una nuova identità della specie.

Questa coscienza di interconnettività sta facendo nascere un nuovo sogno di "qualità della vita", soprattutto tra i giovani.

Il sogno americano si colloca nella tradizione illuministica, con la sua enfasi nella ricerca del proprio interesse materiale. Qualità della vita, però, parla di una nuova visione del futuro, basata su interesse collaborativo, connettività e interdipendenza.

La vera libertà non sta nell'essere slegato dagli altri, ma in profonda partecipazione con essi.


Se la libertà è l'ottimizzazione di una vita, essa si misura con la ricchezza e la diversità delle esperienze di ciascuno, e la forza dei suoi legami sociali. Una vita vissuta meno di così è un'esistenza impoverita.

 

domenica 2 ottobre 2011

Rifkin e il ciclo perverso

Ogni volta che c'è una recessione, facciamo sempre la stessa cosa:

pompiamo soldi nel mercato e diciamo che vogliamo tagliare le spese.

Ma la ripresa si alimenta spendendo, le nostre spese fanno crescere la domanda, i Paesi emergenti ne approfittano aumentando la produzione per moltiplicare l'offerta, e questo fa salire i costi delle materie prime come il petrolio.

Di conseguenza tutti i prezzi aumentano, compresi quelli del cibo, e quindi ci ritroviamo in breve in una nuova situazione insostenibile,

tornando a fare affidamento sul debito per soddisfare le nostre esigenze.

Così non ne verremo mai fuori.

 

sabato 1 ottobre 2011

Oltre il fossato

Fuori, oltre il fossato, stanno gli italiani, osservatori smarriti di lotte furiose, ma lontanissime dalle loro più urgenti preoccupazioni. La sera, le tv, moderni cantastorie, raccontano le solite favole. Ma ormai non incantano più.

 

martedì 27 settembre 2011

il dolore metaforico

Stordito dal fiume in piena che gli ha allagato l'esistenza guarda fuori dalla finestra, senza sapere più che cosa pensare mentre resta appoggiato all'incomprensibile davanzale della vita.

 

fell out from love

Italians are fantasists. Reality's not good enough for them. In his latest novel, The Pregnant Widow, Martin Amis describes Italy in the eventful early 1970s. Forty years later, it may seem that things haven't changed. We – Italians – have long been escapists, ruled by the ultimate political escape artist. Silvio Berlusconi is not only our longest serving postwar prime minister; he is also an illusionist, who knows his audience well. But he be may be starting to lose his touch.

Mr Berlusconi built his fortunes on our weaknesses. He is a hyper-populist – a combination of Juan Perón, Vladimir Putin and Frank Sinatra. He can sing, he can act, he can be charming and ruthless, and he knows how to talk to people who prefer face-to-face to Facebook. He told us what we wanted to hear. As details surfaced of his wild parties with young girls who used to call him «Papi"», he explained: «I work hard and in the evening I need to unwind». This is music to many married men's ears. In her early days, Madonna screamed: «Papa, don't preach!». Well, Papi Silvio certainly doesn't and never did.

But a stagnant economy worries voters. Corruption scares away investors. And what does the prime minister do amid the fear, the scorn and the storm? He schemes against his own finance minister, Giulio Tremonti; he juggles four criminal trials, on charges of bribery, tax dodging, embezzlement and patronising an underage woman for sex (he denies any wrongdoing); and he answers phone calls from young women who want favours after attending his «bunga bunga» parties.

Mr Berlusconi has survived countless forecasts of his departure, but his time may finally be up. Emma Marcegaglia, president of Confindustria, the industrialists' association, which is usually cosy with Italy's centre-right governments, is furious: «We are fed up with being an international laughing stock - she said -. Across Europe and in America first they condemned us; then they pitied us; now they spur us on, as if to say: 'Come on! Italy may have its problems, but it can do better than this». This is new. Those who love Italy, and/or do business with us, realise we now need encouragement, not derision, because Italy is currently crossing a treacherous border – perhaps the third and final such crossing, as far as Mr Berlusconi is concerned.

The first border was between complicity and embarrassment. We crossed it in 2009, 15 years after Mr Berlusconi's first stint in government, with the revelations of the prime minister throwing wild parties in his residences in Rome and Sardinia, with very young girls in attendance. The surprise visit to one of them by Noemi Letizia, on the occasion of her 18th birthday, cost Mr Berlusconi his wife Veronica and also shed light on his unusual personal lifestyle.

The second border divides embarrassment from irritation and shame. In the past two years, Italy has been hit by an avalanche of sleaze. And the prime minister has appeared to be surfing on it, seemingly undaunted. Among many spectacular allegations was a report that he abused his office to cover up his relationship with an underage Moroccan girl, and that he paid her for sex. The impression is that, at this point, many centre-right voters «crossed that border» from feeling embarrassed to irritation and shame. Last spring, local elections in Naples and Milan, Mr Berlusconi's home town, confirmed this: the prime minister's candidates were thrashed.

Today Italians stand on the third border, this time between shame and anger. The euro crisis looms large, given that on September 20 Standard & Poor's' cut Italy's credit rating by one notch to a single A. The editor of Il Sole 24 Ore recently summarised Italy's woes, pointing to «the fragility of the government coalition, the embarrassing chain of scandals that directly affect the prime minister, his ministers and their immediate associates, and a persistent inability to take painful but necessary decision».

All of this adds up to a worrying picture, especially as the country celebrates its 150th birthday – twice as many as Mr Berlusconi, who is 75 on Thursday. Eventually, even fantasists must give up their fantasies. The time is surely right for the escape artists to make room for the professionals. This time, at last, I think it is going to happen.