domenica 30 dicembre 2012
La morte della morte
Sono fondamentali le considerazioni sul massacro di donne - talora amate in modo malato e ossessivo - ma non si deve trascurare l'origine più profonda del gesto omicida in generale in questa epoca: lo svuotamento dell'idea di morte, strumento risolutivo con impressionante leggerezza di qualunque fatica metta a repentaglio l'egoistica quiete, più che un'improbabile serenità, del vivere. La morte è per molti orfana della sacralità che emanava, del mistero che la contornava e ne accentuava la percezione. Vediamo uccidere e poi costituirsi senza pensiero di pena per la vittima (talora è rancore, lacrime che gridano: ecco dove mi hai portato), senza pentimento né tormento, indifferenza per il carcere, spossatezza dopo l'annientamento dell'ossessione. È successo tutto come se fosse stata la lettura di un libro fino al capitolo che mette paura e orrore, mette alla prova la capacità di reggere e misurarsi: allora, anziché passare oltre, scivolare a un altro capitolo, si butta, si calpesta, si brucia l'intero libro.
Se qualcosa è rimasto immutato nell'uccidere quel qualcosa sta di casa nel crimine organizzato, dove l'assassinio è strumento di lavoro, mezzo per garantirsi il predominio, punire tradimenti o sgarri. Una cosa soltanto è cambiata, si è «affinata», quando alla regola che rispettava donne e bambini si è sostituita una logica appresa dal terrorismo: tremate tutti, non ci fermiamo di fronte a nulla, nulla ci fa paura. In realtà una paura forte la provano: paura della cultura della legalità e della cultura in genere, da qui l'odio per i Luigi Ciotti, i Roberto Saviano.
La cultura è sparita dalla morte nel quotidiano, maneggiata come straccio sulla lavagna, gesto del bimbo che si copre gli occhi «e non esiste più il pericolo», dito ansioso sul telecomando per mutare il film spiacevole dentro cui si vive, come Peter Sellers in «Oltre il giardino». L'omicidio ha sostituito con agghiacciante naturalezza la spallata, la scazzottata di un tempo. Lo sciagurato che si sentiva deriso al bar per le intemperanze della moglie ristabiliva l'onore di lei e la dignità propria riempiendo di botte l'incauto davanti a tutti. Oggi tace, va a casa, prende la pistola, torna con quel «telecomando» in tasca, e spara: con l'uomo che offendeva il proiettile cancella magicamente anche le corna. Il problema non c'è più. Ne verrà un altro, d'accordo, con processo, carcere, ma è un libro nuovo, intonso, senza gravami assillanti.
Fragili personalità sono sempre meno attrezzate ad affrontare avversità, accettare sconfitte: ciò che un tempo era delusione, amarezza, oggi è ira e rancore,se sto male la colpa non può che essere degli altri. Mia moglie non mi vuole più perché bevo e sono violento, ma è colpa sua se bevo e sono violento, la odio ma è mia, quindi cancello tutto, la pistola come il tasto reset. In questa lievità dell'ammazzare giocano spesso un ruolo alcol, anfetamine, cocaina, con i cervelli sfrangiati dalla polvere e consegnati alla perdita di controllo e all'onnipotenza.
Alla morte senza sentimento ci si è abituati perché è ovunque senza orpelli né timidezze, è nel film d'azione o nel thriller, è nel continuo rimestare la cronaca nella tv d'intrattenimento, è spettacolo del pomeriggio tra un monologo di leader di partito e lo sguardo azzurro di zio Misseri, è nella sbrigativa criminologia da teleschermo e nella passione morbosa per gli «scavi» dei medici legali . È una sfilata di routine su YouTube, dove si può ammirare un pestaggio o la spinta che lancia una vita sui binari della metro. La morte ha perso rispetto a ogni livello, anche nelle più alte istituzioni. Di fronte al corpo di Eluana Englaro, ridotto a un interminabile inverno dal coma vegetativo, di fronte a una morte scontata per anni, non un ciarlone da bar ma l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non riuscì a trovare altro aggancio alla vita se non quello sessuale: «Mi dicono i medici che può perfino restare incinta».
La società è spaccata in due. Di qua la vulnerabilità di anziani e malati e di quanti - medici, paramedici, volontari, parenti, sacerdoti - hanno a che fare giorno su giorno con il transito alla morte, dove ogni addio è unico, carico di dolori e fatiche, speranze e pace. Di là gli altri, per i quali reale e virtuale sono amalgamati, dove l'assassinio guardato e riguardato in Internet è insieme cronaca e spettacolo, sorpresa e routine, emozione e assuefazione. Nelle case contadine russe, racconta la letteratura, i bambini giocavano nell'unico stanzone, dove la mamma cucinava, e ogni tanto andavano al centro di esso per dare una carezza al nonno che stava passando a miglior vita. Non era assuefazione, era «conoscenza» che accendeva rispetto.
Sempre meno si apprende il senso della vita e della morte - e del passaggio dall'una all'altra - dal dialogo con narrativa, musica, arte oltre che dai lutti. La morte della Morte sta avvenendo per inedia: prosciugata di cultura, mistero e significati.
venerdì 7 dicembre 2012
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giovedì 6 dicembre 2012
Ancora la zattera di T. Gericault
La zattera della Medusa
Compiuta nel 1819 da Théodore Gericault e conservata al Louvre, è uno dei capolavori-simbolo del Romanticismo francese. La zattera della Medusa si riferisce ad un episodio di attualità di cui Gericault rimane profondamente impressionato. Nel 1816 il governo manda la nave ''Medusa'' in Senegal per riaffermare i diritti della Francia. L'incompetenza del capitano ha portato al naufragio. I passeggeri e l'equipaggio si ammassano su una zattera di fortuna che va alla deriva per parecchi giorni. Dopo episodi di fame, paura, follia, suicidi, atti di cannibalismo, rimangono 15 superstiti, recuperati dalla nave ''Argo".
Géricault si appassiona all'episodio, iniziano le sue ricerche sui superstiti, gli studi anatomici sui cadaveri , gli studi sull'acqua e della zattera da lui ricostruita. Costruisce un groviglio, un ammassamento di corpi, cadaveri e moribondi, che è il frutto di un lungo lavoro di assemblaggio, studi di figure, articolazioni e frammenti condotti in atelier. Esegue molti bozzetti prima di arrivare all'idea finale.
La composizione si regge sullo schema astratto di due triangoli con gli assi divergenti: uno ha l'asse corrispondente all'albero della zattera, l'altro è quello della piramide umana, culminante con l'uomo che agita i panni. Già dal punto di vista compositivo questa divergenza imposta tutto il quadro sul principio dell'instabilità, accresciuta dal disordine, dalle travi sconnesse e dai corpi abbandonati. L'unità classica della composizione (la composizione piramidale risale al Rinascimento) viene spaccata, lacerata.
Le figure sono classicheggianti, sia per le pose (riprese daMichelangelo, da Raffaello, e da studi condotti in atelier) che per la tecnica (disegno preciso, studi preparatori, chiaroscuro studiato).
Ma è romantico l'effetto drammatico, il senso della tragedia e della disperazione.
C'è un crescendo di movimento dai cadaveri in primo piano, ai corpi che si aggrovigliano, alle figure che si agitano. È unespediente psicologico per avere l'effetto di aumento diangoscia mista a speranza dalla desolazione delle figure in primo piano (morte o rassegnate) a quelle che si agitano.
Esiste anche un contrasto di due correnti di movimento opposte: il movimento della marea umana e quello delle onde in direzione contraria. La nave è lontanissima, sembra irraggiungibile. Ma viene enfatizzato il tema della lotta eroica dell'uomo contro le forze immense della natura.
Le figure non sono viste come corpi emaciati, deperiti per la fame e gli stenti, ma sono corpi vigorosi, pieni di energia, potenti e in contrasto con quelli abbandonati e distesi. Più che come vittime, nonostante le espressioni di dolore e disperazione vengono visti come eroi che lottano per sfuggire alla morte.
L'opera ha suscitato grande scalpore soprattuto per l'infrazione deliberata delle regole e moduli neocassici. I principi di chiarezza, ordine, regolarità serenità razionale del neoclassicismo sono scovolti dalla violenza del chiaroscuro, dal senso di caos, di tragedia e disperazione.
La zattera è stata vista anche come metafora politica della crisi della Francia dopo il crollo del regime napoleonico.
La zattera della Medusa di Gericault
giovedì 29 novembre 2012
La svolta
Primo nodo: il centro-sinistra prenderebbe più voti con Renzi o con Bersani? Quasi tutti i protagonisti ritengono di saperlo, ma nessuno lo sa veramente. Secondo alcuni Renzi porterebbe al centro-sinistra diversi milioni di elettori disgustati dalla politica e/o delusi dal centro-destra, secondo altri provocherebbe la spaccatura del centro-sinistra e la nascita di un raggruppamento politico alla sinistra del Pd. Probabilmente succederebbero entrambe le cose, visto che Renzi è detestato da una parte dei suoi stessi compagni di partito, ma è impossibile stabilire se il saldo fra voti persi e voti conquistati sarebbe positivo o negativo.
Secondo nodo: l'accesso al ballottaggio. Vedremo come evolveranno le cose nelle prossime ore, ma quello che è evidente fin da adesso è che, limitando la partecipazione al ballottaggio di domenica prossima, l'apparato del Pd sta pagando un prezzo piuttosto alto per garantire l'affermazione del suo segretario. L'idea che per accedere al secondo turno si debba portare una «giustificazione» (come a scuola!), e che ci sia un organismo politico (il «Coordinamento Provinciale delle Primarie Italia Bene Comune», in pratica i funzionari del Pd) deputato a vagliare se la giustificazione è valida oppure no, è semplicemente grottesca, un buffo riflesso burocratico-stalinista che rischia di ritorcersi contro chi l'ha inventato. Perché è vero che chiudere l'accesso al ballottaggio avvantaggia Bersani, che ha già vinto al primo turno, ma è anche vero che, sul piano simbolico, avvantaggia Renzi, se non altro perché mostra di che pasta sono gli apparati per la cui rottamazione il sindaco di Firenze si batte. Senza contare la reazione di chi, escluso dal ballottaggio, negherà il suo voto al Pd alle elezioni vere, un sentimento e un'intenzione che ho già avvertito da più parti.
L'attenzione del pubblico e dei media su questi due nodi, tuttavia, rischia di non farci cogliere la straordinaria trasformazione del paesaggio politico che – in questi mesi – si sta producendo sotto i nostri occhi. Non solo la nascita di protagonisti nuovi (Grillo e il Movimento cinque stelle) e l'autodistruzione di protagonisti vecchi (Berlusconi e il Pdl), ma la vera e propria mutazione che sta scuotendo il maggior partito della sinistra. La sfida di Renzi, anche se dovesse terminare domenica con una sconfitta, sta cambiando e cambierà definitivamente il Pd. Dopo quella sfida, e grazie a quella sfida, il Pd avrà per la prima volta – accanto alla componente socialdemocratica tuttora maggioritaria – una componente liberalsocialista o di «sinistra liberale» di peso politico non trascurabile. Il Pd del futuro non sarà più un partito diviso fra comunisti e cattolici, o fra massimalisti e ortodossi, ma un partito in cui la componente socialdemocratica (oggi ben rappresentata da Bersani) e quella liberaldemocratica (oggi ben rappresentata da Renzi) competeranno per la guida del partito.
Il processo non è ancora compiuto, perché la componente liberale sta prendendo forma e coraggio solo in questi mesi, e quella socialdemocratica non è ancora pienamente tale: se lo fosse Renzi non verrebbe trattato da tanti compagni e compagne di partito come un traditore, un emissario del nemico, un corpo estraneo, o un ospite indesiderato. Ma la direzione di marcia è questa, ed è piuttosto veloce, a giudicare dai consensi che Renzi ha conquistato in pochi mesi.
Ma c'è anche un altro aspetto che merita forse di essere notato. Il mondo politico della seconda Repubblica è oggi un incredibile cimitero di rovine, su tutti i piani. Quasi tutti gli uomini e le donne che hanno occupato gli schermi televisivi negli ultimi venti anni hanno perso ogni credibilità. In giro non si sentono più idee ma solo «dichiarazioni» di nessun interesse, messaggi più o meno in codice ad uso e consumo dei soli politici. I partiti si sono dissolti, travolti dalle inchieste giudiziarie e dall'indifferenza dei cittadini. La destra è un'armata allo sbando, senza progetti e senza senso del ridicolo. Il centro nasconde, dietro l'evocazione rituale – quasi un mantra – di Monti e della sua agenda, il suo vuoto spinto di idee e di uomini.
In questa situazione il Partito democratico, di cui personalmente ho sempre visto e sottolineato gli immensi difetti, si staglia come l'unico «monumento» della seconda Repubblica che ha saputo sopravvivere al terremoto che il ceto politico ha provocato a sé stesso. Ha un'organizzazione, una rete di sedi e di militanti, un dibattito interno. Con le primarie ha saputo creare l'unico evento significativo di riavvicinamento dei cittadini alla politica. E con Renzi e Bersani ha offerto due candidati che possono piacere più o meno a ciascuno di noi, ma sono comunque fra i migliori politici in circolazione in Italia.
Insomma il Partito democratico gode oggi di un prestigio relativo altissimo. Un prestigio che è tanto più significativo, o sorprendente, se pensiamo che anch'esso è coinvolto in diverse inchieste, anch'esso è pieno di personaggi che non avrebbero reso orgoglioso Enrico Berlinguer. E' questo prestigio relativo che spiega il fatto più interessante del nuovo panorama politico che si è andato consolidando negli ultimi mesi: il dibattito programmatico, le alternative fra cui scegliere, le poche idee sulle quali vale la pena scontrarsi, sono ormai quasi tutte dentro il Partito democratico. Ai suoi militanti, o a molti di essi, tutto questo sembra divisione, lacerazione, una ferita dolorosa. A Gramsci, invece, sarebbe parsa una (strana) forma di egemonia. La società italiana è così allo sbando che l'ultimo partito rimasto, anch'esso piuttosto logoro, disastrato e pieno di acciacchi, rischia di diventare l'unico luogo in cui si gioca davvero il futuro del Paese. Ecco perché la competizione fra Renzi e Bersani non indebolisce il Partito democratico, ma semmai lo rende più capiente, più capace di intercettare gli umori della società esterna. C'è solo da sperare che questa opportunità sia colta e coltivata, piuttosto che gettata al vento: magari anche lasciando che, domenica, chi vuole votare sia libero di farlo.
Il narciso
Diciotto anni fa Silvio Berlusconi ebbe il merito di comprendere che la crisi della Democrazia cristiana e dei socialisti avrebbe privato molti italiani delle due case politiche con cui avevano una certa tradizionale familiarità. Gli orfani non avrebbero saputo per chi votare e il vuoto creato dalla scomparsa dei due partiti avrebbe regalato alle sinistre una vittoria sproporzionatamente superiore al reale seguito di cui godevano nel Paese. Berlusconi esagerò la prospettiva di una minaccia comunista, ma la creazione di Forza Italia ebbe l'effetto di riequilibrare il sistema politico e di offrire agli italiani la possibilità di una scelta. Capimmo che il fondatore di Mediaset aveva fatto la cosa giusta quando constatammo che una parte importante della sinistra aveva deciso di imitarlo. La scelta di Romano Prodi fu un omaggio indiretto alla iniziativa politica di Berlusconi. Molti conservatori liberali capirono che la nuova casa dei moderati era stata costruita dall'uomo sbagliato e che il conflitto d'interessi del costruttore, con le sue numerose ricadute giudiziarie, avrebbe acceso un'ipoteca sul futuro del Paese. Ma la logica imposta dalle circostanze non è necessariamente la migliore. L'iniziativa fu di Berlusconi e il merito, al di là degli errori e delle omissioni dei suoi governi, è certamente suo.
Oggi, tuttavia, Berlusconi sta facendo esattamente l'opposto di ciò che aveva fatto nel 1994. Anziché prodigarsi per la sopravvivenza della sua creatura, non sembra avere altra stella polare fuorché se stesso. Non si chiede che cosa possa giovare al Pdl per conservare credibilità agli occhi degli elettori moderati. Si chiede, passando continuamente da una tattica all'altra, che cosa convenga maggiormente alla sua persona e alla sua immagine. Recitare la parte del padre nobile? Riesumare Forza Italia? Sostenere Angelino Alfano, segretario del partito, o congedarlo? Attaccare Mario Monti o indicarlo al Paese come il suo erede e successore? Sostenere l'agenda Monti o diventare una sorta di Grillo in doppio petto, pronto a sfruttare tutti i malumori e i rancori della società nazionale? Assorbito nella contemplazione di se stesso Berlusconi non si accorge che la sinistra, nel frattempo, ha aperto le finestre della sua casa, ha indetto una sorta di pubblico concorso per la sua leadership, è diventata molto più credibile di quanto fosse negli scorsi mesi. Per uno straordinario rovesciamento dei ruoli Berlusconi sta creando il vuoto che diciotto anni fa era riuscito a riempire. Per chi voteranno nella prossima primavera i conservatori liberali e i moderati?
Le primarie, se organizzate per tempo, sarebbero state, probabilmente, la migliore delle soluzioni possibili. Se è troppo tardi, l'unica strada percorribile per il Pdl è quella di un congresso che non sia la solita convention, fatta di luci, applausi, canzoni, discorsi di circostanza e trionfo finale del leader. Al Pdl occorre un appuntamento in cui vi sia spazio per discussioni, denunce, proposte ed esami di coscienza. Soltanto così gli elettori che non si sentono sufficientemente rappresentati da altre formazioni politiche del centrodestra, sapranno se nel Pdl vi siano ancora donne e uomini, possibilmente nuovi, degni di aspirare alla loro fiducia. Beninteso il congresso sarà utile soltanto se Berlusconi accetterà di assistere dalle quinte. Farebbe un bel regalo di Natale al suo partito e a se stesso.
giovedì 22 novembre 2012
Non è un paese per vecchi
Che non fosse un Paese per vecchi si sapeva,
che neanche i bambini ci si trovino alla grande è un dato di fatto,
da ieri si ha la sensazione che non sia un bel posto neanche per i disabili.
Troppo facile essere un Paese per soli sani, possibilmente benestanti.
la sacralità della parola silenziosa
domenica 4 novembre 2012
La vera cultura
Ma che cos'è la cultura?
«È la mediazione tra presente e passato in vista del futuro, e non lo studio del passato o del presente. Oggi in Italia viviamo in un presente piatto e grigio senza visione nè alle spalle nè davanti a noi. Si ha quasi l'impressione dell'abbandono della scienza e dello spirito, e ciò mi rattrista molto. La cultura oggi è principalmente scienza e tecnologia. Nelle scienze naturali esiste il progresso, e una verità spodesta la precedente. Ma nelle scienze dello spirito nulla mai si supera».
Tutti possono accedere alla cultura?
«Sì, perchè abbiamo bisogno di sospendere una vita ordinaria per accedere a una vita straordinaria: basta sostituire il tempo che dedichiamo alla distrazione a un divertimento più evoluto che dia maggiore felicità».
E come si può fare?
«Ci vuole più silenzio, solitudine, amore per lo sforzo, per la lettura. Del resto anche i campioni olimpionici si allenano e la cultura ha bisogno di allenamento celebrale».
venerdì 2 novembre 2012
La Raccomandazione
In un libro di qualche anno fa, intitolato La raccomandazione , l'antropologa americana Dorothy Louise Zinn diceva che il sistema comincia dalla nascita. Quando un italiano è pronto per venire al mondo, le probabilità che sua madre, appena arrivata in ospedale, abbia chiesto, tramite vari gradi di conoscenza, una stanza singola per starsene in pace, sono molto alte; ed esercita tramite terzi pressioni sulle infermiere, esprimendo la volontà di avere il proprio figlio tra le braccia, qualche minuto in più del consentito. Cioè, nella sostanza: qualche minuto in più degli altri.
Il sistema si alimenta fino alla fine dell'esistenza. Subito dopo, i congiunti si muovono tra conoscenze varie per ottenere un funerale migliore e una posizione favorevole al cimitero. In mezzo ai due punti estremi, ci sono le scuole, i concorsi, il lavoro; ci sono i posti al teatro, le file da saltare, i passaporti, i posti auto, un tavolo in giardino al ristorante, il pesce più fresco in pescheria, e via con un elenco lunghissimo di eventi minuscoli o sostanziosi nei quali la differenza la fa il tuo pacchetto di conoscenze, il minor grado possibile di separazione dal potente di turno.
La vita di un italiano, a prescindere dalle grandi corruzioni che sono in atto da tempo e che in queste settimane esplodono alla vista di tutti, è legata alla raccomandazione come a uno statuto naturale. Le tangenti, le minacce, le pressioni, gli imbrogli e le corruzioni sono conseguenza (quasi) naturale di un sistema di vita basato sul concetto di disuguaglianza. Perché in fondo la raccomandazione non serve ad altro che a creare una differenza tra me e tutti gli altri. Io voglio ottenere tramite una rete di amicizie cose, posizioni e rendite migliori; agli altri, lascio il resto. Non voglio accettare le regole condivise con la mia comunità: voglio qualcosa in più. Cioè: voglio vivere meglio degli altri.
Una comunità dovrebbe basarsi sul concetto contrario. Cercare cioè di ottenere il meglio per tutti. La raccomandazione invece distribuisce disparità, e come conseguenza crea sfiducia nella neutralità. Se vado al ristorante, in fondo ho paura che mi rifilino cibo meno buono, perché non mi conoscono. E il cibo buono lo riservino per coloro che hanno ottenuto la raccomandazione. Ma non mi rendo conto che tale pratica l'ho messa in moto io tutte le altre volte. La vita italiana, nella sostanza, è modellata sull'ossessione che si ha in provincia: lì, non conta cosa vuoi fare, ma quante persone conosci.
Ora, non tutti gli italiani che praticano la raccomandazione quotidiana sono abili a farne una pratica di corruzione ad alto livello. Però è come se qui la vita fosse un continuo allenamento, una lunghissima preparazione atletica, minuziosa e quotidiana, al malcostume, alla disuguaglianza dei diritti, alla propensione al privilegio. E quindi, chiunque abbia il talento di approfittarne, arriva con il massimo della preparazione.
Il problema, però, non è se ogni italiano sia propenso a diventare il protagonista delle ruberie della scena italiana. No: quello che riguarda tutti noi, è se abbiamo la forza di riconoscere, indignarci e reagire, quando qualcuno procede per vie traverse - noi che siamo abituati fin dalla nascita a vivere in un mondo così. E ci sembra anche che, un mondo così, bene o male, abbia funzionato.
giovedì 11 ottobre 2012
Gandi's thought
ON LIFE
"My life is my message."
2.
ON BEING A SOLDIER
"I regard myself as a soldier, though a soldier of peace."
3.
ON FAITH IN HUMANITY
"You must not lose faith in humanity. Humanity is an ocean; if a few drops of the ocean are dirty, the ocean does not become dirty."
4.
ON NONVIOLENCE
"Nonviolence is the first article of my faith. It is also the last article of my creed."
5.
ON THE SEVEN SINS
"Seven social sins: politics without principles, wealth without work, pleasure without conscience, knowledge without character, commerce without morality, science without humanity, and worship without sacrifice."
6.
ON TRUTH
"An error does not become truth by reason of multiplied propagation, nor does truth become error because nobody sees it. Truth stands, even if there be no public support. It is self sustained."
7.
ON THE "STILL SMALL VOICE"
"The only tyrant I accept in this world is the 'still small voice' within me. And even though I have to face the prospect of being a minority of one, I humbly believe I have the courage to be in such a hopeless minority."
8.
ON LIBERTY
"I'm a lover of my own liberty, and so I would do nothing to restrict yours."
9.
ON FORGIVENESS
"The weak can never forgive. Forgiveness is the attribute of the strong."
10.
ON THE NATURE OF MAN
"A man is but the product of his thoughts. What he thinks, he becomes."
lunedì 17 settembre 2012
La Guida
«È importante trovare una guida e avere qualcuno che ci aiuti a capire la complessità del mondo.
Io non l'ho mai avuto mentre crescevo»
A tempo debito
L'educazione non è qualcosa che si improvvisa, ma richiede, caso per caso, un progetto condiviso.
Accompagnare uomini e donne a costruire un'anima «pronta».
Secondo il verso shakespeariano:
«Quando la tua anima è pronta, lo sono anche le cose» (Enrico V).
domenica 16 settembre 2012
Il dono graatuito
Esiste ancora il dono, oggi? In una società segnata da un accentuato individualismo, con i tratti di narcisismo, egoismo, egolatria che la caratterizzano, c'è ancora posto per l'arte del donare? Ecco una domanda a mio avviso decisiva: nell'educazione, nella trasmissione alle nuove generazioni della sapienza accumulata, c'è attenzione al dono e all'azione del donare come atto autentico di umanizzazione? C'è la coscienza che il dono è la possibilità di innescare i rapporti reciproci tra umani, qualunque poi sia l'esito?
Da una lettura sommaria e superficiale si può concludere che oggi non c'è più posto per il dono ma solo per il mercato, lo scambio utilitaristico, addirittura possiamo dire che il dono è solo un modo per simulare gratuità e disinteresse là dove regna invece la legge del tornaconto. In un'epoca di abbondanza e di opulenza si può addirittura praticare l'atto del dono per comprare l'altro, per neutralizzarlo e togliergli la sua piena libertà.
Si può perfino usare il dono - pensate agli «aiuti umanitari» - per nascondere il male operante in una realtà che è la guerra. Questa ambiguità che pesa sul donare e può pervertirne il significato non è nuova: già nell'antichità si diceva «Timeo Danaos et dona ferentes», «Temo i Greci anche quando portano doni»... Ma c'è pure una forte banalizzazione del dono che viene depotenziato e stravolto anche se lo si chiama «carità»: oggi si «dona» con un sms una briciola a quelli che i mass media ci indicano come soggetti - lontani! - per i quali vale la pena provare emozioni...
Dei rischi e delle possibili perversioni del dono noi siamo avvertiti: il dono può essere rifiutato con atteggiamenti di violenza o nell'indifferenza distratta; il dono può essere ricevuto senza destare gratitudine; il dono può essere sperperato: donare, infatti, è azione che richiede di assumere un rischio. Ma il dono può anche essere pervertito, può diventare uno strumento di pressione che incide sul destinatario, può trasformarsi in strumento di controllo, può incatenare la libertà dell'altro invece di suscitarla. I cristiani sanno come nella storia perfino il dono di Dio, la grazia, abbia potuto e possa essere presentato come una cattura dell'uomo, un'azione di un Dio perverso, crudele, che incute paura e infonde sensi di colpa.
Situazione dunque disperata, la nostra oggi? No! Donare è un'arte che è sempre stata difficile: l'essere umano ne è capace perché è capace di rapporto con l'altro, ma resta vero che questo «donare se stessi» - perché di questo si tratta, non solo di dare ciò che si ha, ciò che si possiede, ma di dare ciò che si è - richiede una convinzione profonda nei confronti dell'altro.
Donare significa per definizione consegnare un bene nelle mani di un altro senza ricevere in cambio alcunché. Bastano queste poche parole per distinguere il «donare» dal «dare», perché nel dare c'è la vendita, lo scambio, il prestito. Nel donare c'è un soggetto, il donatore, che nella libertà, non costretto, e per generosità, per amore, fa un dono all'altro, indipendentemente dalla risposta di questo. Potrà darsi che il destinatario risponda al donatore e si inneschi un rapporto reciproco, ma può anche darsi che il dono non sia accolto o non susciti alcuna reazione di gratitudine.
Donare appare dunque un movimento asimmetrico che nasce da spontaneità e libertà. Perché? Possono essere molti i tentativi di risposta, ma io credo che il donare sia possibile perché l'uomo ha dentro di sé la capacità di compiere questa azione senza calcoli: è capax boni, è capax amoris, sa eccedere nel dare più di quanto sia tenuto a dare. È questa la grandezza della dignità della persona umana: sa dare se stesso e lo sa fare nella libertà! È l'homo donator. Certo, c'è un rischio da assumere nell'atto del donare, ma questo rischio è assolutamente necessario per negare l'uomo autosufficiente, l'uomo autarchico. E se il dono non riceve ritorno, in ogni caso il donatore ha posto un gesto eversivo: attraverso il donare ha acceso una relazione non generata dallo scambio, dal contratto, dall'utilitarismo. Ha immesso una diastasi nelle relazioni, nei rapporti, fino a porre la possibilità della domanda sul debito «buono», cioè il «debito dell'amore» che ciascuno ha verso l'altro nella communitas. Sta scritto, infatti: «Non abbiate alcun debito verso gli altri se non quello dell'amore reciproco» (Rm 13,8).
La prima possibilità del dono avviene attraverso la parola: parola donata, data all'altro. Oggi siamo forse meno consapevoli di cosa significhi «dare la parola, donare la parola», ma il dono della parola è il sigillo sulla fiducia, sul credere negli altri. Senza fede negli altri non c'è cammino di umanizzazione, ma l'eloquenza della fiducia è proprio il donare la parola, che è promessa e accensione di responsabilità verso l'altro. Nelle più quotidiane e autentiche «storie d'amore», proprio perché l'incontro diventi storia, perché l'attimo diventi tempo, occorre la parola data, la promessa.
Ma dal dono della parola si deve tendere, attraverso una serie di atti di dono, al dono della vita. Questo dono estremo è possibile là dove un uomo o una donna hanno ragioni per cui vale la pena dare la vita, spendere la vita, dedicare tutta una vita a... Sono le stesse ragioni per cui vivono, per le quali la loro vita trova senso. Dare la propria vita è però l'operazione più difficile, che urta contro le nostre fibre e il nostro senso di autoconservazione. Noi siamo abitati dalla pulsione biologica a vivere, a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri... Ma ecco la possibilità di dare noi stessi, la nostra vita per gli altri. Non c'è via intermedia.
La tentazione dell'uomo è quella di dare, piuttosto che se stesso, altre cose a lui estranee: è la logica dei sacrifici offerti a Dio... Ma quello non è un dono, ed è significativo che nel cristianesimo la sola offerta possibile sia quella di se stessi, del proprio corpo, della propria vita per gli altri. Si tratta di non sacrificare né gli altri né qualcosa, ma di dedicarsi, mettersi al servizio degli altri affermando la libertà, la giustizia, la vita piena. Ma cosa significa donare se stessi? Significa dare la propria presenza e il proprio tempo, impegnandoli nel servizio all'altro, chiunque sia, semplicemente perché è un uomo, una donna come me, un fratello, una sorella in umanità. Dare la propria presenza: volto contro volto, occhio contro occhio, mano nella mano, in una prossimità il cui linguaggio narra il dono all'altro.
Ma il dono all'altro - parola, gesto, dedizione, cura, presenza - è possibile solo quando si decide la prossimità, il farsi vicino all'altro, il coinvolgersi nella sua vita, il voler assumere una relazione con l'altro. Allora, ciò che era quasi impossibile e comunque difficile, faticoso, diviene quasi naturale perché c'è in noi, nelle nostre profondità la capacità del bene: questa è risvegliata, se non generata, proprio dalla prossimità, quando cessa l'astrazione, la distanza, e nasce la relazione.
C'è una parola di Gesù - non riportata nei Vangeli, ma ricordata dall'apostolo Paolo nel suo discorso a Mileto riferito negli Atti degli apostoli - che è molto eloquente: «C'è più gioia nel donare che nel ricevere». Esperienza reale di chi sa farsi prossimo avvicinandosi all'altro perché l'altro, anche quando avesse il volto del lebbroso, se è visto faccia a faccia, chiede alle nostre viscere di soffrire insieme, chiede la compassione, chiede il dono della presenza e del tempo, chiede il dono di noi stessi. L'atto del donare provoca gioia al donatore perché è un atto concreto che lega il donatore al cosmo, all'altro: è un atto percepito come speranza di comunione. L'accumulazione che non conosce la logica del dono, invece, accresce sempre la dipendenza dalle cose e separa l'uomo dall'uomo, l'uomo dagli altri. Non c'è vera gioia senza gli altri, come è vero che non c'è speranza se non sperando insieme. Ma la speranza è frutto del donare, della condivisione, della solidarietà.
In questo donare e ricevere, proprio perché l'azione è oltre la giustizia che si nutre delle regole dell'eguaglianza, si fa spazio l'amore che è ispirato dalla sovrabbondanza, come dice Paul Ricoeur, appare cioè il «buon debito dell'amore». L'azione del dare la parola, del donare le cose espropriandole da se stessi, del dare la presenza e il tempo non chiede restituzione, ma richiede che l'iniziativa del dono sia proseguita, continuata. Il donare non può essere sottoposto alla speranza della restituzione, di un obbligo che da esso nasce, ma lancia una chiamata, desta una responsabilità, ispira il legame sociale. Il debito dell'amore regge la logica donativa alla quale è peculiare il carattere della gratuità, l'assenza della reciprocità. Com'è vera la parola di Gesù sull'arte del dono: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6,3)! Ogni vita umana è istituita dal debito dell'amore, grazie al quale l'altro è colui del quale si è responsabili, una persona che, una volta incontrata, ha diritto a essere destinataria dell'amore in virtù della prossimità che si è creata.
domenica 9 settembre 2012
La ricchezza sponsorizzata. Un Manifesto per tutti
By Elizabeth Warren
Massachusetts democrat running for Senate
There is nobody in this country
who got rich on his own.
Nobody!
You built a factory out there!
But I want to be clear:
You moved your goods to market
on the roads
the rest of us paid for;
You hired workers
the rest of us paid to educate;
You all were safe in your factory
because of police forces and fire forces that
the rest of us paid for.
You built a factory,
and it turned into something terrific or great idea?
God bless.
Keep a big hunk of it.
But part of the underlying social contract is:
You take a hunk of that and
pay forward for the next kid
who comes along.
sabato 1 settembre 2012
il mendicante
domenica 26 agosto 2012
Domande inevase
| Chi sono? Da dove vengo? Dove desidero andare? Cosa mi fa essere quello che sono? - e, magari anche a trovare abbozzi di risposte sempre più sensate. Non è indispensabile per questo frequentare monasteri, conventi, santuari, luoghi di spiritualità: è ben più importante fare spazio al silenzio interiore ed esteriore, ricorrere a letture non superficiali e di ampio respiro, fermarsi a «leggere» i propri moti interiori, a discernere ciò che ci fa star bene o star male, a riconoscere i propri limiti e le proprie potenzialità. In questa non facile operazione, lo stacco dall'attività in cui finiamo per identificarci quotidianamente è di grosso aiuto: sovente infatti il lavoro - e paradossalmente anche la sua forzata assenza - funziona come alibi per non pensare a se stessi o come anestetico per attutire il dolore che l'esistenza ci riserva. Certo, anche lo svago, il divertimento può avere questa funzione di stordimento, di negazione della riflessione, ma in questo senso le restrizioni che la crisi ha prodotto nelle possibilità di vacanza spensierata possono essere un aiuto a recuperare in profondità e autenticità tesori ormai irraggiungibili in termini di tempo e mezzi a disposizione. Il secondo ambito in cui la crisi e le sue ricadute sulle vacanze possono funzionare da stimolo arricchente per la nostra umanizzazione è quello del rapporto con gli altri e con l'ambiente: la sobrietà che percepiamo come imposta dalle circostanze avverse ha solo risvolti negativi? È un impoverimento del nostro essere uomini e donne degni di tal nome? Che ne faccio dell'altro che mi sta accanto, dei membri della mia famiglia, degli amici, dei colleghi di lavoro, delle persone che incrocio quotidianamente? Quali incontri e quali rapporti voglio davvero coltivare? Che rispetto ho per la dignità di ogni essere umano? Quali responsabilità sono pronto ad assumermi nei confronti di chi frequento abitualmente o di coloro verso i quali ho assunto impegni precisi? Che tipo di solidarietà riesco a esprimere e a vivere nei confronti dei più deboli, delle vittime di ingiustizie e violenze, dei dimenticati dalla storia? Domande che troppo facilmente evitiamo di porci quando siamo assillati dalle cose da fare, dai guadagni da conseguire, dalle lotte da combattere, dalle concorrenze da vincere. Domande che però attendono risposte se non vogliamo smarrire la nostra qualità umana, unica e irripetibile per ciascuno. Infine, collegata alla qualità dei rapporti con gli altri, c'è la dimensione del rapporto con le cose, con la creazione, con l'ambiente e, di conseguenza, con le generazioni future: che immagine ho del mondo, della terra su cui viviamo e di cui ci nutriamo? Che cura ho delle risorse naturali ricevute in eredità da chi ci ha preceduto e destinate a essere condivise anche con quanti verranno dopo di noi? Il mio approccio è di sfruttamento ottimale per i miei pretesi bisogni o è di sollecitudine verso un'armonia creazionale che genera benefici per tutti? In sostanza, che mondo voglio lasciare dopo il mio passaggio? Certo, «vacanze» di questo tipo possono apparire impegnative, troppo esigenti, contrarie alla nostra voglia di staccare la spina, ma se vissute con consapevolezza e responsabilità, si rivelano autenticamente liberanti, capaci di rigenerarci alla nostra condizione più vera: quella di esseri umani custodi dell'altro e del creato | |
martedì 21 agosto 2012
La canizie sprovveduta
La longevità però non è un valore assoluto: non basta vivere a lungo, ma bisogna vivere bene, con consapevolezza.
Io non penso mai alla morte, è una dimensione di cui non me ne frega niente, quello che mi spaventa è il soffrire inutilmente: penso che la vita ad un certo punto, per mille motivi diversi, possa stancare, e che le persone debbano essere libere di poter scegliere di spegnere l'interruttore.
La longevità culturale
Il Giappone è, con l'Italia, la nazione più longeva al mondo, con 20 centenari ogni centomila abitanti, ma l'isola è un record in sé: la durata media della vita è 81,2 anni e centenari sono il 20% della popolazione, con tassi di malattia - tumori, malattie cardiovascolari e perfino osteoporosi - inferiori rispetto al resto del mondo. La loro ricetta si basa su due pilastri: lo «Ishokudoghen», che significa il cibo è la tua medicina, e lo «Yuimaru» che indica il senso di appartenenza alla comunità. L'alimentazione degli isolani è basata su frutta, verdura, soia e i suoi derivati, pesce, il tutto integrato da curcuma e dall'alga konbu. Dunque seguono una dieta povera di calorie (circa 1100 al giorno) e ricca di aminoacidi, vitamine, sali minerali. La prima regola è quindi mangiare poco e vegetariano, per mantenere in forma il corpo. Ma altrettanto importante è mantenere in forma la mente, con la consapevolezza di essere necessari e importanti per la famiglia e la società.
A Okinawa gli anziani non conoscono la solitudine: gli ultranovantenni continuano ad avere un ruolo sociale e sono così rispettati da essere invogliati a sviluppare spiritualità e pensiero. Sono i saggi, amati e onorati.
Molti studi dimostrano che mantenere interessi culturali, suggestioni intellettuali e artistiche aiuta la mente a rimanere vigile e attiva e, salvo casi di malattie neurodegenerative, salvaguardare la sua salute.
Io sono convinto che proveremo scientificamente che parte della longevità è legata alla capacità di essere curiosi e mantenere le passioni intellettuali e le relazioni umane; oltre che all'alimentazione frugale.
Del resto i dati di Okinawa sono chiari: i benefici sulla longevità si perdono quando i suoi abitanti emigrano. Per vivere a lungo e bene, allora i geni hanno un'influenza limitata: occorrono condizioni di vita generali, comportamenti individuali e cultura. Lo ripeto: credo che la longevità sia un patrimonio, qualunque sia la nostra convinzione su ciò che accade dopo la sua fine. È un peccato sottovalutare il periodo che trascorriamo in questa vita.
martedì 24 luglio 2012
Le due Europe
La concezione dell'Europa alla base dei Trattati di Roma cancellava di fatto almeno due aspetti decisivi: l'esistenza da un lato di un'«Europa mediterranea » (allora soltanto l'Italia, ma che con Spagna, Grecia, Portogallo, Malta e Cipro sarebbe poi divenuta una realtà di rilievo), e dall'altro di un'«Europa tedesca » incentrata sulla Germania ma in realtà estesa dalla Scandinavia all'Olanda, all'Austria, alla Slovenia. Quella concezione cancellava l'esistenza di due Europe con storie, società, tradizioni assai diverse. Due Europe da secoli unite sì da valori comuni, ma quasi quanto divise da conflitti: con la differenza, però, che i primi erano patrimonio quasi esclusivo di ristrette élite, mentre i secondi, invece, avevano radici vastissime e profonde. Due Europe, la cui esistenza effettiva la Comunità prima (la Cee) e la Unione dopo (la Ue) sono riuscite ad occultare, per anni e anni, servendosi sia di un fragile mantello ideologico — l'«Occidente» — sia di una apparentemente più solida prospettiva generale, l'economia: tutta l'area comunitaria s'identificava infatti con il capitalismo, era interessata al suo sviluppo, si riconosceva nelle sue regole.
La democrazia in affitto
Qui da noi, nell'«Europa mediterranea », la modernità democratica è nata assai di recente dovendo fare i conti non solo con passati fascistico-autoritari — dalla Grecia alla Spagna, all'Italia appunto—ma con società dai caratteri per più versi ostili ovvero estranei ai suoi valori, nelle quali dominavano antiche e diffuse povertà, una debole cultura civica, legami personali soverchianti e insieme l'individualismo più restio, particolarismi tenaci, una tradizione di governo lontana dallo Stato di diritto. Tutti questi elementi hanno consentito, sì, che i meccanismi consensualistico- democratici si affermassero, ma al prezzo di un ruolo crescente e pervadente dell'intermediazione politica. A Sud delle Alpi e dei Pirenei, per ottenere successo, la democrazia è stata spinta a diventare fin dall'inizio, e sempre di più, una democrazia dei benefici, delle elargizioni, delle sovvenzioni, degli stipendi: a diventare una democrazia della spesa (e quindi, alla lunga, del debito) alimentando uno spirito pubblico conseguente.
domenica 22 luglio 2012
Europe is threatening the world
We in the northern hemisphere are entering our summer holidays in a gloomy mood, partly because we are being joined in our gloom by some of the emerging economies of the southern hemisphere. But the most important word to bear in mind, the one that is really determining the attitudes of financial markets and even of corporate managements, is not gloom. It is risk. If you were to just look at the newly revised economic forecasts released by the International Monetary Fund this past week, you might focus only on gloom. The IMF cut its estimate of global economic growth in 2012 to 3.5%, thanks to slower growth in China, India and Brazil, but also thanks to the euro-zone's recession. The IMF forecast a drop in euro-zone GDP this year of 0.3%, but falls of a worrying 1.9% in Italy and 1.5% in Spain. This follows global growth in 2010 of 5.3% and in 2011 of 3.9%, so plainly the trend is gloomy and downwards. The United States looks relatively healthy at 2% forecast growth this year, twice as fast as Germany (and ten times Britain's stagnant 0.2%), but even that is too slow to have much impact on unemployment as both the US population and its labour force are growing. Yet these sort of numbers take me back in time. During my time as direttore of The Economist, I remember publishing a front cover, I think in September 2002, describing the world economy as "in the doldrums", by which I meant it was like a sailing ship that was not moving because there was no wind. This was based on IMF forecasts of growth in 2002 and 2003 even slower than the ones it has just made. So what happened? The world between 2002 and 2007 in fact had the fastest five years of economic growth it had enjoyed in more than 40 years. It would be nice to think that could happen again, and that we would all turn out to have been much too pessimistic. It isn't impossible: the emerging economies are probably only in a temporary slowdown, caused by their efforts to reduce price inflation, and the United States has a remarkable ability to reinvent itself, as it is now doing with its oil and gas boom.
Yet let's be realistic: it isn't likely. And the big reason doesn't lie in China or in the United States. It lies in risk, or rather in the feelings that companies and investors now have about risk. Even though a war had started in Afghanistan in 2001 and was going to start in Iraq in 2003, actually companies in those days did not feel that in their businesses, in their markets, in their investments, that the risks were large. But they do now. Of course, investors and managers always worry about risk. That is their job. But the difference now is that the range of risks feel much wider, the range of possible events dramatically broader, than they did in 2002. The Arab Uprising, with civil war now under way in Syria, is one example, especially when combined with the tension over Iran's nuclear programme: this makes the price of energy even more unpredictable than usual. The welcome and helpful fall in oil prices that occurred in recent months has been partially reversed, as a result. Concerns about China's economy, and about its political stability following the scandal and murder accusations surrounding Bo Xilai, former mayor of the Chicago of China, Chongqing, fall into a similar category. The worry about China is exaggerated, in my view: the government's capacity to support growth through monetary and fiscal policy remains strong. But at a time of general nervousness about risk, some companies do seem to be holding back their investments out of worry about China's future. Even so, the biggest source of worry is much closer to home. It is Europe. The problem is not simply the fact that government debts are huge, that growth is non-existent and that there is a basic disagreement between the debtor and creditor countries about how the euro should be run. Those things are important, of course. But the real problem is that the range of possible outcomes looks so wide. How can a company plan its investments to take into account the possibility of Greek withdrawal from the euro? What percentage probability should it give to the chance that other countries might leave the euro, or that the currency might collapse altogether? What should companies think about the next Italian elections, with Beppe Grillo and Silvio Berlusconi both thinking aloud about whether Italy should leave the euro? The intellectual, or analytical answer, may be that the chances of Greek exit are high, but that the chance of other countries leaving or of a complete collapse are very low. The chance of Italy leaving the euro and defaulting on its debts is non-existent: every Italian bank would immediately collapse. Notions one often hears in countries outside the euro, especially America, of the currency splitting into two, with different common currencies for northern and southern Europe are, in my view, virtually inconceivable. Our difficulty right now, however, is that intellectual and analytical answers are not enough. Corporate boards and financial institutions have to make decisions.
So what they are doing, increasingly, in response to this uncertainty about the euro, and about Italy, is not to invest at all. They are sitting on their cash, or putting it in low-yielding, seemingly safe places such as German Bunds. This process is becoming self-fulfilling. Cash is seeping away from euro-zone economies and, for different but related reasons, from the British economy too. Investors are not doing in Greece what they would normally do after a financial crisis, namely rushing in to hunt for bargains. They think prices could fall further later, and that Greece will have a further crisis. If there is one thing that governments, especially European ones, need to think about during their holidays it is how to reduce these perceptions of risk. How can companies and investors be convinced that the range of possible outcomes is not as wide as they fear? There is plenty of cash available. It is just not being spent.
lunedì 11 giugno 2012
the allure of cricket
In the latest round of local elections, his Five Star Movement polled about 10 per cent of the vote and won a few mayoral contests, including Parma's. The three largest parties supporting Mr Monti together scraped 37 per cent of the vote, down from 72 per cent in 2010. A recent poll suggests a third of Italians expect Mr Grillo to do very well in the next general election, ten months away – even if two-thirds think he won't be able to run the country.
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So, what is going on? Giuseppe Piero Grillo, better known as Beppe, is a 63-year-old stand-up comedian from Genoa, banned from public television in the mid-1980s after he labelled the ruling Socialists "thieves" (accurately, as it turned out). In the 1990s he started touring Italy with sellout one-man shows. Chippy he may be, but he is also funny, an Italian Billy Connolly, with a distinctive accent, scruffy beard, razor-sharp tongue and a way with an audience. At that time Mr Grillo – his surname means "cricket", as in Jiminy – abhorred computers and the fast-emerging new media. He smashed PCs on stage with a hammer. Then came the internet, and with it his road-to-Damascus moment. Beppe the maverick realised the net's potential and started blogging furiously until his blog became a movement, which is now popular all over Italy.
His programme includes obvious demands that political parties routinely ignore, such as banning those with a criminal record from standing for parliament. He has simplistic solutions to difficult problems, ranging from energy to monetary issues (he moots debt default and leaving the euro). Some of his outpourings are distinctly over-the-top. He hinted enemies might try to stop him with "bombs" and in Palermo said that "the Mafia doesn't strangle its victims", the subtext being that the tax authorities do. But it is hard to discuss any of these as Mr Grillo refuses to go on TV, saying he is not the leader of his movement, only its "loudspeaker".
Showmanship, empathy, one-way communication and tight control of your party: does this remind you of anyone? Silvio Berlusconi, of course, albeit minus the fruity women. Or Umberto Bossi but without the financial scandals that have tormented the Northern League. Italians "enjoy being dramatically governed", wrote the American embassy to the state department in the 1920s. Back then, the showman was a darker, more dangerous figure: Benito Mussolini. But do we really have a weakness for larger-than-life bosses?
The answer is yes; and we are not alone. When times are tough, the way forward painful and traditional parties are offering no hope, democracies are tempted by easy solutions put forward by histrionic leaders. Obviously, tactics and tools have changed. In the beginning, it was a soapbox and a pitch in a town square; then radio and films; then TV; and now it is the internet. We could call it Populism 2.0.
Was it beyond imagination that as Greece trod its dangerous path, a maverick such as Alexis Tsipras, leader of the radical left Syriza party, would appear? Or that Germany would be so fascinated by the Pirates? No, it wasn't. The Demos think-tank reckons that populist movements are also on the rise in the UK, Netherlands, Belgium, Austria, Sweden, Denmark, Norway, Finland and Hungary.
Neo-populists may not have much in common, apart from a swagger, but they are no longer fringe groups. They feel no responsibility for – and have no commitment to – the European project. In this climate they pose a real challenge to mainstream politics, which is proving ineffectual. The stage is empty, waiting for new braggadocio-mongers to strut their stuff. Back in Italy, who supports Mr Grillo? Well, a lot of well-educated people. One in three young Italians is out of work, or struggling to get by on a short-term contract that pays about €1,000 a month. The traditional parties are not listening but Mr Grillo is, or at least pretending to.
You may be tempted to point out that most Italians still back Mr Monti, a man who is the opposite of a comedian. Only Monty Python could turn this tall, bespectacled, dark-suited economist into a comic figure. But he is not here to stay. If he wants to remain in power after spring 2013, he will have to face the electorate. Mr Grillo is ready for the fray. In a lecture hall Mr Monti might have a chance. But in an internet video, or speaking in an Italian piazza, it is no contest.
sabato 2 giugno 2012
Una nuova identità
Sono le diversità che definiscono i nostri tempi. Diversità di cultura, di credo; di benessere e di possibilità di vita.
Diversità di razze, di colori, di speranze. E la diversità non può e non deve essere motivo di scontro. Può e deve essere fonte di aggregazione, di ricchezza, di unità. E, comunque, a tutte e a tutti deve essere garantita parità di diritti. Sono certo che noi possiamo fare tanto se i nostri valori sapranno unire invece che dividere. Credo sia giusto parlare con franchezza, guardandosi negli occhi. L'importante, poi, è come si continua: per costruire bisogna proseguire spalla a spalla, guardando insieme verso un unico obiettivo.
Ci sono parole, ci siamo detti, che non possono che unirci: accoglienza, responsabilità, servizio.
Quello che stiamo facendo è cercare di abbattere barriere, di essere aperti al contributo di tutti al di là delle bandiere e al di sopra delle etichette. Io penso che bisogna gettare dei ponti. Non alzare dei muri. La famiglia e il lavoro, oggi, sono il nostro «ponte». Soprattutto oggi, che la crisi ci impone di riflettere e di cambiare. Credo che il messaggio rivoluzionario di Cristo si sposi oggi ancora più facilmente con il messaggio di chi vuole ridurre le differenze, alleviare la miseria, portare nel mondo la giustizia. Con umiltà, che è il modo in cui intendo questa mia missione laica, voglio dire che paradossalmente questa crisi può aiutarci.
Ad andare alla sostanza delle cose. A liberarci dell'effimero. A mettere la giustizia sociale, e non il profitto, al centro di ogni decisione.
Ma se guardo avanti vedo che la crisi potrà darci l'opportunità di cambiare. Di cambiare gli stili di vita.
Di apprezzare una maggiore sobrietà.
La famiglia.
Qual è il significato della parola famiglia? Famiglia significa amore, rispetto, solidarietà.
E significa scelta, scelta di condividere un pezzo di strada. La famiglia è, in piccolo, la nostra società.
Le famiglie sono spesso la vera colonna del sostegno sociale dei più deboli, e pagano oggi il prezzo più alto. E la famiglia – le famiglie – hanno la priorità nelle nostre preoccupazioni. Ci interessa anche il loro tempo. E come lei, penso, che la domenica debba essere il loro tempo. Ci interessa la loro vita. Il cibo che mangiano.
Troppo spesso, oggi, al di là delle parole, le famiglie si sentono abbandonate, non sostenute, obbligate a trovare solamente al proprio interno le risorse per sopravvivere. Troppo spesso tante donne sono costrette a portare sulle loro spalle tutto il peso del futuro delle loro famiglie e troppo spesso, nelle case, le donne sono oggetto di violenza. Questo non deve più essere.
Allora da qui, oggi, può ripartire un messaggio forte che dia nuovo impulso alla formazione di tutte le realtà familiari.