venerdì 31 dicembre 2010

Non un gregge di pecore

Vorrei che quando, nei sondaggi che si ripetono con esiti sempre uguali, gli italiani confessano che cosa più li preoccupi, una maggioranza strenua  rispondesse:

 l'ambiente, il massacro d'ambiente, l'abitabilità, non i soldi.

 Questo significherebbe essere dei cittadini, e non un gregge di pecore da macello, che si lascia rassicurare dalla vicinanza di un gigantesco Supermercato.

Una chiesa ingessata

La chiesa è troppo preoccupata per la governabilità del Paese, per prefigurare situazioni politiche diverse, mentre una parte dei vescovi e della base cattolica (non soltanto quindi del mondo laico) vorrebbe una chiesa meno interventista sulla scena politica e più libera nell'esercizio della sua missione spirituale e sociale.

Un’idea semplice

Andrea non si è perso. Ma per non perdersi ha rinunciato a tutto quello che era previsto per lui

: l'università, gli amici con le moto, «il bianchino» al bar, le notti in discoteca, le vacanze, una vita borghese. Ha rinunciato ai sogni preconfezionati e alla velocità del suo tempo. Andrea Maffeo, 18 anni, figlio di un chirurgo e di un'insegnante di Biella, da due anni ha scelto di fare il pastore: «Mi piacciono le bestie, stare all'aria, prendermi cura di loro. Andare a cercare sempre nuovi prati per portarle a pascolare, anche se non è facile.

Ma quando finisce la giornata e vedo che le mie pecore hanno la pancia piena, sono felice anche io». Perché la felicità può essere davvero un'idea semplice. Pastore ramingo. La sua transumanza oggi lo porta a Candelo, un piccolo paese ai piedi delle montagne, a settanta chilometri dal confine svizzero. E fa uno strano effetto arrivare alle bestie passando lungo stradoni costruiti per fare spazio a ipermercati, parcheggi e rotonde. Questa è la terra del filati di pregio. La lana di Andrea invece è spessa e ruvida, e il suo piccolo marchio si chiama «Crusch Gacc»: «In dialetto biellese significa pastore buono, pastore serio. Che non lascia mai le pecore, neanche di notte».

D'inverno dorme dentro una vecchia roulotte con una stufetta, niente televisione: «Guardo il telegiornale quando torno a casa dai genitori. Magari sto anche mezz'ora davanti al computer. Facebook mi piace, ma posso farne a meno». Andrea a scuola era un disastro. «A parte i voti, sentivo che non poteva essere la mia vita. Ero sempre stanco, insofferente. Il banco mi sembrava una prigione. Non era per me. Quando mio nonno mi portava in montagna, invece, stavo molto meglio. Lui mi diceva: "La senti l'aria?". Io la sentivo. Ho capito così quello che volevo fare».

I primi ad accorgersi di Andrea, della sua storia piccola e grande, sono stati Manuele Cecconello, Claudio Pidello e Andrea Taglier. L'hanno seguito per un anno con telecamere e macchine fotografiche. Con pochi mezzi hanno girato un documentario poetico, pieno di silenzi e attese, stagioni che cambiano lentamente, com'è la vita di Andrea. Si chiama proprio «Sentire l'aria». Un successo per ora confinato al biellese. Ma il primo vero sponsor del pastore Andrea, a guardare bene le cose, è stato suo padre.

«Facevo il secondo anno di Agraria. Alla fine della scuola, gli ho detto che volevo cercare qualcuno che mi insegnasse a fare questo mestiere. Lui mi ha detto di provare. Sono andato in montagna con un vecchio pastore che si chiama Nicola Pelle. Non è che parlasse molto, ma il mestiere si ruba, non si insegna». Al ritorno Andrea aveva deciso: «Ci sono state discussioni in famiglia, come è normale. Mio padre mi ha chiesto tante volte se fossi sicuro. Alla fine mi ha detto: "A noi va bene, se tu sei felice". Sono andato con lui a comprare le prime pecore».

Oggi Andrea ha 300 capi, insufficienti per vivere, ma abbastanza per sperare un giorno di farcela: «Devo arrivare a 500, avere più contributi, produrre più lana. Riuscire presto a pagarmi le spese: il fieno, il granturco, la tosa». Una giornata al pascolo può fare bene. Lunghe ore di attesa da un prato all'altro. Nessun rumore, a parte le pecore che brucano e belano, mentre il cane Birbàn controlla che ci siano tutte. Andrea sta seduto appoggiato a un bastone: «È bello vedere come cambiano le giornate - dice - ognuna è diversa». Cosa ti manca di più della tua vita di prima? «Il tempo libero. Non dico le vacanze, ma mezza giornata per andare con gli amici, magari. Però le pecore non aspettano». Ci tiene ad essere un «Crusch Gacc»: «Non so se potrò farmi una famiglia. Per stare insieme in questa vita bisogna fare tante rinunce».

Il padre di Andrea si chiama Michele Maffeo, da sette anni si occupa di cure palliative per malati terminali di cancro: «Certo, le ambizioni di ogni genitore sono diverse. Non dico che speravo che facesse il chirurgo, ma magari un lavoro in cui si realizzasse di più. Però Andrea a scuola soffriva troppo. E mi è venuto in mente che Mario Rigoni Stern aveva la terza media. Non so se in futuro ci rinfaccerà di non aver insistito di più per farlo studiare. Ma so che un uomo può trovare la sua morale in mezzo ai boschi come nel centro di Torino. Intanto gli stiamo con il fiato sul collo. La cosa più importante è che Andrea impari il rispetto».

Il rispetto è nel silenzio. Nelle carezze per Birbàn. Nei fischi che richiamano il gregge verso il recinto, quando il pomeriggio diventa freddo e buio. In giro che cosa dicono di te? Andrea sorride ancora: «I commenti sono vari. Molto mi criticano, dicono: "Ma cosa ci fa il figlio del dottore dietro alle pecore?"». Cerca un senso come tutti, il suo.

mercoledì 29 dicembre 2010

Una giustizia armoniosa

Il piccolo tribunale di Nicosia, uno di quelli che dovrebbe essere soppresso ma che nel distretto giudiziario di Caltanissetta risulta tra i più attivi ed efficienti nonostante le gravi carenze di organico, non è nuovo a decisioni che, in tema di diritto di famiglia, hanno fatto discutere:

 

 ha dato ragione ad un padre non affidatario, concedendogli di poter vedere i figli non soltanto fisicamente ma anche in webcam;

 

ha riconosciuto che in caso di inadempienza di un genitore nel versamento degli alimenti, debbano essere i nonni a farlo;

 

o, ancora,

 

ha ammesso la costituzione di parte civile di un bambino di 4 anni nei confronti della madre affidataria che non gli consentiva di vedere il padre.

 

Non sembra, a leggere le virtuose interpretazioni del piccolo tribunale di Nicosia, che la giustizia italiana sia così malmessa.

C'è un giudice,  attento alla crescita armoniosa dei piccoli in una famiglia, che ha il coraggio di non lasciarsi intimidire da questioni di sesso, tanto distorte nella nostra rappresentazione immaginaria, e che mantiene intatto il diritto di un genitore, sia esso il padre o la madre,  a vivere   con i propri figli parte della propria giornata e della propria vita.

 

E sanziona duramente l'atteggiamento discriminatorio che inevitabilmente insorge in una causa di separazione, mettendo davanti a tutti le necessità dei piccoli.

 

Anche le necessità economiche non vengono minimizzate dal giudice che opportunamente richiama anche i nonni a sostenere, qualora siano in condizione di farlo e qualora ci siano impedimenti paterni nel caso,  a provvedere alle prime e indispensabili cure per  la crescita dei piccoli.

 

Se domani questo stesso giudice si svegliasse e imponesse non soltanto ai genitori ma allo STATO di provvedere al soddisfacimento di diritti inalienabili dei piccoli:

al diritto ad essere un bambino,

al diritto di poter giocare,

di poter mangiare le caramelle,

di poter frequentare una scuola materna,

di poter giocare con gli altri bambini nei parchi giochi,

  di poter guardare i cartoni animati, di andare al cinema, al teatro all'opera,

 di poter giocare liberamente sotto casa,

di poter……

 

Allora veramente potremmo tornare a sperare senza dover per necessità credere che solo le istituzioni religiose sono in grado di offrire pieno sostegno alla piena crescita della nostra precaria esistenza

 

martedì 28 dicembre 2010

Le nuove frontiere del generare

Che cosa ci spinge a mettere al mondo un figlio? Un bisogno irrefrenabile, terribile e bellissimo, cui non sei capace di dare un nome. Il desiderio di perpetuarsi, di lasciare qualcuno su questo mondo quando non ci saremo più. La voglia di specchiarci in qualcuno che non siamo noi, ma che è come se lo fosse. Fare un figlio è un atto d'amore. Viene dall'incoscienza e non dalla ragione, è un groviglio di sentimenti in cui il calcolo non c'è. Fare un figlio è quasi assurdo, se ci pensi: è una fatica e una responsabilità, è un catenaccio per la vita, è la negazione di quella libertà che credevi una conquista ma poi a un certo punto non ti basta più. Fare un figlio è la cosa più umana che ci sia, nel senso di uomini e donne insieme o ciascuno per conto suo.

 

Non è affatto detto che solo un famiglia normale e un travaglio di parto significano responsabilità, amore, cura e lungimiranza del sentimento. Le nuove frontiere del generare non sono affatto una garanzia di fallimento genitoriale. Sono, casomai, un'altra occasione per riflettere su quel che significa mettere al mondo un figlio, e non dimenticarselo mai.

Le amnesie dei cattolici in politica

Ricompattare l'intero segmento dei cattolici in politica, cominciando con il mettere al sicuro «il pacchetto cattolico» da un'ipotetica ripresa laica. E' questo ciò che sta a cuore alla gerarchia ecclesiastica.

Se questa operazione riesce, i cattolici continueranno a costituire una «lobby dei valori» (come se quegli degli altri fossero disvalori) senza riuscire ad essere una vera classe politica dirigente. Forse non se ne rendono neppure conto. Comincio a pensare che le ragioni di questa debolezza siano da ricercare anche nell'elaborazione religiosa di cui si sentono tanto sicuri. Cerco di spiegarmi - a costo di dire cose sgradevoli.

Non c'è bisogno di evocare «il ritorno della religione nell'età post-secolare» per constatare nel nostro Paese la forte presenza pubblica della religione-di-chiesa (cioè dell'espressione religiosa mediata esclusivamente dalle strutture della Chiesa cattolica). Ma la rilevanza pubblica della religione, forte sui temi «eticamente sensibili» (come si dice), è accompagnata da un sostanziale impaccio comunicativo nei contenuti teologici che tali temi dovrebbe fondare. O meglio, i contenuti teologici vengono citati solo se sono funzionali alle raccomandazioni morali.

 Siamo davanti ad una religione de-teologizzata, che cerca una compensazione in una nuova enfasi sulla «spiritualità». Ma questa si presenta con una fenomenologia molto fragile, che va dall'elaborazione tutta soggettiva di motivi religiosi tradizionali sino a terapie di benessere psichico. I contenuti di «verità» religiosa teologicamente forti e qualificanti - i concetti di rivelazione, salvezza, redenzione, peccato originale (per tacere di altri dogmi più complessi ) -, che nella loro formulazione dogmatica hanno condizionato intimamente lo sviluppo spirituale e intellettuale dell'Occidente cristiano, sono rimossi dal discorso pubblico. Per i credenti rimangono uno sfondo e un supporto «narrativo» e illustrativo, non già fondante della pratica rituale. La Natività che abbiamo appena celebrato è fondata sul dogma teologico di Cristo «vero Dio e vero uomo». Si tratta di una «verità» che ha profondamente inciso e formato generazioni di credenti per secoli. Oggi è ripetuta - sommersa in un clima di superficiale sentimentalismo - senza più la comprensione del senso di una verità che non è più mediabile nei modi del discorso pubblico.

Ricordo il commento di un illustre prelato davanti alla capanna di Betlemme: lì dentro - disse - c'era «la vera famiglia», sottintendendo che tali non erano le coppie di fatto e peggio omosessuali. Si tratta naturalmente di un convincimento che un pastore d'anime ha il diritto di sostenere, ma che in quella circostanza suonava come una banalizzazione dell'evento dell'incarnazione, che avrebbe meritato ben altro commento.

 Ma viene il dubbio che ciò che soprattutto preme oggi agli uomini di Chiesa nel loro discorso pubblico sia esclusivamente la difesa di quelli essi che chiamano «i valori» tout court, coincidenti con la tematica della «vita», della «famiglia naturale» e i problemi bioetici, quali sono intesi dalla dottrina ufficiale della Chiesa.

 Non altro.

 La crescita delle ineguaglianze sociali e della povertà, la fine della solidarietà in una società diventata brutale e cinica (nel momento in cui proclama enfaticamente le proprie «radici cristiane»), sollevano sempre meno scandalo e soprattutto non creano impegno militante paragonabile alla mobilitazione per i «valori non negoziabili».

Un altro esempio è dato dalla vigorosa battaglia pubblica condotta a favore del crocifisso nelle aule scolastiche e nei luoghi pubblici. Una battaglia fatta in nome del valore universale di un simbolo dell'Uomo giusto vittima dell'ingiustizia degli uomini. O icona della sofferenza umana.

Di fatto però, a livello politico domestico il crocifisso è promosso soprattutto come segno dell'identità storico-culturale degli italiani. E presso molti leghisti diventa una minacciosa arma simbolica anti-islamica. In ogni caso, l'autentico significato teologico - traumatico e salvifico del Figlio di Dio crocifisso, oggetto di una fede che non è condivisa da altre visioni religiose, tanto meno in uno spazio pubblico - è passato sotto silenzio. I professionisti della religione non riescono più a comunicarlo. E i nostri politici sono semplicemente ignoranti.

Se i cattolici hanno l'ambizione di ridiventare diretti protagonisti della politica, dovrebbero riflettere più seriamente sul loro ruolo. Il discorso politico, soprattutto quando porta alla deliberazione legislativa, rimane e deve rimanere rigorosamente laico, nel senso che non può trasmettere contenuti religiosi.

Ma nello «spazio pubblico», che è molto più ampio e può ospitare discorsi di ogni tipo, si deve misurare la maturità di un movimento di ispirazione religiosa che sa essere davvero universalistico nell'interpretare e nel gestire l'etica pubblica.

 Non semplicemente una lobby in difesa di quelli che in esclusiva proclama i propri valori.

sabato 25 dicembre 2010

Il rispetto e la speranza

Il Natale — quella nascita e quella notte che tagliano la Storia e fanno balenare la promessa o almeno l'esigenza che questa possa essere anche Storia della salvezza — non è cosa da family day. Quel neonato concepito fuori del matrimonio è irregolare, illegittimo secondo le regole del mondo. Proprio per questo è un figlio per eccellenza, accettato e voluto nonostante le difficoltà, anziché casualmente subito come talora accade pure nelle migliori famiglie. Il suo diritto alla vita, calpestato nelle forme più varie sotto tutti i cieli — negato dalla fame, dalla guerra, dalle malattie e dalla stessa debolezza dell'individuo, che nelle fasi iniziali della sua esistenza gli impedisce di rivendicarlo esplicitamente — è stato garantito dal coraggio della donna che lo sta allattando.

Quando Maria riceve l'annuncio della sua maternità, non sa ancora quale sarà l'atteggiamento di Giuseppe ed è decisa ad affrontare tutte le conseguenze della sua accettazione, anche il disonore e la vergogna che marchiano una ragazza madre; è pronta ad assumere sulle sue spalle l'infame peso della colpa e dell'emarginazione iniquamente messo in carico soltanto alla donna. Maria, che nella sua solitudine dice sì, è una donna, non quell'idolo di gesso o quel fantasma in cui più tardi una superstizione idolatrica degraderà spesso la sua immagine. Il suo compagno si comporterà come un vero uomo, virile e libero da tutte le prepotenze, convenzioni e insicurezze maschili; anche per questo si attirerà le pacchiane barzellette di tanti cretini, così frequenti fra i narratori di barzellette.

In quella capanna di Betlemme ci sono un figlio, una madre e un padre. Non c'è, per loro fortuna — è giusto che il figlio di Dio si sia concesso almeno questo privilegio—la consueta torma di suocere, zii, terzi cugini, suoceri di cognate, un clan talora caldamente protettivo ma spesso asfissiante e invadente, quelle tante donne Prassede, di cui esistono altrettante e altrettanto micidiali versioni maschili, che in nome della Provvidenza— di cui si considerano gli unici interpreti autorizzati —guastano la festa al loro prossimo in generale e soprattutto a chi hanno sottomano.

A quella capanna, a festeggiare il neonato, non arriva alcun parentado, arrivano alcuni pastori. Sono loro, in quel momento, la famiglia di quel bambino. Anche da adulto egli ribadirà, pure con durezza, il primato dei legami nati da libera scelta e affinità spirituali su quelli di sangue, dicendo che i suoi fratelli e le sue sorelle sono coloro che ascoltano e condividono la sua parola e chiedendo perfino bruscamente alla madre, dinanzi a una sua interferenza, cosa vi sia fra loro due. Dopo i pastori arriveranno, secondo la tradizione, i Magi, seguaci e maestri di un'alta religione—quella di Zoroastro, la prima a proclamare l'immortalità dell'anima individuale. Quella capanna è un tempio di tre grandi religioni mondiali; la quarta, che arriverà secoli dopo, l'Islam, si richiamerà ad esse e soprattutto alla prima, quella ebraica.

Pastori e più tardi Magi restano davanti alla capanna; dentro ci sono, a riscaldare il bambino col loro fiato, un bue e un asino, a testimoniare che anche per gli animali, per questi nostri oscuri cugini, dovrebbe esserci salvezza, come ben sa quel personaggio di un racconto di Singer che recita il Kaddish, la preghiera ebraica per i defunti, per una farfalla morta e come sapeva, nel poema sacro indiano Mahabharata, il re Iudistira che rifiuta di accedere al paradiso abbandonando il fedele cane all'inferno.

Quel bambino non è venuto a fondare una nuova religione, di cui non c'era bisogno perché ce n'erano già forse troppe. È venuto a cambiare la vita, cosa ben più importante di ogni Chiesa. Indubbiamente la promessa di pace, annunciata in quella notte, è stata e continua ad essere clamorosamente smentita. È difficile dire se, in questo senso, quel neonato abbia finora vinto o perso la sua partita. Ma è indubbio che egli abbia posto per sempre, nel nostro cuore, nella nostra mente e nelle nostre vene, l'esigenza insopprimibile di quella salvezza. L'albero di Natale col suo verde scuro di foresta, le sue candele e i suoi globi colorati (sul mio ce n'è ancora uno proveniente dalle favolose vetrerie di Norimberga, che adornava quello di mia madre quando era bambina) non dice un'idillica quiete domestica, ma una speranza sinora delusa. Ma proprio perché nel mondo c'è tanta sofferenza e ingiustizia e il male così spesso trionfa, ammoniva Kant, è necessaria l'accanita e lucida speranza, che vede quanto sciaguratamente vanno le cose ma si rifiuta di credere che non possano andare altrimenti.

Pure quel bambino di Betlemme è nato per morire. Morirà anzi presto e fra angoscia e tormento, che la resurrezione non cancella in alcun facile lieto fine. Gesù ha scelto la morte perché, pur amando la vita, sapeva che essa non è il bene supremo e che talora si può essere chiamati a perderla per amore degli altri. Ama il prossimo tuo come te stesso, sta scritto. Dunque il nostro prossimo sono gli altri ma siamo anche noi ed è lecito, anzi doveroso amare noi stessi e lenire le nostre sofferenze insieme a quelle altrui. Ogni compiaciuta mortificazione viene dal Maligno. C'è un diritto di nascere, di cui si parla poco, e c'è un diritto di morire, di cui si parla molto. Per quel che mi riguarda, faccio mia la dichiarazione congiunta della conferenza delle Chiese cattolica e protestante tedesche sul diritto—rivendicato però dall'interessato e soltanto da lui — di sospendere, in determinate condizioni inaccettabili, cure a quel punto inutilmente accanite. Un uomo che ha fede, ha scritto il teologo Wiener Thiede, non artiglia spasmodicamente quel pezzetto di vita che gli è stato assegnato; le sue mani, non contratte dall'ansia, possono aprirsi e lasciare la presa.

È la libertà — del cristianesimo, ma anche della grande classicità pagana, serenamente inserita nel ciclo della natura—che fa dell'uomo un viandante, un nomade senza fissa dimora e non un sedentario nella vita. Ma spesso si sente dire — con un'espressione infelice e involontariamente rivelatrice — non che l'uomo è libero, ma che è il proprietario della sua vita, declassando così il sacro diritto di morire ad una delle tante e sempre più frequenti leggine ad personam, in difesa dell'uno o dell'altro monopolio di cui si vuol godere. Si può essere proprietari soltanto di cose, di cui si può disporre a piacimento. Non si può essere proprietari di persone, perché in tal caso si è padroni di schiavi e dunque pure schiavi, giacché ogni padrone di uomini perde ogni rapporto con la libertà: «Mi me credevo — Un omo lìbero / E sento nascere — in mi el paron », dice un verso del grande Noventa. Poco importa se lo schiavo di cui siamo proprietari reca il nostro nome: in questo caso trattiamo noi stessi da schiavi, cosa forse ancor più umiliante.

Il proprietario dispone delle cose che possiede; posseggo un'automobile e posso venderla o demolirla a mio arbitrio, essa è in mio potere. Ma il mio io — i miei pensieri, sentimenti, sogni, timori — è in mio potere, come la mia automobile? Posso ordinarmi di innamorarmi, di credere in Dio, di cambiare fede politica, di capire la meccanica quantistica? Ogni io è tutt'al più un condominio, costituito come tutti i condomîni da vicini litigiosi; forse ogni io non è neanche questo, bensì piuttosto un agglomerato di inquilini provvisori che nemmeno posseggono le due camere e cucina e il riscaldamento centrale per cui litigano. Quando ci innamoriamo, votiamo, preghiamo, lavoriamo, ci divertiamo, possiamo e dobbiamo cercare di essere liberi nel nostro agire, ma senza alcuna presunzione di essere proprietari della vita, neanche della nostra, perché in quel caso saremmo come quei padroni delle commedie, cui i servi rubano tutto sotto il naso. Anche il diritto di morire può affidarsi solo alla libertà e al senso del sacro, non all'arroganza di un inesistente padronato di se stessi. La vita è sempre sacra, quando la si riceve e quando la si restituisce. Anche quando la si toglie, come tragicamente può accadere — ad esempio in guerre in cui può sciaguratamente ma inevitabilmente capitare di trovarsi, in una Stalingrado o in una Normandia in cui non si è potuto fare a meno di sparare per impedire che il mondo diventasse Auschwitz.

Sotto l'albero di Natale ci si aspetta di trovare dei doni, ogni anno sempre più mestamente aggiornati alla nostra età e meno fantasiosi dei giocattoli d'infanzia, che un mio zio inventava e fabbricava con le sue mani. È possibile fare una lista di regali desiderati, come si usa per quelli di nozze? In questo caso, cosa chiedere, dato che comunque sarebbe svergognato chiedere di essere felici, come se due sposi chiedessero non un servizio di bicchieri o una lavatrice, ma una grande villa con parco? Forse è presuntuoso chiedere l'amore, anche se è per questo che è venuto quel bambino. Se ci guardiamo in giro e allo specchio, gli orrori la mediocrità l'aridità e la viltà che vediamo scoraggia dal pretendere l'amore che ci manca. Pretendere di renderci capaci di amare è come pretendere di renderci capaci di comporre la musica di Mozart.

Se l'amore è una grazia troppo alta possiamo chiedere almeno un'altra virtù fondamentale, il rispetto, che per Kant è la premessa di ogni altra virtù e che sembra sempre più latitante. Se non possiamo amare la folla oscura come noi che entra nella metropolitana, possiamo sentire concretamente che ognuno di quelli sconosciuti ha gli stessi nostri diritti e la stessa nostra povera dignità. Rispetto per ognuno, anche per l'avversario e per il nemico, anche per chi crediamo di dover combattere duramente, anche per chi va giustamente e pure pesantemente punito per un reato commesso. È questo rispetto, nient'affatto incompatibile con la severità, che manca sempre più, ovunque: nella lotta politica, nella violazione di ogni intimità, nell'arrogante negazione dell'altro.

Non chiediamo di essere perfetti, ma almeno di non essere crudeli e indecenti; di vivere in un mondo in cui si perseguono inesorabilmente i crimini ma si riconosce anche nel volto del criminale giustamente punito senza indulgenza il volto del Cristo o più semplicemente dell'uomo; in cui nessun colpevole—terrorista, pedofilo, mafioso, stupratore, assassino — venga trattato ignominiosamente come ad esempio quel sacerdote, verosimilmente pedofilo e dunque da punire, che si è gettato sotto il treno dopo essere stato insidiato da un falso penitente—inviato da una petulante trasmissione televisiva pretesamente spiritosa—che, in confessione, si è finto tentato dall'omosessualità per adescarlo e scoprirlo, colpendolo in un punto colpevole, debole e tormentato della sua personalità. Vorremmo chiedere, quale dono di Natale, che persone come quel sacerdote finiscano in carcere, se viene appurato un loro crimine, ma non sotto un treno. Una trasmissione televisiva non può diventare un plotone d'esecuzione.

Sotto l'albero di Natale, davanti al Presepe ci sono anche innumerevoli storie terribili, perché quel bambino è venuto a redimere il mondo ed è ovvio che abbia a che fare soprattutto con le sue brutture. Lava ciò che è sordido, piega ciò che è rigido, dice uno dei più grandi inni cristiani.

giovedì 23 dicembre 2010

Jerusalem & Babylon / Demons on the streets of Israel

Almost 30 years ago, my father employed a computer programmer who was an early and prominent support of Rabbi Meir Kahane's Kach party. Innocently, I once asked him how an educated man, an accomplished linguist and mathematician, could support racism. "Jews can't be racist," he answered. "We allow anyone to convert and become a Jew and once he is a Jew, he is equal to us in every way. So how can anyone say we are racists?"

I have learned a few things since then. Among them, that having an education is no bar to holding obscene views, and that racism is not technically just about race. But the idea that Jews cannot really be racist is far from being a fringe belief. The reasoning behind this is not just theological.

Two millennia of persecution have ingrained us with the knowledge that whenever there is racism around, we will be on the receiving end. True, the Torah includes exhortations to exterminate whole nations, men, women and children, but those are relics of an ancient time with no relevance to today's world. Or so we tell ourselves.

Most of the disparaging references to non-Jews in the Talmud were censored out a thousand years ago, mainly for fear of provoking more persecution. Racism always seemed like a luxury that a downtrodden minority group could not afford. Early Zionism may have ascribed to the notion of a "land without a people," disregarding the Arab inhabitants of the land, but this was originally an English Christian notion and by the time 1948 was here, the new Jewish state enshrined equality for members of all races and faiths in its founding declaration.

Sure, 63 years later we still have not yet got around to ensuring that Arab citizens enjoy equal access to land, resources, employment, education and budgets, but we see that as just one more problem that our facile politicians and small-minded bureaucrats have yet to solve. Racists? Us? Have we not we given homes and livelihoods to millions of immigrants, many of them non Jews by any standard? William Safire wrote in the New York Times after the airlifting of the Beta Yisrael from Ethiopia became public that "for the first time in history, thousands of black people are being brought to a country not in chains but in dignity, not as slaves but as citizens." Yes, not everyone wants their children to learn with them in the same school, but that's only because they have so much to catch up, that they bring down the academic level. And the segregation between Sephardi and Ashkenazi girls in Haredi schools? That's only some weird religious observance issue.

After 1967, Israel assumed control of the lives of millions of Palestinians, without civil rights, and after three generations of Israelis became accustomed to letting Jewish settlers through roadblocks and stopping Arabs, and mainstream state-employed rabbis began channeling biblical hatreds, we still convince ourselves it is a result of the existential nationalist conflict between us and them. They were the ones who shouted Itbach al-Yahud [slaughter the Jews], treated prisoners inhumanely and attacked Jews worldwide whenever tensions boiled over in the Middle East. We sent sophisticated field hospitals to Haiti after the earthquake. Two weeks ago, when dozens of rabbis signed the letter against renting apartments to Arabs, former Knesset Member Rabbi Haim Druckman proposed to change the wording. Instead of Arabs, he proposed "hostile elements trying to take advantage of the equality between loyal citizens, realize the 'right of return' and banish us from our land." Anything to maintain the illusion.

Well, finally the racist cat is out of the bag. The demonstrations in South Tel Aviv and Bat Yam against foreigners living in their neighborhoods can no longer be interpreted as anything else.

The group of teenagers that systematically hunted down Arabs on the streets of Jerusalem is not just a freak occurrence. The xenophobia is no longer political, or even solely religious. Rabbis stood by women in shorts at the demonstrations. Veteran Kach members such as MK Michael Ben-Ari were there, but so was Kadima MK Yoel Hasson. Tel Aviv Mayor Ron Huldai, a member of Labor, said the demonstration in his city was "understandable." I wonder how he understood the booing and jeering that greeted an Ethiopian immigrant speaker until he assured his listeners that he was Jewish and then called for the Sudanese to be deported back to their land.

The failure of successive governments to secure the border with Egypt, impose consistent regulation on the import and abuse of foreign labor and, above all, to develop coherent and up-to-date immigration and citizenship legislation, has finally unmasked the demons that were always lurking close beneath the surface. Finally, we have the damning proof that in hurtling down the slippery slope between legitimate concerns over immigration and downright hatred of foreigners, Jews are no different from the goyim.

There is a lesson to be learned here from the Diaspora. The parties of the far right in Europe have shed their old neo-Nazi ties and recast themselves as anti-immigration and especially anti-Muslim. In doing so, they have tried to court the local Jewish communities, citing joint concerns over anti-Semitic attacks. By and large, these overtures have been shunned; most Jewish leaders responsibly knew where to draw the line between speaking out against Muslim hate crimes and the resulting racist backlash. Some of those very politicians who would never be allowed on any respectable platform in their own countries were welcomed here last month and taken on a tour of the settlements.

Israel, for all its faults, is not a predominantly racist or Apartheid-like country. But there has been a continuing failure of Israeli society as a whole to recognize victimhood in others; to understand that there were other genocides in the 20th century that need commemorating other than the Holocaust; that while an entire nation hopes to see Gilad Shalit returned to his family, there are 10,000 mothers on the other side who see their imprisoned sons as fighters and not murderers; and to realize that no amount of PR can ever change the impression made by 43 years of occupation of another people. These demons have been unleashed on our streets.

The government has a duty, finally, to build the southern border fence, to find ways to integrate some of the illegal immigrants and find alternative solutions for the rest, but all of us have a duty to ourselves - to admit we can also be racists.

 

lunedì 20 dicembre 2010

L'orecchino populista

 

Dopo il segno premonitore rappresentato da Di Pietro oggi Vendola è la conferma che l'elettorato che fu per decenni quello del Partito comunista ormai è un pallido ricordo perché un pallido ricordo sono ormai il suo mondo concreto e ideale, la sua mente e il suo cuore.

L'irruzione vittoriosa di Vendola nelle primarie del Pd segna per la sinistra la fine della «storia» come termine essenziale di riferimento e la sua sostituzione con la «vita». Finisce cioè l'idea secondo la quale sarebbe per l'appunto nella storia la dimensione più vera dell'esistenza degli uomini perché sarebbe essa la chiave vera della loro soggettività, e dunque sempre la storia sarebbe la causa e insieme la soluzione dei loro problemi. Questa idea, che peraltro non era stata solo della sinistra, finisce da noi con la fine dell'impianto ideologico che arriva all'Italia della Prima Repubblica dal cuore della modernità otto-novecentesca. Finisce con il declino dell'industrializzazione e dei suoi attori, con l'impallidimento dei grandi luoghi aggregativi della socializzazione come la famiglia, la Chiesa, i partiti, i sindacati. La sinistra è semplicemente quella che ha risentito di più del contraccolpo di tale fine perché era quella che più aveva puntato sulla storia e sul suo supposto svolgimento progressivo, credendosene interprete autorizzata, protagonista decisiva ed erede universale.

Per la suggestione di «Mani pulite» il grande vuoto così creatosi è stato riempito inizialmente da una sorta di trasfigurazione ideologica della giustizia penale. Il moralismo antico della sinistra dovuto al suo credersi portatrice privilegiata di istanze etiche è divenuto giustizialismo: l'idea cioè che dietro ogni avversario si celi un malfattore, e che quindi il codice penale possa e debba essere l'alfa e l'omega di ogni politica. Per una sua parte il popolo di sinistra in questa idea ancora si riconosce, e sta qui il motivo dell'ipoteca permanente che Di Pietro e il dipietrismo esercitano tuttora sui suoi orientamenti elettorali. Ma ormai, come dicevo all'inizio, un'ipoteca ben maggiore ha preso ad esercitarla un nuovo protagonista: Vendola. Alla sguaiataggine plebea dell'ex pm di Milano subentra lo studiato populismo del governatore pugliese.

Con Vendola si può dire che avvenga il distacco completo dall'antico ormeggio ideologico, che in qualche modo con Di Pietro era ancora quello tradizionale, e si entra in qualche cosa di completamente diverso: nel mare della vita. Vendola - anzi universalmente Nichi, in una misura neppure paragonabile a quella in cui Veltroni è mai riuscito ad essere Walter, o la Bindi Rosy: stigmate indiscutibile di una riuscita assimilazione al modello divistico di tipo rockettaro-televisivo - Vendola, dicevo, innanzi tutto non parla: intesse delle «narrazioni» parola chiave del suo lessico. Narra di «ragazzi» lui non dice mai giovani, termine «freddo» che sa di Censis, lui adopera solo termini «caldi», affettuosi, di notti sulla spiaggia ad ascoltare la «taranta» o vecchi cantastorie, di sua madre e dei suoi amici, di grandi speranze e grandi delusioni. Certo, la politica è sempre presente. Ma nella sua «narrazione» la politica è quasi esclusivamente evocazione di sentimenti, è immagini ed emozioni, fantasiosa capacità di rubricare come «immagini di morte» eguali «la macchia di petrolio del Golfo del Messico e il plastico del garage di Avetrana in uno studio tv».

domenica 19 dicembre 2010

Il nudo potere

C'è solo una politica, una classe dirigente, una generazione di governo che ha bisticciato con la nuova generazione, e allora mostra i muscoli, non avendo altro da mostrare.

venerdì 17 dicembre 2010

La vita da precaria. Disincanto di una madre

 

«Mia figlia è una precaria
Ha 30 anni e nessun sogno»

 
ieri mia figlia ha compiuto trent'anni. Da diversi anni lavora nella stessa azienda con contratti «a progetto». Subito dopo la sua nascita, in una gelida notte di luna piena, da un finestrone del reparto maternità dell'allora già vetusto ospedale Principessa Jolanda di Milano (oggi non c'è più) ho potuto ammirare la cupola di Santa Maria delle Grazie del Bramante incorniciata da un cielo terso, luminoso e azzurro che sembrava finto, nel quale, a far da contrappunto alla luna, brillava una stella solitaria. Uno scenario di rara bellezza che mi era sembrato un ottimo auspicio per la mia bambina.
Oggi sono una madre molto arrabbiata. Non è mia figlia che mi ha deluso. E non è di lei che voglio parlare, ma dell'indifferenza di chi assiste senza scomporsi al dramma della sua generazione. Alla sua età io avevo già fatto molti sacrifici, ma avevo prospettive concrete di crescita professionale e di fare progetti per la vita. Per mia figlia e la grande maggioranza dei suoi coetanei i sacrifici non bastano: con questi giovani la realtà è stata, ed è, avara di occasioni e ladra di sogni. Possono anche dimostrare di valere, ma non hanno la libertà di inventarsi il futuro.

Abbiamo perso il valore del lavoro, la sua dignità, il suo ruolo nella crescita individuale e nella società. Non siamo stati capaci di difendere il futuro dei nostri figli. Abbiamo creduto che bastasse aver conquistato certi diritti per avere la certezza che sarebbero durati all'infinito. Complice un diffuso benessere, amplificato in principio dal «riflusso» degli anni Ottanta, abbiamo un po' dormito sugli allori. Noi, che abbiamo potuto realizzarci grazie al lavoro, li abbiamo cresciuti nella certezza che il loro futuro sarebbe stato migliore.

Responsabilità ben maggiori hanno i governi degli ultimi vent'anni senza distinzione, la classe dirigente, le parti sociali, spesso l'inadeguatezza strutturale e formativa della scuola e dell'università. Mi sembra che nessuno, tranne noi e i nostri figli, voglia la fine di questo scandalo. Sono troppi gli altri interessi in gioco.

Con che cuore e testa possiamo accettare che i nostri giovani (e smettiamola con i «bamboccioni»), non abbiano futuro? Nonostante le lauree e i master all'estero, la loro vita sembra segnata irrimediabilmente dalla precarietà. Altro che meritocrazia. E non vale il discorso che sono pigri e viziati. I fannulloni non sono una scoperta del ministro Brunetta, sono sempre esistiti. Per fortuna sono eccezioni.

Le attuali regole del mercato del lavoro, nel tentativo di favorire l'occupazione e combattere il lavoro nero, in molti casi hanno finito paradossalmente per legalizzare la precarietà. Cos'altro si può dire quando, pur non ricorrendo le condizioni previste dalla legge, e in totale assenza di controlli, certe aziende impiegano in massa contratti «a progetto» rinnovabili all'infinito? Perché l'Inps, che da questa tipologia contrattuale riceve contributi irrisori, non controlla che siano veritieri e non degli abusi? Meno male che c'è il welfare delle famiglie. Però anche le famiglie si stanno impoverendo e non mi riferisco solo alle risorse economiche. L'infelicità dei tuoi figli, la loro impossibilità di pensare a domani con un minimo di stabilità, la loro sfiducia, frustrazione, quando non disperazione, fa soffrire anche te, ti condiziona, ti deprime, vivi male. Si vive male tutti.

Basta con l'alibi della crisi globale che paralizza la crescita del Paese. In tempi di crisi c0è anche chi si arricchisce. Non si dica più che da noi però c'è più occupazione che in Spagna. Si dica invece che ce n'è meno che in Germania e quella che c'è comprende qualche milione di lavoratori «atipici».
Credo che abbia ragione chi dice che è finito il tempo del posto fisso perché il mercato del lavoro esige sempre più flessibilità, ma andare in questa direzione senza criterio né tutele non è un passo avanti. Il processo di trasformazione sociale in atto non dovrebbe essere solo un prezzo da pagare. I giovani hanno capacità di adattamento, ma non vogliono e non devono essere ingiustamente penalizzati. Un lavoro dignitoso e flessibile ma con garanzie graduali, fino a raggiungere una certa stabilità, è un elemento importante per ridare fiducia e contribuire al rilancio dell'economia. Non lo dico io, che sono solo una madre arrabbiata, l'hanno detto e lo dicono ripetutamente economisti e giuslavoristi importanti. Ultimamente anche Mario Draghi, Governatore della Banca d'Italia. Sarebbe il modo migliore per dare contenuto a due principi costituzionali: «L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro» (art. 1) e «La repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (art. 4). Effettivo.

Valentina Strada

 

giovedì 16 dicembre 2010

L'eterogenesi dei Fini

All'irritabile padre co-fondatore degli Stati Uniti, Benjamin Franklin,  è attribuito l'ironico invito rivolto, nel fatale anno rivoluzionario del 1776, ai suoi indecisi compagni d'azione: «If we do not hang together, we shall most assuredly hang separately».

 

L'eterogenesi dei Fini è una delle maggiori forze al lavoro nella politica; e la nascita del Terzo Polo ne è stata ieri la ulteriore prova. Una unione dei moderati, pensata, vagheggiata, vezzeggiata da mesi (se non da anni) ma considerata tutto sommato impossibile proprio per la diversità dei profili, delle storie, e degli elettorati, è nata alla fine nel giro di poche ore. Infiammata in ugual misura dalla paura di sparire e dalla frustrazione della sconfitta. In altre parole: tigna, rabbia, orgoglio, e stizza causate dalla bruciante sconfitta della sfiducia in Parlamento hanno potuto quello che mesi di convegni, contatti, progetti e pratiche politichesi varie non erano riuscite a realizzare. In questo consiste l'eterogenesi dei Fini.

 

We can apply the "Eterogenesi dei Fini" even to the excerpts of L. Annunziata in newspaper "La Stampa".

Not  the "Eterogenesi dei Fini" but "Eterogenesi di Fini" is  the thought of writer, hoping, so many do, the new party can create a new wave, able to modify the old path the italian policy.

 

mercoledì 15 dicembre 2010

L'opposizione al caimano

pur coltivando un sacrosanto rispetto dei valori dell'etica pubblica penso che non possano essere sostitutivi di una buona piattaforma politica orientata ad allargare il consenso. La crisi italiana non si sbloccherà fin quando agli elettori non verrà proposta un'alternativa competitiva. Per costruirla l'opposizione deve, intanto, smetterla di amare solo gli italiani che vanno in piazza.

martedì 14 dicembre 2010

Infanzie rubate

Anche questa volta Daniela A. era scappata in una stazione, dentro a un treno che portava al sole, senza un biglietto per arrivare e senza una valigia da riempire. L'hanno trovata così, dieci giorni dopo, perché ricordavano la sua faccia spaurita che scendeva da un vagone fermo a Piedimonte Matese. Daniela ha 12 anni, e la storia silenziosa di una vita rubata, uguale a quella di più di 50 mila bambini come lei. L'ultima volta che l'avevano vista, alcuni testimoni avevano raccontato che stava bisticciando con la mamma davanti all'Ipercoop di Casalnuovo, vicino a Napoli, «perché non voleva chiedere l'elemosina». Era il 3 dicembre. Non era tornata a casa, una catapecchia di legno e di lamiere affogata nel fango in mezzo alle altre baracche dei rom, vicino a una rotonda al confine con Acerra. Era fuggita alla stazione e aveva preso il treno che andava verso Caserta.

Quand'era scesa, così piccola e spaventata, alcuni viaggiatori l'avevano portata in una casa famiglia, dove era stata ripulita, rifocillata e accudita. I genitori avevano denunciato la scomparsa due giorni dopo e solo domenica i carabinieri avevano diffuso una sua foto.

Daniela era già scappata un'altra volta, quando aveva appena 7 anni. Anche allora s'era rifiutata di chiedere la carità per strada, e aveva detto che si vergognava di vendere quei piccoli oggetti che le davano per raccattare qualche moneta in cambio. L'avevano ritrovata quattro giorno dopo, in provincia di Avellino, su un treno come questo di Piedimonte Matese. L'avevano presa ed erano bastati due sorrisi per riportarla dai genitori nel campo. Non aveva fatto altro che viaggiare, in quel breve tempo della sua fuga, dormendo sulle panchine e nelle sale d'attesa delle piccole stazioni o sulle poltrone sfondate dei vagoni, assieme a barboni e derelitti. Il giorno che l'avevano ritrovata per portarla a casa, lei aveva detto che in fondo c'era una cosa che le piaceva, come per farsi accettare l'idea: «Quando piove giochiamo a nascondino». Quelle baracche immerse nel fango, sullo spiazzo di via Siviglia, vicino alla rotonda di Casalnuovo «sono piene di angoli dove puoi ficcarti senza essere visto». L'aveva sussurrato come se fosse una cosa bella. Questa volta, però, i carabinieri che l'hanno ritrovata stanno pensando di lasciarla nella casa famiglia, in attesa di chiarire con le indagini il suo rapporto con la famiglia rom: conta di più il diritto della natura o quello della cultura? Daniela ce l'avrebbe una sua risposta. Anche adesso che fa così freddo e il cielo è così basso, è riuscita a dire che sognava di veder la neve, fiocchi grossi come batuffoli di cotone che danzano nel cono di luce gialla di un lampione, che in fondo sarebbe un sogno così banale se non fosse quello di una bambina senza infanzia, e senza i disegni delle favole.

Tra i Rom, infine, il fenomeno dell'accattonaggio è molto diffuso ed è quasi accettato. Una indagine congiunta della polizia italiana e francese ha sgominato proprio poco tempo fa una banda di bosniaci e croati che sfruttava dei bambini spostandoli da Roma a Parigi come pacchi postali. Cinque persone sono state arrestate. In testa alla piramide c'era il patriarca, Fehim , al quale erano destinati tutti i proventi dei reati commessi dai piccoli nelle stazioni delle metropolitane, rubando qualche portafoglio e chiedendo l'elemosina inginocchiati per terra sopra un sudicio cartone, se avevano meno di 3 anni. Non è che facessero cifre straordinarie: 500 euro al giorno, come risulterebbe dalle confessioni sui verbali, ma per Fehim e la sua famiglia era un ottimo stipendio. E a dire il vero, lo faceva quasi tutto lei, una ragazzina di 12 anni, che gli inquirenti non hanno mai saputo come si chiamasse veramente, perché aveva un mucchio di nomi falsi e tutte le volte che la fermavano, lei ne dava uno nuovo. Fehim ha detto, con terribile cinismo, che «era una fuoriclasse», rendendo a Madeline o a Uana, o a chiunque lei fosse nella realtà, una statura quasi assurda nella sua iperbole, come se la sua schiavitù potesse appartenere a una categoria superiore. «La sua specialità era lo scippo», avevano confessato gli altri della banda. Ma la cosa più crudele alla fine è che lei e Daniela, sono le due facce della stessa medaglia, come se fossero quasi la stessa persona o come se avessero la stessa vita, tutt'e due bambine sconfitte, senza un Natale e senza una favola da poter ascoltare.

 

martedì 7 dicembre 2010

La Speranza e il Progetto

Prima di andarsene ha lasciato un messaggio sulla pagina di Facebook dei suoi amici: ho pochi giorni di vita, ma non perdo la speranza.

Elizabeth, malata dal 2004, ha trascorso gli ultimi giorni di vita nella sua casa a Chapel Hill in Nord Carolina, tra le visite di amici e familiari, senza rinunciare a restare in contatto col mondo. Anche su Internet. In serata, l'ultimo messaggio, che ha fatto il giro del Web: «I nostri giorni sono contati, lo sappiamo tutti, eppure ci sono volte in cui non siamo in grado di avere la pazienza e la forza necessarie. Ma questo significa essere umani. Ho scoperto che vivere con speranza e cercando di avere un impatto positivo sul mondo rende anche i miei giorni pieni di significato. E per questo sono grata».

 

Vivere con speranza rende i miei giorni pieni di significato, sembra questo il messaggio di Elizabeth che tanto coinvolge gli americani.

Ma forse è bene, senza troppo lasciarsi coinvolgere dalle infatuazioni, come  al solito epidermiche, dare rilievo al concetto di Speranza.

Speranza come Unione, come intuizione che l'individuo esiste in quanto  comunità.

 


Speranza di un Progetto, di una Libertà che racchiude le singole libertà e di cui si fa Progetto

domenica 5 dicembre 2010

La disperante solitudine e le calde illusioni

A contrastare la semplice e diretta dipendenza tra solitudine e disperazione è la ragion di vita di cui si fanno portatori molti santoni, ma anche semplici portatori d'acqua, uomini di casta e di chiesa,  di una silente disposizione alla vita solitaria.

Se l'umana disperazione fosse radicata nella semplice solitudine, e se questa ne fosse l'assoluta ragione, allora la depressione non avrebbe tanta tracotanza tra la nostra gente, così gelosamente protetta, non solo diurnamente,  da mamma da Tv e da tanti codazzi sonori.

Ma se così non è allora bisogna venire a ragione e discutere di altre cose e di altri sotterranei smottamenti che agitano le nostre insonni notti.

Ma benedette illusioni propinano rimedi insperati.

Dissipando le nebbie dell'orrore e della malvagia disperazione, veementi illusioni, occluse  in  invisibili meandri, riscaldano amorevolmente le viscere confortandole nelle frequenti vicissitudini.

 Benedette illusioni!

mercoledì 1 dicembre 2010

La morte di Monicelli: non è una tragica fine?

 

 

«Non è una tragica fine, è un uomo che ha vissuto. Ricordatelo con i suoi film », ha detto Niccolò Monicelli, il nipote del regista.

 

I suoi film non debbono nulla allo stile nè alle situazioni italiane nè alle mode del momento nè ai filoni in voga o alle esigenze commerciali: debbono tutto all'intelligenza personale sua e dei suoi sceneggiatori. E non soltanto all'intelligenza: Monicelli è stato un vero intellettuale, cresciuto in una famiglia toscana di intellettuali, un uomo colto in una accezione davvero molto rara di intellettuale capace di comprendere e rappresentare il sentimento popolare, di unire alla qualità satirica del grande commediante le emozioni umane e disumane, il grottesco, il ridicolo che danno sapore all'esistenza.

 

La satira di Monicelli, non indulge alla comicità facile o sboccata, non è mai qualunquista. E' la satira di un moralista deluso, che guarda con lucidità un mondo che non gli piace, gente che non apprezza. La sua unicità: nella forza del carattere che gli ha permesso di farla finita come voleva, quando voleva.

 

Non è una tragica fine: con il suo carattere, unico, ha deciso di farla finita come e quando voleva. Questa la sintesi di quanto espresso dal nipote di Monicelli e da Lietta Tornabuoni.

 

 

 Le parole molto spesso tradiscono i sentimenti e non rendono un grande servigio a chi in solitudine, e forse nella disperazione, ha compiuto il gesto finale.

 

Gesto attuato non in casa, tra gli affetti, ma in ospedale: in una struttura asettica, che non garantisce la riservatezza, la compassione, ma che porta più facilmente alla solitudine e alla disperazione.

 

Dobbiamo forse assumere come valore la disperazione e la decisione di recidere il filo della vita?

 

Perché non credere anche nella malattia come momento di  realizzazione, senza esaltazioni per carità, ma come inevitabile percorso di una struttura destinata comunque alla distruzione, almeno fisica?  Senza infingimenti. Nessuna equivocità.

 

Possiamo assumere  la vicinanza della morte, e a 95 anni è statisticamente più vicina che a 40 o 60 anni, come ulteriore momento di ricerca? Oppure la prospettiva di una sorella Morte deve rifuggire dal nostro pensiero?

 

Quest'ultimo tragico  atto che, nella descrizione di Lietta Tornabuoni, sembra in linea con la personalità di Monicelli, appare comunque il gesto del self-made-man, dell'uomo che apre e chiude una esperienza, con la sicurezza di chi non ha più bisogno di niente.

 

Un gesto che indebolisce quella  satira  che Monicelli ha saputo applicare con rigore e lucidità in tanti suoi film,  ma che, probabilmente nella malattia e nella solitudine di questa sua lunga vecchiaia, ha omesso di  esercitare sul suo percorso finale.

L'uomo  delle autonome e risolutive decisioni, in questi nostri tristi tornanti, appare grottesco e non aggiunge forza alla nostra debole speranza