mercoledì 1 dicembre 2010

La morte di Monicelli: non è una tragica fine?

 

 

«Non è una tragica fine, è un uomo che ha vissuto. Ricordatelo con i suoi film », ha detto Niccolò Monicelli, il nipote del regista.

 

I suoi film non debbono nulla allo stile nè alle situazioni italiane nè alle mode del momento nè ai filoni in voga o alle esigenze commerciali: debbono tutto all'intelligenza personale sua e dei suoi sceneggiatori. E non soltanto all'intelligenza: Monicelli è stato un vero intellettuale, cresciuto in una famiglia toscana di intellettuali, un uomo colto in una accezione davvero molto rara di intellettuale capace di comprendere e rappresentare il sentimento popolare, di unire alla qualità satirica del grande commediante le emozioni umane e disumane, il grottesco, il ridicolo che danno sapore all'esistenza.

 

La satira di Monicelli, non indulge alla comicità facile o sboccata, non è mai qualunquista. E' la satira di un moralista deluso, che guarda con lucidità un mondo che non gli piace, gente che non apprezza. La sua unicità: nella forza del carattere che gli ha permesso di farla finita come voleva, quando voleva.

 

Non è una tragica fine: con il suo carattere, unico, ha deciso di farla finita come e quando voleva. Questa la sintesi di quanto espresso dal nipote di Monicelli e da Lietta Tornabuoni.

 

 

 Le parole molto spesso tradiscono i sentimenti e non rendono un grande servigio a chi in solitudine, e forse nella disperazione, ha compiuto il gesto finale.

 

Gesto attuato non in casa, tra gli affetti, ma in ospedale: in una struttura asettica, che non garantisce la riservatezza, la compassione, ma che porta più facilmente alla solitudine e alla disperazione.

 

Dobbiamo forse assumere come valore la disperazione e la decisione di recidere il filo della vita?

 

Perché non credere anche nella malattia come momento di  realizzazione, senza esaltazioni per carità, ma come inevitabile percorso di una struttura destinata comunque alla distruzione, almeno fisica?  Senza infingimenti. Nessuna equivocità.

 

Possiamo assumere  la vicinanza della morte, e a 95 anni è statisticamente più vicina che a 40 o 60 anni, come ulteriore momento di ricerca? Oppure la prospettiva di una sorella Morte deve rifuggire dal nostro pensiero?

 

Quest'ultimo tragico  atto che, nella descrizione di Lietta Tornabuoni, sembra in linea con la personalità di Monicelli, appare comunque il gesto del self-made-man, dell'uomo che apre e chiude una esperienza, con la sicurezza di chi non ha più bisogno di niente.

 

Un gesto che indebolisce quella  satira  che Monicelli ha saputo applicare con rigore e lucidità in tanti suoi film,  ma che, probabilmente nella malattia e nella solitudine di questa sua lunga vecchiaia, ha omesso di  esercitare sul suo percorso finale.

L'uomo  delle autonome e risolutive decisioni, in questi nostri tristi tornanti, appare grottesco e non aggiunge forza alla nostra debole speranza

 

Nessun commento:

Posta un commento